IL
MOBBING AZIENDALE
Il
testo della sentenza emessa
dal Tribunale di Torino il 6.10.99
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
IL TRIBUNALE ORDINARIO DI TORINO
IN FUNZIONE DI GIUDICE DEL LAVORO
pronuncia
la seguente
S
E N T E N Z A
nella
causa iscritta al n. 5747 R.G.L. 1999,
promossa
da:
ERRIQUEZ
Giacomina,
rappresentata
e difesa dall’avv. Maria Braggion (domiciliataria), del Foro di Torino
PARTE
RICORRENTE
CONTRO
ERGOM
MATERIE PLASTICHE S.p.A.,
in
persona del presidente,
rappresentata
e difesa dagli avv.ti Marco Sertorio e Laura Di Braccio (domiciliatari),
entrambi del Foro di Torino
PARTE
CONVENUTA
SVOLGIMENTO
DEL PROCESSO
Con
ricorso depositato nella cancelleria della Pretura di Ciriè in data 18
settembre 1998 e riassegnato a questo ufficio il 18 giugno 1999, la sig.ra
Erriquez Giacomina, dipendente della S.p.A. Ergom Materie Plastiche dal 7.5.1996
al 20.12.1996, chiede al giudice del lavoro di condannare tale società a
risarcirle il danno biologico (e neurobiologico) patito, imputabile a fatto e
colpa del datore, in misura pari a L. 39.150.000= ovvero in quella diversa somma
in corso di causa accertata.
A
fondamento di tale domanda osserva quanto segue :
1.
viene assunta dalla soc.
Ergom Materie Plastiche con contratto a tempo determinato di mesi quattro
decorrente dal 7.5.1996, prorogato di altri quattro mesi e con scadenza
definitiva al 20.12.1996,
2.
dopo alcuni giorni di
permanenza al reparto assemblaggio-montaggio, viene assegnata a mansioni di
stampaggio con la macchina 140, in un reparto in cui operano una trentina di
persone, che ruotano su tre turni lavorativi, fra cui 6-7 donne,
3.
all’epoca dei fatti di
causa la macchina 140 è collocata in uno spazio assai angusto ed è ristretta
fra due enormi macchine, così da non consentire al prestatore che ne è addetto
alcun contatto con l’ambiente esterno, se non in occasione delle pause
fisiologiche, contrattualmente fissate in 20 minuti per ogni giornata di lavoro,
4.
tale assai pesante
situazione lavorativa è ulteriormente aggravata dalla presenza in azienda del
capo turno sig. Dumas, aduso a trattare in modo non urbano i propri sottoposti,
5.
il medesimo reagisce
infatti alle richieste di intervento della ricorrente per guasto macchina con
bestemmie ed insulti e alle lamentele in ordine all’eccessiva onerosità della
mansione con frasi sarcastiche ed offensive,
6.
dal 1° ottobre 1996
ella si assenta dal lavoro per malattia, avendo contratto, in conseguenza delle
intollerabili condizioni di lavoro e della situazione di segregazione patita,
una grave forma di crisi depressiva, con frequenti stati di pianto ed
agorafobia, crisi senza precedenti nella sua storia personale,
7.
nonostante la terapia
farmacologica praticata, i sintomi lamentati non regre-discono, compromettendole
definitivamente i rapporti interpersonali e sociali,
8.
dopo le proprie
dimissioni la macchina 140 viene collocata in una posizione diversa e meno
opprimente rispetto a quella esistente all’epoca dei fatti di causa,
9.
è attualmente
disoccupata ed ha "paura", per le sindromi neurologiche da cui è
affetta, di essere nuovamente inserita in ambienti lavorativi simili a quello
che ha lasciato.
Parte
convenuta si costituisce in giudizio e contesta la pretesa azionata in causa,
ritenendola destituita di fondamento.
Osserva
in particolare quanto segue :
1.
lo spazio attorno alla
macchina 140 misura, al tempo dei fatti di causa, m 1,50 per m 6,60 e cioè mq
9,90, cinque volte superiore ai 2 mq di superficie a disposizione di ogni
lavoratore, prescritta dall’art. 6 della legge 19 marzo 1956, n. 303, come
modificato dall’art. 33 del D. L.vo 19 settembre 1994, n. 626, e quindi
sostituito dall’art. 16, comma 4, del D. L.vo 19 marzo 1996, n. 242,
2.
tale macchina risulta
inoltre collocata in uno spazio che si affaccia su un corridoio di passaggio,
ove transitano numerosi compagni di lavoro,
3.
nel periodo di causa, i
lavoratori ruotano sempre alla macchina 140, onde infondato è l’assunto
contenuto in ricorso, secondo cui la lavoratrice vi sarebbe stata addetta con
continuità,
4.
la ricorrente non è mai
sata vittima di comportamenti persecutori da parte del capo turno del reparto,
sig. Dumas.
Fallita
la conciliazione, il giudice dà corso all’istruttoria, interrogando le parti
ed escutendo i testi.
All’esito
di ciò, la causa viene discussa dai patroni delle parti.
In
tale sede la difesa della ricorrente ribadisce l’istanza, già formulata in
corso di causa, di consulenza medico-legale, al fine di chiarire eziologia,
natura e gravità della patologia dalla medesima lamentata. La difesa della
convenuta ribadisce a sua volta la propria opposizione a tale richiesta, non
potendo la Ctu avere funzione esplorativa, di accertare cioè dati non
altrimenti acquisiti al giudizio, ma semplicemente quella di valutare, con
l’ausilio di una particolare disciplina tecnica, elementi di fatto già
certificati dalle carte processuali.
Dopo
la discussione orale, la vertenza viene infine decisa, come da dispositivo
trascritto in calce alla presente sentenza, di cui il giudice dà pronta lettura
alle parti.
MOTIVI
DELLA DECISIONE
1.
Sul mobbing in azienda.
Prima
di addentrarci nell’esame delle questioni specifiche di causa, occorre dare
conto – ai sensi del 2° comma dell’art. 115 cpc e, quindi, nel quadro delle
circostanze appartenenti al "fatto notorio", "acquisito alle
conoscenze della collettività in modo da non esigere dimostrazione alcuna in
giudizio" – di alcuni profili direttamente evocati dalla vicenda
prospettata in ricorso.
Da
alcuni anni gli psicologi, gli psichiatri, i medici del lavoro, i sociologi e più
in generale coloro che si occupano di studiare il sistema gerarchico esistente
in fabbrica o negli uffici ed i suoi riflessi sulla vita del lavoratore, ne
hanno individuato alcune gravi e reiterate distorsioni, capaci di incidere
pesantemente sulla salute individuale.
Si
tratta di un fenomeno ormai internazionalmente noto come mobbing.
Il
termine, proveniente dalla lingua inglese e dal verbo to mob [attaccare,
assalire] e mediato dall’etologia, si riferisce al comportamento di alcune
specie animali, solite circondare minacciosamente un membro del gruppo per
allontanarlo.
Spesso
nelle aziende accade qualcosa di simile, allorché il dipendente è oggetto
ripetuto di soprusi da parte dei superiori e, in particolare, vengono poste in
essere nei suoi confronti pratiche dirette ad isolarlo dall’ambiente di lavoro
e, nei casi più gravi, ad espellerlo; pratiche il cui effetto è di intaccare
gravemente l’equilibrio psichico del prestatore, menomandone la capacità
lavorativa e la fiducia in se stesso e provocando catastrofe emotiva,
depressione e talora persino suicidio.
Il
fenomeno ha ormai assunto, a seguito delle denunce di numerosi esperti di
settore (medici, sociologi ecc.) e delle stesse vittime, proporzioni senza
dubbio rilevanti, così da coinvolgere, secondo la stima di un autorevole
settimanale francese, in ogni paese europeo, percentuali non indifferenti di
lavoratori (v. oltre, Tavola I).
In
base a tale stima, oltre il 4% dell’intera forza lavoro occupata in Italia è
attualmente oggetto di pratiche di mobbing.
Inoltre,
secondo il Centro di disadattamento della prestigiosa Clinica del lavoro
"Luigi Devoto" di Milano, che al tema del mobbing a fine febbraio 1999
ha dedicato un seminario nazionale, ogni dipendente ha il 25% di possibilità di
trovarsi, nel corso della propria esperienza professionale, in tali condizioni,
mentre il 10% dei casi di suicidio presenta come concausa una situazione di
terrorismo psicologico sul posto di lavoro.
*
* *
2.
Sulla richiesta di Ctu medico-legale.
Fatta
questa doverosa premessa, assolutamente indispensabile al fine di inquadrare
correttamente le problematiche di causa nel contesto lavorativo e nel sistema di
relazioni endo-aziendali attualmente esistenti, i quale conoscono e registrano
con una certa frequenza pratiche di violenza morale e di terrorismo nei posti di
lavoro, passiamo ad esaminare il caso oggetto di causa.
In
sede di discussione finale della vertenza la difesa della ricorrente ribadisce
l’istanza, già formulata in corso di causa, di consulenza medico-legale, al
fine di chiarire eziologia, natura e gravità della patologia dalla medesima
lamentata.
Il
patrono della convenuta ribadisce a sua volta la propria opposizione a tale
richiesta, non potendo la Ctu avere funzione esplorativa e cioè di accertare
dati non altrimenti acquisiti al giudizio, ma semplicemente quella di valutare,
con l’ausilio di una particolare disciplina tecnica, elementi di fatto già
certificati dalle carte processuali.
Ad
avviso del giudice non vi è ragione di prendere posizione su tale questione
controversa, essendo l’accertamento peritale richiesto, nel caso in esame, del
tutto superfluo.
Gli
elementi raccolti in sede istruttoria, come si vedrà più oltre, risultano
infatti di portata tale da consentire la definizione di ogni profilo della
vertenza, sia per quanto concerne la sussistenza del fatto lamentato dalla
lavoratrice sia per ciò che attiene all’entità del danno patito, che esige
ristoro.
*
* *
3.
Sui fatti di causa.
L’istruttoria
esperita in corso di causa ha consentito di accertare che la ricorrente è stata
investita, nel corso del suo breve rapporto di lavoro con la società convenuta,
durato complessivamente 8 mesi (da maggio a dicembre 1996), da un’autentica
catastrofe emotiva e, in pari tempo, che è stata colpita da sindrome ansioso
depressiva reattiva, con frequenti crisi di pianto, vertigini, senso di
soffocamento, tendenza all’isolamento, sindrome protrattasi per numerosi mesi,
a partire da giugno 1996, e risoltasi solo nell’agosto 1998, dopo un primo
miglioramento registratosi in concomitanza con la cessazione della
collaborazione.
Di
ciò fanno fede, in modo assolutamente convergente, le deposizioni degli stretti
congiunti della lavoratrice e di una collega di lavoro del tempo nonché le
dichiarazioni e certificazioni in atti del medico di base e di due neurologi che
all’epoca l’hanno visitata; dalle quali emerge anche che la lavoratrice non
ha mai sofferto in antecedenza di tali disturbi e stati patologici e che fino al
periodo sopra citato la sua vita, anche in ambito familiare e segnatamente nei
rapporti con il marito ed i due giovani figli, è stata serena e si è svolta in
modo del tutto normale e regolare.
L’istruttoria
ha nel contempo consentito di acclarare che durante l’intercorso rapporto
lavorativo con la società convenuta la ricorrente è stata oggetto di gravi
atti di persecuzione da parte del suo diretto superiore, il capo turno sig.
Dumas.
Oltre
a molestarla sul piano sessuale, il superiore l’ha infatti stabilmente
collocata ad una macchina, la 140, chiusa tra altre macchine ed i cassoni di
lavorazione, così da impedirle possibili contatti, durante l’orario di
lavoro, con i colleghi e le colleghe o da renderli assai difficili ed
infrequenti.
Il
superiore – noto nell’ambiente lavorativo per il contegno abitualmente
irritante e arrogante e per il linguaggio incivile ed offensivo di cui è solito
fare uso e, in quanto tale, segnalato dalla RSU alla direzione aziendale per le
necessarie iniziative del caso – ha inoltre tenuto nei confronti della
ricorrente, ripetutamente, specie in occasione delle doglianze relative alla
mancata rotazione sulla macchina 140 o anche di semplici richieste di intervento
per guasti meccanici alla stessa, un comportamento offensivo e violento, sul
piano verbale.
Orbene,
sulla base di tale accertamento può ritenersi fornita la prova del nesso di
causalità tra la patologia insorta improvvisamente nella lavoratrice e
l’ambiente di lavoro. Del che deve indubbiamente essere chiamato a rispondere
il datore di lavoro, ai sensi dell’art. 2087 cc, essendo questi tenuto a
garantire l’integrità fisio-psichica dei propri dipendenti e, quindi, ad
impedire e scoraggiare con efficacia contegni aggressivi e vessatori da parte di
preposti e responsabili, nei confronti dei rispettivi sottoposti.
Per
completezza di motivazione va dato atto, a questo punto, di quanto sostenuto
dalla difesa della società convenuta nel corso della discussione finale della
vertenza, al fine di ottenere una pronuncia di rigetto della domanda azionata in
giudizio. E cioè che l’evento lamentato dalla lavoratrice in ricorso, ove
realmente provato in causa e correlabile alle condizioni di lavoro, non potrebbe
comunque essere giuridicamente addebitato al datore, per i seguenti tre ordini
di motivi :
a.
risulta nella specie
rispettata la normativa sullo spazio fisico a disposizione del prestatore, quale
consacrata dall’art. 6 della legge 19 marzo 1956, n. 303, e successive
modificazioni, onde non si versa in ipotesi di contegno contra legem,
b.
all’epoca in cui i
fatti di causa si sono svolti, inoltre, nulla è stato segnalato e portato a
conoscenza del datore e, pertanto, non sussistono gli estremi di colpa e
prevedibilità, necessari ad integrare l’illecito civile,
c.
la vicenda evidenzia
infine una particolare "labilità emotiva" della lavoratrice,
certificata dalla stessa Relazione della dott.ssa Orsi 28.2.1997, e cioè uno
stato soggettivo, capace da solo di generare l’evento lamentato dalla
ricorrente e di spiegare quanto accadutole sul piano personale.
L’assunto
sub a), afferente il rispetto della normativa, è del tutto privo di fondamento.
Dalle
deposizioni dei testi escussi emerge infatti che la zona prospiciente la macchia
140 era costantemente occupata da materiale e cassoni di lavorazione;
conseguentemente lo spazio vitale a disposizione della lavoratrice era
assoluta-mente carente, in violazione del requisito di "sufficienza"
prescritto dalla lett. a), par. 2, Allegato VII al D. L.vo 19 settembre 1994, n.
626.
Del
pari infondato è il rilievo sub b), concernente la mancata segnalazione dei
fatti di causa al datore.
Il
teste Ruberto, rappresentante sindacale dal 1990, ha infatti dichiarato quanto
segue :
"Nella
mia qualità di rappresentante della sicurezza dei lavoratori (RSL) avevo a suo
tempo posto il problema della ristrettezza dello spazio tra la 140 e la macchina
retrostante. Questo tipo di questione l’avevo già posto prima dell’inizio
del rapporto di lavoro della ricorrente e mi è capitato di porlo più volte. A
quell’epoca io ero già rappresentante della sicurezza lavoro.
La
ragione per la quale ho avanzato la questione dello spazio tra la 140 e la
macchina retrostante, è legato al fatto che in tale spazio erano presenti :
pedane, stampi macchina, cassoni. Nel periodo di lavoro della ricorrente alla
140, tra la 140 e la macchina retrostante, vi erano in particolare un cassone
collocato dietro l’operatore per mettere gli scarti di lavorazione, due
[cassoni] davanti all’operatore : uno per il semilavorato e l’altro per il
prodotto costampato e cioè di lavorazione finita.
[…]
Ho fatto presente la situazione di ristrettezza dello spazio tra la 140 e
l’altra macchina e l’ingombro della zona di lavorazione dell’operatore,
direttamente al capo turno, sig. Dumas. Ho fatto presente questa questione al
sig. Dumas una decina di volte circa. […] Alle mie segnalazioni, il sig. Dumas
rispondeva a volte recandosi in loco e togliendo ad esempio un cassone, in modo
tale da avere il passaggio un po’ più libero. Altre volte mi rispondeva
dicendo che lo spazio era quello."
A
sua volta il teste Ribatto ha riferito ciò che segue :
"All’epoca
del rapporto di lavoro della ricorrente io ero delegato sindacale e lamentele
sulla 140 ne sentivo parecchie.
[…]
Ho fatto presente la situazione di ristrettezza dello spazio prospiciente la 140
con i superiori. Penso con il capo reparto dell’epoca …
I
cassoni dei semilavorati venivano collocati all’estremità della 140 e in
prossimità del corridoio in cui passano i carrelli.
Le
lamentele sulla ristrettezza dello spazio attorno alla 140 erano legate al fatto
che c’erano cassoni ed erano lunghi m 1,20."
Quanto
dichiarato dal teste Ruberto è inoltre confermato, in sede testimoniale, dallo
stesso capo turno sig. Dumas.
Questi
infatti, dopo avere in un primo tempo negato la circostanza riferita dal sig.
Ruberto, asserendo
"che
io sappia gli RSL non si sono mai lamentati della ristrettezza dello spazio
prospiciente la macchina 140",
così
poi si è espresso, dopo le contestazioni del giudice :
"Prendo
atto di quello che lei mi dice e cioè che un teste sentito oggi prima di me, il
sig. Ruberto, ha riferito di avermi segnalato l’ingombro della zona di
lavorazione prospiciente la macchina 140 e di avermi fatto presente tale
questione una decina di volte circa.
Confermo
l’esattezza di quanto ha riferito il teste Ruberto. La cosa è stata segnalata
non solo da lui ma anche da altri operai."
Del
tutto destituito di fondamento è infine quanto evidenziato sub c), in
riferimento alla particolare labilità emotiva della lavoratrice e all’idoneità
di tale dato, da solo, a spiegare quanto accadutole.
Stando
alle deposizioni, concordi in punto, dei prossimi congiunti, di una collega di
lavoro dell’epoca e del medico di base, la ricorrente non ha mai manifestato,
prima dei fatti di causa e anche nel corso di pregressi rapporti di lavoro,
alcuna debolezza o cedevolezza sul piano emotivo e comportamentale. E, d’altra
parte, secondo quanto ha chiarito la stessa dott.ssa Orsi, solo "condizioni
lavorative particolarmente disagevoli" possono determinare in soggetti con
dati della personalità simili a quelli della ricorrente sindrome di tipo
depressivo, riscontrabile, alla lunga, anche in individui con tratti differenti
del carattere.
Nel
caso in esame non è conseguentemente prospettabile – in riferimento alla
previsione di cui ai commi 2° e 3°, dell’art. 41 cp e argomentando da essa
– un’ipotesi di esclusione del nesso di causalità, per la preesistenza di
causa efficiente autonoma, capace da sola di generare l’evento lesivo.
A
ciò aggiungasi che se, come vittima dell’altrui sopruso, la lavoratrice ha
reagito con profondo turbamento, così profondo da determinare l’insorgenza di
una sindrome depressiva reattiva, ciò è cosa che non modifica né la realtà
della prevaricazione né la sua posizione di persona offesa da essa.
La
costituzione, nel suo art. 32, e la legge, nell’art. 2087 cc, tutelano infatti
tutti indistintamente i cittadini, siano essi forti e capaci di resistere alle
prevaricazioni siano viceversa più deboli e quindi destinati anzitempo a
soccombere.
*
* *
4.
Sul ristoro del danno patito.
Accertata
in base a quanto precede la sussistenza di condotte antigiuridiche produttive di
danni, imputabili a fatto e colpa della società datrice di lavoro, si tratta a
questo punto di determinare il quantum debeatur.
In
proposito va osservato che non si versa in ipotesi di invalidità permanente,
essendosi la patologia insorta nella lavoratrice risolta nell’agosto 1998,
dopo un primo significativo miglioramento già registratosi in concomitanza con
la cessazione della collaborazione lavorativa.
In
rapporto a tale dato e tenuto conto del danno biologico medio tempore procurato
alla ricorrente e della durata di esso, alla medesima viene equitativamente
liquidato l’importo netto di L. 10.000.000=.
A
ciò vanno aggiunti gli interessi legali dal gennaio 1997 al saldo.
Le
spese di lite, liquidate in dispositivo, vengono poste a carico della parte
soccombente.
Considerato
quanto accertato in causa, la cancelleria dovrà trasmettere copia della
presente sentenza al Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Torino,
per le valutazioni e le eventuali iniziative del caso.
P.
Q. M.
IL
TRIBUNALE ORDINARIO DI TORINO
IN
FUNZIONE DI GIUDICE DEL LAVORO
Visto
l’art. 429 c.p.c.;
1.
CONDANNA parte convenuta
a corrispondere a parte ricorrente l’importo netto di L. 10.000.000=, oltre
interessi legali dal gennaio 1997 al saldo;
2.
CONDANNA parte convenuta
a rifondere a parte ricorrente le spese di lite, che liquida in L. 6.000.000=,
oltre IVA e CPA;
3.
DICHIARA esecutiva la
presente sentenza.
Torino,
6 ottobre 1999.
IL
GIUDICE
dott.
Vincenzo CIOCCHETTI
Sentenza
n. 5050/99.
Motivazione depositata in cancelleria il 16 novembre 1999.