Deve
essere provato il nesso causale tra danno biologico e persecuzione
Mobbing,
onere della prova a carico
del lavoratore
(Cassazione 5491/2000)
Il lavoratore che sia vittima di comportamenti "persecutori" da parte del datore di lavoro ha diritto al risarcimento del cosiddetto "danno biologico" (ad es. disturbi al sistema nervoso) ma deve dimostrare l’esistenza di un "nesso causale" tra il comportamento del datore di lavoro ed il pregiudizio alla propria salute.
Questo
il principio stabilito dalla Sezione Lavoro della Corte di Cassazione, che ha
affrontato il caso di un lavoratore, impegnato nell’attività sindacale, che
lamentava di aver subito un comportamento persecutorio da parte del datore di
lavoro, che gli aveva spesso inflitto sanzioni risultate poi illegittime,
ostacolando in ogni modo e quotidianamente la sua attività; questo aveva
determinato l’insorgenza di disturbi nervosi con somatizzazioni (nausea,
vomito, dolori epigastrici), per cui il dipendente aveva chiesto il risarcimento
del danno biologico. Il Pretore gli aveva dato ragione, ma la decisione era
stata riformata in secondo grado, e per questo motivo l’uomo era ricorso in
Cassazione. La Suprema Corte ha però rigettato la domanda, ritenendo che il
lavoratore non avesse provato l’esistenza di un rapporto di causalità tra la
condotta del datore di lavoro ed il danno alla salute. In particolare, il
lavoratore non lamentava un danno biologico subito a causa di un unico
comportamento eclatante (come, ad es., un infortunio sul lavoro) ma un danno
derivante da una "attività persecutoria" fatta di piccoli dispetti
quotidiani: in tali casi, la prova del nesso causale tra il "mobbing"
e il pregiudizio alla salute è piuttosto difficile da fornire. (15
giugno 2000)
Suprema
Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, sentenza n.5491/2000
LA
CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE
LAVORO
SENTENZA
SVOLGIMENTO
DEL PROCESSO
Con
ricorso al Pretore di Milano Francesco Florindo C. conveniva in giudizio l'
Ansaldo Industria S.p.A. chiedendo che venisse accertato e dichiarato che, a
seguito dell’ illegittimo comportamento della Società convenuta, esso
ricorrente aveva subito un danno biologico, di cui era responsabile la convenuta
ex art.2087 c.c. con conseguente condanna della stessa Società a risarcire
detto danno nella misura ritenuta equa e comunque non inferiore a lire
600.000.00. A fondamento della domanda deduceva di essere stato destinatario,
nel corso del rapporto di lavoro ed in ragione dell'attività sindacale da lui
svolta, di numerosi comportamenti aziendali illegittimi, che gli avevano
procurato i danni lamentati.
Instauratosi
il contraddittorio, la società Ansaldo confermava quanto esposto dal ricorrente
circa il suo ruolo di spicco nell'attività sindacale che lo aveva portato a
situazioni di aperto contrasto con la Società. In questo contesto si erano
verificate reazioni da parte della stessa manifestatesi in procedimenti
disciplinari a volte dichiarati legittimi ed altre volte illegittimi. Si erano
avuti anche casi di licenziamenti con sorti alterne ed una causa di superiore
inquadramento, la cui domanda era stata respinta.
La
resistente negava,pertanto, che fossero stati attuati nei confronti del
ricorrente atteggiamenti specificamente vessatori.
Con
sentenza del 14 dicembre 1995, il Pretore, ritenuto che il C. aveva manifestato
stati qualificabili come disturbi nevrotici con somatizzazione da collegarsi ai
comportamenti dell' Ansaldo, condannava la Società al risarcimento per il danno
biologico determinato nel lavoratore nella misura di lire 90.000.000.
Avverso
tale decisione proponeva appello l' Ansaldo, chiedendo la riforma della
sentenza.
Ricostituitosi
il contraddittorio, il C. resisteva al gravarne.
Con
sentenza del 18-30 ottobre 1996, l’adito Tribunale di Milano, ritenuto che le
emergenze processuali configuravano un quadro caratterizzato dall’assenza di
significativi e ripetuti episodi persecutori in senso proprio, dalla inesistenza
di rapporti causali tra persecuzioni lamentate e disturbi affermati e dalla
presenza di significative condizioni autogene di tensioni emotive, accoglieva il
gravame, rigettando la domanda e disponendo la restituzione delle somme versate
in esecuzione della sentenza riformata e la condanna del soccombente alle spese
di entrambi i gradi di giudizio.
Per
la cassazione di tale sentenza ricorre il C. con tre mezzi di impugnazione,
ulteriormente illustrati da memoria ex art.378 c.p.c..
Resiste
la Ansaldo Industria S.p.A. con controricorso.
MOTIVI
DELLA DECISIONE
Con
il primo motivo il ricorrente deduce violazione e/o falsa applicazione degli artt.2043
e 2087 c.c., 7 S.L., 1 legge 604/66 [1]
nonchè l'omessa e/o insufficiente e/o contraddittoria motivazione su un
punto decisivo della controversia, lamentando che il Tribunale di Milano, senza
fornire spiegazione alcuna, aveva considerato evalutato la domanda non sotto il
profilo della responsabilità contrattuale ex art.2087 c.c., secondo la sua
impostazione, bensì sotto quello della responsabilità aquilania ex art.2043
c.c.; anche in tale diversa prospettiva, era stato peraltro violato l'art .2043
c.c. allorquando si era a torto escluso che un licenziamento o una costituire un
illecito; operando tale esclusione aveva violato l'art.7 S.L.e I'art.l
sanzionatorio e risolutorio del datore di lavoro; era stato violato ancora una
volta l'art.2043 c.c., allorquando era stato ritenuto che l'elemento soggettivo
del dolo o della colpa, nel caso di licenziamento (odi sanzione disciplinare)
fosse configurabile solo allorchè vi fosse la consapevolezza, da parte
dell'autore dell'atto, della sua illiceità; era stato violato l'art.2087 c.c.
allorchè non era stata presa in esame la questione della possibilità teorica
che un illegittimo licenziamento ( o una illegittima sanzione disciplinare)
fosse in contrasto con detta norma, sempre che da tale provvedimento il
lavoratore avesse subito un danno alla salute.
Con
il secondo motivo, deduce ancora violazione e/o falsa applicazione dell'art.2087
c.c. (sotto un diverso profilo) nonchè degli artt. 39 Cost., 14, 15, 19 e 28
S.L. oltre all' omessa e/o contraddittoria motivazione su un punto decisivo
della controversia posto che il Tribunale, violando le suddette noffile dello
Statuto dei Lavoratori, avrebbe ritenuto la serie di comportamenti, indicati
come vessatori tenuti dall' Ansaldo, del tutto inidonei a causare un'alterazione
dell'equilibrio fisico e psichico del C..
Con
il terzo motivo, deduce infine, ancora sotto un diverso profilo, la violazione
e/o falsa applicazione dell'art.2087 c.c. nonchè l'omessa e/o insufficiente e/o
contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia, lamentando
l'erroneità della impugnata decisione nella parte in cui viene escluso il nesso
di causalità tra il danno accertato dalla CTU ed il comportamento aziendale. Il
ricorso è infondato, anche se parte delle censure mosse alla sentenza impugnata
ancorchè non determinanti al fine del decidere- sono da condividere.
Non
vi è dubbio che il Tribunale ricollega la responsabilità risarcitoria per
lesione dell'integrità psicofisica del lavoratore all'art. 2043 c.c.,
nonostante il riferimento, da parte del lavoratore, alla responsabilità fondata
anche sull'art.2087 c.c. e, senza in realtà enunciare la regola dell' onere
probatorio, evidenzia la necessità, in quest'ottica, di una indagine
sull'atteggiamento psicologico caratterizzante i comportamenti ritenuti dannosi.
In
proposito, occorre preliminarmente osservare che sul datore di lavoro gravano
sia il generale obbligo di neminem laedere, espresso dall'art.2043 c.c., la cui
violazione è fonte di responsabilità extra-contrattuale, sia il più specifico
obbligo di protezione dell'integrità psico-fisica del lavoratore sancito
dall'art.2087 c.c. ad integrazione ex lege delle obbligazioni nascenti dal
contratto di lavoro, la cui violazione è fonte di responsabilità contrattuale;
sicchè il danno biologico, inteso come danno ali' integrità psicofisica della
persona in se considerato, a prescindere da ogni possibile rilevanza o
conseguenza patrimoniale della lesione, può in astratto conseguire sia all'una
che all'altra responsabilità.
A
tale conclusione deve pervenirsi considerando che l'integrità psicofisica e
morale dell'individuo trova riconoscimento giuridico non solo quale interesse
tutelato da leggi ordinarie ( si pensi agli artt. 581, 582, 590 e 185 c.p. o
alI'art.5 c.c.) e da leggi speciali (come l'art.9 dello stat. lav.) , ma
addirittura da norme di rango costituzionale, quali quelle contenute nell'art.32
Cost. che garantisce la salute come fondamentale diritto dell'individuo,
nell'art.41 che pone precisi limiti alt' esplicazione dell'iniziativa economica
privata stabilendo, fra I' altro, che la stessa non può svolgersi "in modo
da arrecare danno alla dignità umana e nell'art.2 che tutela i diritti
inviolabili dell'uomo anche "nelle formazioni sociali, ove si svolge la sua
personalità" e richiede l'adempimento dei doveri di solidarietà sociale.
Questi
principi, aventi carattere immediatamente precettivo, non solo debbono essere
osservati, alla stregua di regole inderogabili imposte dall ' ordinamento, nello
svolgimento di qualunque attività posta in essere sia al di fuori di
qualsivoglia vincolo contrattuale, sia nell ' esecuzione di un contratto, ma
hanno posto altresì le basi per l’accoglimento di criteri interpretativi da
tener presenti di fronte a qualsiasi disposizione di legge o regolamentare (in
senso conforme, Cass.17 luglio 1995 n.7768).
Pertanto
come osservato in altra, per certi versi, affine occasione da questa Corte,anche
dell'art.2087 c.c. principi, in modo tale che dalla sua formulazione letterale,
ai sensi dell' art.12 delle disposizioni sulla legge in generale, debba
ricavarsi un significato corrispondente all’intenzione del legislatore in
aderenza al dettato costituzionale (cfr. Cass. 7768/ 95 cit.).
In
questa prospettiva appare evidente che il contenuto dell 'obbligo previsto
dall'art.2087 c.c. non può ritenersi limitato al rispetto della legislazione
tipica della prevenzione, riguardando altresì il divieto, per il datore di
lavoro, di porre in essere, nell 'ambito aziendale, comportamenti che siano
lesivi del diritto alla integrità psicofisica del lavoratore. E, poichè tale
obbligo, come pacificamente si afferma da parte della dottrina e della
giurisprudenza, ha indubbia natura contrattuale, i predetti comportamenti, in
quanto lesivi di beni primari della persona umana, possono costituire al
contempo fonte di responsabilità contrattuale ed aquiliana.
Dalla
natura contrattuale dell’illecito consistente, evidentemente, anche se non
espressamente precisato dal ricorrente, nell' inadempimento dell' obbligo ( del
datore di lavoro) di adottare tutte le misure necessarie a tutelare l’integrità
psicofisica del lavoratore, il C. non sembra, tuttavia, trarre alcuna
conseguenza di rilievo rispetto a quella ricavabile dalla configurazione di
illecito extracontrattuale attribuita dal Tribunale.
In
realtà, la natura contrattuale dell'illecito non comporta che si versi in una
fattispecie di responsabilità oggettiva, fondata sul mero riscontro del danno
prestazione lavorativa, occorrendo pur sempre I' elemento della colpa, che
accomuna la responsabilità contrattuale e quella aquiliana (Cass. 8 luglio 1992
n. 8325).
Tale
natura acquista, invece, I rilevanza in relazione al particolare regime
probatorio che per la responsabilità contrattuale è quello previsto
dall'art.1218 c.c. e non già quello dell'art.2043 c.c., previsto per la
responsabilità extracontrattuale nonchè in relazione all’oggetto della
stessa prova a darsi; sicchè, con riferimento a fattispecie come quella in
esame, deve affermarsi che grava sul datore di lavoro l’onere di provare di
avere ottemperato all’obbligo di protezione dell’integrità psicofisica del
prestatore, mentre, può subito aggiungersi, grava sul lavoratore l’onere di
provare sia la lesione dell’integrità psicofisica, sia il nesso di causalità
tra tale evento dannoso e l’espletamento della prestazione lavorativa (v. sul
punto, Cass. 21 dicembre 1998 n. 12763).
Nel
caso di specie, per vero, il Tribunale, senza enunciare la regola dell’onere
probatorio, di cui ha fatto applicazione, arriva alla conclusione che rispetto a
nessuno degli atti e provvedimenti esaminati era rilevabile (per la loro
collocazione temporale, per la loro appartenenza ad un contesto che, pur
rendendo illegittimi taluni di essi, non consentiva di interpretali come dolosi
o colposi, per l’oggettiva irriferibilità di taluni di essi ad una intenzione
vessatoria e per l’esiguo numero di quelli sicuramente arbitrari)
quell'atteggiamento psicologico, consistente nella consapevolezza originaria
della loro arbitrarietà, la cui esistenza, ad avviso del Giudice a quo, era
imposta per poter fondare una responsabilità aquiliana. E da ciò ha desunto
che, non essendo emerso dalle risultanza istruttorie alcun comportamento
colpevole del datore di lavoro, quest'ultimo andava assolto dalla domanda.
Viceversa,
applicando all'opposto la regola dell'onere probatorio che vige per la
responsabilità contrattuale, in relazione allo specifico tema di indagine, il
rigetto della domanda per esclusione della colpa del datore di lavoro
presupponeva la prova di quest'ultimo di avere adempiuto all' obbligo di
protezione posto dall'art.2087 c.c..
Pertanto,
in questo senso, la censura del ricorrente appare fondata, non avendo il
Tribunale affrontato la questione de qua nella corretta prospettiva ed
omettendo, per ciò stesso, di motivare in proposito.
Senonchè
il Tribunale con altro ordine di argomentazioni, le quali non risultano
inficiate dalle censure del ricorrente, ha escluso la sussistenza del nesso di
causalità evidenziando I' erroneità delle conclusioni cui era giunto il
Pretore in proposito e che non trova giustificazione neppure nella perizia.
A
detta del Tribunale, infatti, il nesso di causalità non trovava alcun riscontro
in rapporto ad entrambi gli aspetti secondo i quali si sarebbe manifestata, a
dire dello stesso C. quella lesione della sua salute costituente il c.d. danno
biologico; in rapporto cioè sia al profilo, costituito dalla perdita del suo
patrimonio affettivo in termini di crisi del matrimonio, di disadattamento con
la seconda compagna e di perdita di relazioni sociali ed amicali, sia a quello
manifestatosi attraverso la somatizzazione (nausea, vomito, dolori epigastrici,
irritabilità et similia) delle sofferenze psichiche indotte dal comportamento
dell' Ansaldo.
Sotto
il primo aspetto, il fatto indicato come effetto (perdita di moglie, compagna,
amici) è stato dal Tribunale ritenuto immediatamente riportabile ad una scelta
umana delle persone sopra indicate, non risultando in alcun modo che le
vessazioni, era diventato tanto irritabile ed intrattabile da indurre i soggetti
indicati ad allontanarsi da lui.
Una
tale condizione, infatti, neppure prospettata dal C., non era emersa dalle
prove, risultando invece dalle stesse dichiarazioni del lavoratore essere stata
una conseguenza della priorità attribuita al proprio impegno sindacale, ad una
scelta di vita totalizzante rispetto alla quale ne derivava come logica
conseguenza l'incompatibilità con ogni altra persona che non accettasse la
stessa scala di valori.
Anche
sotto il secondo profilo, il Tribunale ha escluso la sussistenza del nesso di
causalità evidenziando l’erroneità della conclusione cui è giunto il
Pretore sul punto e che non trovavano giustificazione neppure nella consulenza
di ufficio.
Infatti,
considerate le incoerenze e le manchevolezza della consulenza, ben segnalate
dallo stesso Tribunale, da essa era dato desumere, per un verso, come i disturbi
sofferti come dal C. non erano in alcun modo da porre in relazione con i
comportamenti dell’Ansaldo, tenuto conto dei tempi di insorgenza; e, per
altroverso, che le sue scelte , del tutto autonome, e l’impegno in esse
profuso venivano a confliggere con strutture profonde (affetti) o più forti
(organizzazioni sindacali maggioritarie, imprese con programmi produttivi
condizionanti), implicando inevitabilmente, di per sé, tensioni e conflitti e
costituendo perciò stesso, indipendentemente cioè dall’intervento di fattori
specifici causa di disturbi psicosomatici.
Trattasi
di valutazioni di merito, ampiamente e minuziosamente argomentate, rispetto alle
quali le censure mosse in ricorso al di là della loro formale prospettazione,
si configurano come espressione di un mero dissenso rispetto alle conclusioni
cui è pervenuto ilTribunale.
Il
ricorso va pertanto rigettato.
P.Q.M.
Roma 14 dicembre 1999 . Sentenza depositata il 2 maggio 2000.