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CENTRO
STUDI DIRITTO DEL LAVORO "DOMENICO NAPOLETANO"
SEZIONE
LIGURE
convegno
MOBBING: 3
Dicembre 1999, ore 15
Il
termine inglese "Mobbing" è mutuato dalla tradizione etologica.
Fu infatti l'etologo Konrad Lorenz ad utilizzare, nel 1971, questo vocabolo
per indicare l'attacco di un gruppo di animali a danni di un altro animale. Tale
parola è stata utilizzata dalle discipline che studiano le relazioni umane
per definire le intimidazioni e le violenze nei luoghi di lavoro che
rappresentano un fenomeno più diffuso di quanto non si pensi. I danni che
ne derivano sono talvolta molto consistenti, ma le persone colpite li
patiscono quasi sempre in silenzio e solitudine, così che tali disagi non
emergono. L'organizzazione Mondiale della Sanità e alcuni Istituti Europei,
come la "Fondazione Europea per il Miglioramento delle Condizioni di
Vita e di Lavoro" considerano da tempo le relazioni sociali nei luoghi
di lavoro come problemi di salute e sicurezza lavorativa da affrontare e
risolvere. In
Italia esiste una proposta di legge, la n. 6410 dei 30 settembre 1999, che
ha per oggetto la tutela dei lavoratori da atti e comportamenti ostili che
assumono le caratteristiche della violenza e della persecuzione psicologica,
nell'ambito dei rapporti di lavoro, intendendo, per violenza e persecuzione
psicologica... "gli atti posti in essere e i comportamenti tenuti da
datori di lavoro, nonché da soggetti che rivestano incarichi in posizione
sovraordinata o pari grado nei confronti dei lavoratore, che mirano a
danneggiare quest'ultimo e che sono svolti con carattere sistematico e
duraturo e con palese determinazione". Il presente convegno esamina il fenomeno da tre diverse angolazioni: quella dei medico dei lavoro in relazione alle caratteristiche della patologia, quella del diritto dei lavoro che esamina la tutela giudiziaria nelle varie fattispecie, ed infine quella dei danno biologico e morale, anche alla luce della nuova disciplina codicistica.
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La
Medicina del Lavoro e il fenomeno del
Mobbing Dott
LIONELLO PARDINI Il
termine mobbing ,usato da tempo in etologia, si è sempre più
diffuso in questi ultimi anni nel linguaggio comune per indicare il
comportamento aggressivo e di violenza psicologica attuato da colleghi di
lavoro e/o superiori nei confronti di un lavoratore individuato come
vittima, bersaglio. Tale fenomeno, di per sé stesso molto antico e
connaturato (quando non assume aspetti patologici ) ai rapporti
interpersonali, ha cominciato ad essere analizzato in forma sistematica solo
negli ultimi quindici anni circa e agli inizi esclusivamente per merito di
studiosi scandinavi operanti nell’ambito della psicologia del lavoro,
disciplina che studia le problematiche psicologiche che concernono l’uomo
in quanto produce, vende, usa beni e servizi e dell’ambiente sia fisico
sia psicologico nel quale il lavoratore è inserito, per modificare tali
realtà, renderle più idonee. Per fare questo la psicologia del lavoro si
avvale del contributo di specialisti in medicina del lavoro, psicologia,
psichiatria, sociologia, ergonomia… . I primi lavori scientifici sono
stati realizzati dal dott. Heinz Leymann e successivamente l’interesse si
è spostato dalla Svezia in Norvegia e soprattutto in Germania attualmente
all’avanguardia nello studio di tale fenomeno. Appare
necessario, prima di approfondire alcuni aspetti del problema, cercare di
formulare una definizione o almeno delineare un area entro la quale far
rientrare, per come è inteso oggigiorno, il mobbing: diciamo allora che per
parlare di tale fenomeno dobbiamo trovarci di fronte a un lavoratore fatto
oggetto di ripetute ingiustizie, vessazioni, violenze morali attraverso le
quali progressivamente il soggetto viene intimorito deriso sminuito reso
inutile e alla fine isolato dalla realtà lavorativa che lo circonda; queste
manifestazioni devono essere continue, della durata di almeno sei mesi e
avere come protagonisti in negativo un diretto superiore e/o l’intero
gruppo di appartenenza della vittima. Secondo
Le ricerche di Leymann (cfr. Prevenzione oggi- ISPESL n°2/1997) esistono
quattro fasi attraverso le quali si sviluppa il mobbing .Nella prima fase
compare un evento in grado di modificare i rapporti all’interno di un
gruppo o di una scala gerarchica: l’inserimento di un nuovo elemento, la
promozione di un dipendente… . Nella seconda si realizzano gli effettivi
meccanismi alla base del mobbing: lentamente la persona si trova sempre più
isolata e impossibilitata a svolgere serenamente la propria attività fino
al punto (terza fase) che il caso diventa ufficiale all’interno dell’azienda
senza che di norma la vittima possa far valere le proprie ragioni ed anzi ne
esca con sentimenti di accentuata sfiducia nei propri mezzi ed auto
colpevolezza. L’epilogo, nell’ultima fase caratterizzata da turbe
psichiche e somatiche che possono richiedere anche lunghi periodi di riposo
domiciliare, prevede abitualmente il licenziamento o le dimissioni. Come
detto si tratta di esperienze derivanti dal mondo lavorativo del Nord Europa
mentre ancora non disponiamo di studi riferibili alla realtà occupazionale
italiana. Quanto
descritto circa le modalità di insorgenza e di sviluppo del fenomeno ci
permette schematicamente di dividere il mobbing in due diverse categorie: il
mobbing orizzontale e verticale. Nell’orizzontale, per definizione,
troviamo un lavoratore vittima degli stessi colleghi e di norma questo può
essere letto attraverso una duplice chiave di lettura: la prima riguarda
più strettamente l’organizzazione del lavoro. In tal senso un dipendente,
o neoassunto o trasferito o promosso, col suo arrivo scardina in qualche
modo un gruppo già collaudato e dotato di propri equilibri interni che
tendono spesso ad appiattire la personalità e la professionalità dei
singoli. Sono di solito persone intraprendenti, creative in grado di turbare
meccanismi conosciuti e accettati da tutti i componenti, ed essendo inoltre
soggetti che " investono " affettivamente nelle loro
manifestazioni, di sicuro soffrono maggiormente per le difficoltà crescenti
che incontrano nell’ambiente di lavoro. Nel secondo caso l’emarginazione
progressiva della vittima passa attraverso la diversità della vittima
stessa rispetto al gruppo: pensiamo principalmente ai portatori di handicap
fisico o mentale ma non dimentichiamo le diversità legate alla religione,
sessualità, razza, in certi casi addirittura gli interessi extralavorativi. Il
mobbing verticale può essere esercitato da un singolo superiore che per
diversi motivi ( volontà di raggiungere massimi livelli di efficienza,
invidia , paura di perdere potere nella struttura gerarchica..) oltrepassa i
limiti della propria supremazia professionale fino a esercitare
atteggiamenti particolarmente aggressivi e punitivi nei confronti della
propria vittima. Tali atteggiamenti di norma vengono poi assunti da altri
dipendenti, determinando un progressivo isolamento della vittima. Secondo
analisi psicologiche, alla base di tale fenomeno esiste comunque sempre un
disturbo della personalità dell’aggressore che nell’infanzia deve aver
vissuto come vittima esperienze analoghe. Freud definisce tale meccanismo
"identificazione con l’aggressore". Quando
invece è la struttura gerarchica in quanto tale ad esercitare, per
strategia aziendale, una crescente forma di pressione psicologica e di
progressivo isolamento di singoli o più frequentemente gruppi di lavoro ci
troviamo di fronte ad un ulteriore forma di mobbing, da taluni definito
anche bossing. L’attuale realtà lavorativa offre esempi chiari di
ristrutturazioni, fusioni aziendali che possono richiedere contrazione di
forza lavoro, ottenuta appunto in taluni casi attraverso questi odiosi
strumenti che sfociano in un modo o nell’altro nell’abbandono del posto
di lavoro. Al
di là comunque di possibili equivoci o incertezze sui termini utilizzati
nei diversi paesi interessati dal fenomeno, risulta chiaro, anche dagli
studi finora realizzati, come il mobbing attraversi per così dire
trasversalmente tutto il mondo del lavoro e non risparmi quindi le diverse
categorie professionali dall’operaio all’alto dirigente. Al
termine di questi diversi percorsi sopradescritti la realtà finale è che
parlando di mobbing ci troviamo di fronte ad uno o più lavoratori che per
le vessazioni subite hanno riportato una alterazione del proprio stato di
salute. Le
esperienze fino a questo punto raccolte nei diversi centri di studio hanno
dimostrato come agli individui colpiti da mobbing e giunti all’osservazione
di specialisti psichiatri venga posta normalmente una diagnosi di Disturbo
dell’Adattamento. Perché avvenga questo inquadramento devono essere
soddisfatti alcuni requisiti ben precisi. Devono esistere uno o più fattori
stressanti psicosociali alla base dei sintomi emotivi o comportamentali
clinicamente significativi. I sintomi devono svilupparsi entro tre mesi dall’esordio
del o dei fattori stressanti. Il Disturbo dell’Adattamento si risolve,
solitamente, entro sei mesi dalla cessazione dell’evento stressante. Da
segnalare infine che esistono diversi sottotipi di tale patologia a seconda
dei sintomi predominanti ( umore depresso, ansia, alterazione della
condotta, forme miste). Il
Disturbo dell’Adattamento, così come sopra descritto, rientra nella
classificazione proposta dagli psichiatri americani attraverso il DSM-IV,
ormai accettato a livello internazionale come utile strumento di
classificazione e standardizzazione per le diverse psicopatologie. In
casi più gravi e rari i soggetti interessati dal mobbing sviluppano una
forma inquadrabile come Disturbo post-traumatico da stress: in tale
situazione esiste una maggiore compromissione dell’affettività, maggior
disagio nella vita di relazione e soprattutto una cronicizzazione dei
disturbi anche al cessare dell’evento stressante. Nell’ambito
dei pazienti che vengono valutati dagli specialisti psichiatri è
comprensibile come vi possano essere dei soggetti affetti da patologie che
nulla hanno a che vedere con problemi legati all’ambiente di lavoro (
pazienti paranoici, affetti da disturbi di personalità…) ; appare quindi
chiaro il ruolo fondamentale degli psichiatri nell’individuare con
precisione le persone con alterazioni che possono essere ricondotte al
fenomeno del mobbing. Avevamo
accennato all’inizio come in Italia il fenomeno ha un minor numero di anni
di studio alle spalle e come ha assunto una certa rilevanza solo negli
ultimi tempi. Questo non è avvenuto casualmente perché si può sicuramente
affermare che nei paesi nordeuropei esiste una più consolidata tradizione
ed abitudine a rispettare i diritti del cittadino. Non si può d’altra
parte trascurare il difficile momento della realtà sociale e lavorativa
italiana, che certo non favorisce la presa di coscienza e l’opposizione a
tale fenomeno. La
maggior esperienza in ambito nazionale è stata accumulata in questi ultimi
anni presso il Servizio di Neuropsicologia dell’Istituto di Medicina del
Lavoro dell’Università di Milano ove state visitate alcune centinaia di
lavoratori provenienti da varie regioni e da dove scaturirà una prima
analisi statistica del fenomeno. Gli accertamenti effettuati nel suddetto
servizio sono particolarmente approfonditi per poter rispondere a quei
criteri poc’anzi esposti: colloquio clinico, visita neurologica, test di
abilità mentale, questionari di personalità e di affettività. Ma
qual è il percorso che porta le persone presso centri specializzati allo
studio di tale problema? Spesso lavoratori che ritengono di lamentare
disturbi derivanti da disagio in ambito lavorativo trovano un orientamento e
un indirizzo alla soluzione del problema tramite media ( carta stampata,
radio , televisione ) sempre più attratti dal mobbing, manifestazione così
diffusa e "democratica" nella sua estensione. Alcune volte sono
gli stessi lavoratori già "mobbizzati" a fare da cassa di
risonanza per un giusto inquadramento del problema. E’ da sottolineare
come proprio le figure professionali più direttamente interessate hanno per
il momento dimostrato di misconoscere e sottovalutare tale fenomeno. Solo di
recente infatti la Medicina del Lavoro ha iniziato a mostrare interesse e a
discutere nelle sedi ufficiali delle problematiche connesse a tale fenomeno.
D’altra parte il medico del lavoro può rappresentare il primo riferimento
per il lavoratore sofferente. Il decreto legislativo 626/94 ha infatti
aperto nuove porte all’attività del medico competente, sempre più a
diretto contatto con la realtà lavorativa: pensiamo per esempio alla
presenza obbligatoria del medico del lavoro in ambienti ove opera personale
impiegatizio addetto in via continuativa all’uso del videoterminale. In
queste situazioni il Medico Competente può fungere da tramite con l’Ufficio
Personale dell’Azienda per rendere ufficiale il caso e per un tentativo di
soluzione dello stesso. Rientra comunque nei suoi compiti indirizzare il
lavoratore presso gli specialisti più idonei, sensibilizzando e
coinvolgendo in tal senso anche il medico curante dell’interessato. Rimane
da sottolineare, al termine di questa panoramica, quali siano le
possibilità concrete di intervento una volta instaurato il problema.
Fondamentalmente due sono gli approcci da utilizzare e che dovrebbero
integrarsi tra loro. Da una parte l’aspetto strettamente sanitario, avendo
sempre a che fare con un paziente disturbato che lamenta alterazioni della
sfera affettiva ( ansia e/o depressione) accompagnati quasi invariabilmente
da turbe somatiche più o meno invalidanti. Il paziente può necessitare
quindi di eventuale terapia farmacologica e appoggio psicoterapico. Dall’altra parte esiste l’aspetto legale ed anche in questo senso va ribadita la diversa sensibilità esistente tra i paesi del nord e del sud Europa. In Svezia è stata approvata da anni una normativa specifica in materia e in altri paesi sono previste espressamente nei contratti di lavoro delle disposizioni ad hoc. In Italia siamo fermi ad alcuni progetti di legge che dovrebbero contenere sia aspetti di natura preventiva che comportanti responsabilità disciplinari e azioni giudiziarie nei confronti di persone accusate del reato di mobbing. Come è ovvio questi ultimi aspetti coinvolgono e coinvolgeranno sempre di più in futuro gli addetti del settore e cioè avvocati, giudici e medici legali e sarà loro compito valutare tutte le prospettive di intervento giudiziario nonché gli aspetti risarcitori nell’ambito del danno biologico e danno morale.
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MOBBING:
POSSIBILITA’ E PROSPETTIVE DI INTERVENTO GIUDIZIARIO Delimitazione
del tema: il "dolo specifico" della condotta di mobbing Magistrato
E’
noto che una prestazione lavorativa resa in condizioni di stress può
assumere connotati di penosità che vanno ben al di là della mera
faticosità intrinseca della prestazione stessa. .I
fattori che possono determinare un tale genere di situazione sono vari e di
diversa natura. Possono dipendere, per esempio, dalle caratteristiche
obiettive dell’ambiente di lavoro (anche in termini del tutto peculiari,
come rivela la recente notizia giornalistica dell’intervento effettuato in
Gran Bretagna per rendere... più rumorosi certi luoghi di lavoro
particolarmente silenziosi nel tentativo di eliminare la causa di stress
emotivo rappresentata proprio dall’eccessivo silenzio) o dalla
ripetitività delle mansioni (il caso "classico" della
catena di montaggio). Ma non sono queste le situazioni delle quali oggi ci
occupiamo, giacche alla nozione di mobbing (o bulliying, nella
versione americana) rispondono solo situazioni determinate da condotte
intenzionali del datore di lavoro e/o di altri lavoratori: non a caso il
termine "mobbing", che in etologia identifica una tattica di
offesa-difesa del gruppo nei confronti di singoli, richiama il concetto di
assalto, di aggressione. Le stesse molestie sessuali fini a se’
stesse -. e non strumentalmente attuate al fini di intimorire o avvilire la
persona -, pur appartenendo, sotto il profilo degli effetti, alla
problematica del danno da "ambiente di lavoro", che ci interessa,
non integrano di per se’ una condotta di mobbing. Infatti, tale condotta, così come analizzata dalla medicina del lavoro e definita dai progetti di legge sul tema, è caratterizzata non solo dalla volontarietà, ma anche dall’intento persecutorio. Il "dolo specifico" di molestare, terrorizzare, discriminare ed emarginare caratterizza tutte le definizioni recepite dai disegni e dalle proposte di legge presentati nel tempo: la tutela è apprestata verso condotte che, avendo le caratteristiche della violenza, della discriminazione e della persecuzione, "mirano a danneggiare" il lavoratore "con palese predeterminazione" (così l’art.1 della proposta di legge n.6410 presentata alla Camera dei Deputati il 30/9/1999 d’iniziativa dei deputati Benvenuto ed altri e, parimenti, il più risalente disegno di legge del senatore Tapparo ed altri) o che tendono "ad instaurare una forma di terrore psicologico nell’ambiente di lavoro" (così la proposta di legge n.1813 del 9/6/1996). V’è da chiedersi se questa preoccupazione di connotare finalisticamente la condotta non possa tradursi, all’atto pratico, in un diabolico onere probatorio per il lavoratore in cerca di tutela (non diversamente da quanto già accade per la prova della discriminatorietà o della ritorsività dei provvedimenti datoriali); ma la preoccupazione potrebbe considerarsi infondata se si ritenesse di poter ricostruire questo elemento costitutivo della fattispecie alla stregua di un connotato implicito nelle (o presunto dalle) caratteristiche obiettive della condotta (ripetitiità, gratuità, monodirezionalità ecc.) piuttosto che come profilo meramente psicologico della stessa, abbisognevoli di prova specifica. E tale lettura sembrerebbe confortata dal rilievo della ricorrenza, nei medesimi progetti di legge, di un altro elemento costante: quello - appunto - della ripetitività della condotta "mobizzante". Sulla falsariga delle proposizioni medico-legali che collegano i danni da mobbing ad una durata minima di "esposizione" al fenomeno (sei mesi, secondo gli studiosi svedesi della materia)- ma fortunatamente con previsione più generica e modulabile da caso a caso - la proposta di legge 6410 prende in considerazione gli atti di violenza e persecuzione psicologica svolti con carattere sistematico e duraturo, il disegno di legge Tapparo aggiunge a tali attribuzioni quella ulteriore della "intensità": in tutti i casi la fattispecie viene ricostruita, sul piano oggettivo, in termini tali da poter lasciare ben pochi dubbi sull’intento soggettivo di colui che pone in essere la condotta. Il
singolo atto può costituire mobbing? Ma se è vero che la ripetitività della condotta è un altro elemento costante dei progetti di definizione normativa del mobbing, allora il singolo atto non può mai integrare la fattispecie della violenza morale o della persecuzione psicologica? Una risposta negativa, in ipotesi soddisfacente se riferita al semplice e isolato fatto di ingiuria, diffamazione o maltrattamento - almeno normalmente inidoneo a produrre danno alla salute psico-fisica del lavoratore (con tutte le dovute riserve circa l’idoneità lesiva anche di singoli atti di molestia quando tocchino una sfera delicata come quella sessuale) -, suscita invece perplessità se riferita a provvedimenti del datore di lavoro dagli effetti normalmente duraturi (come un mutamento di mansioni o un trasferimento); tanto più in quanto il singolo atto può essere, per ogni altro verso, apparentemente legittimo e, quindi, inattaccabile con gli strumenti giuridici "tradizionali". Vero è, tuttavia, che il singolo provvedimento datoriale adottato con fini persecutori, da un lato, non nasce solitamente dal nulla - anzi è normalmente preceduto o seguito da altre condotte mobizzanti -, dall’altro difficilmente consente la prova del suo intento persecutorio. Un’interessante disamina ante litteram del problema è fornita da Pret. Milano 14/12/1995 (in Il Lavoro nella giurisprudenza, n.5/1996, p.385, sulla quale torneremo anche nel prosieguo per altri, interessanti profili) ove si sottolinea la debolezza e limitatezza della tutela giudiziaria avverso i singoli atti di esercizio del potere datoriale, la cui persecutorietà può essere apprezzata soltanto in un visione complessiva che ne metta in evidenza la ripetitività e conseguente lesività della salute psico-fisica del lavoratore. Le
proposte di definizione normative delle condotte di mobbing: i requisiti
"oggettivi"... Dall’insistenza
dei progetti di definizione normativa del mobbing sulle caratteristiche
obiettive della condotta rilevante sembra potersi desumere un altro dato
significativo ai fini della delimitazione dell’ambito di operatività
della tutela che si intende apprestare: essa viene riservata a comportamenti
che - volendo mediare l’espressione utilizzata dall’art.1435 c.c. per
definire i caratteri della violenza rilevante ai fini dell’annullabilità
del contratto - siano idonei a fare impressione sopra una persona sensata.
Si tratta di un’opzione diametralmente opposta rispetto a quella operata
dalla Commissione europea con la Raccomandazione del 27/11/1991 sulle
molestie sessuali nei luoghi di lavoro e accolta nelle stesse proposte di
legge presentate in Italia per una regolamentazione di questa materia, ove
prevale chiaramente la concezione "soggettiva" della fattispecie,
qualificata dalla percezione negativa della condotta da parte di colui che
la subisce, piuttosto che da un giudizio aprioristico del suo disvalore
(secondo il disegno di legge n.38, comunicato alla Presidenza il 9/5/1996,
è molestia sessuale ogni atto o comportamento a connotazione sessuale o
basato sul sesso che risulti indesiderato). Ma la differenza di impostazione
appare del tutto giustificata dalla diversità dei beni giuridici da
tutelare e delle finalità della tutela: nel caso della molestia sessuale è
necessario garantire tutela assoluta ad una sfera della personalità e della
libertà individuale nella quale è intangibile il diritto di ciascuno di
stabilire i propri limiti di tolleranza rispetto agli atteggiamenti dei
terzi; nel campo della persecuzione sul posto di lavoro è, invece,
necessario escludere dalla sfera di intervento - che coinvolge anche poteri
e diritti dei terzi - quelle situazioni di esasperata sensibilità
individuale che rischierebbero di criminalizzare anche condotte innocue o
del tutto tollerabili. Problematica
completamente diversa, sulla quale avremo modo di soffermarci in seguito, e
con riferimento alla quale non v’è luogo a differenze tra molestia
sessuale e mobbing, è quella dell’incidenza che la particolare fragilità
della vittima può avere sulle conseguenze dannose della condotta
molestatrice. ...
quelli soggettivi... Quanto
all’individuazione dei possibili "mobbers", ovverosia degli
autori della condotta, come già si evidenziava, essa può provenire dal
datore di lavoro - o dai superiori gerarchici che lo rappresentano ed
agiscono nel suo interesse - (mobbing verticale) o dai colleghi (mobbing
orizzontale; non a caso la vocazione ad essere vittima di mobbing è
statisticamente propria dei lavoratori più capaci e diligenti, sui quali si
appuntano le gelosie e le rappresagli "auto-difensive" degli altri
dipendenti) ma può anche essere il frutto di una complicità fra l’uno e
gli altri, incoraggiata sia dalla tendenziale mancanza di solidarietà in un
ambiente almeno potenzialmente competitivo quale quello di lavoro, sia,
talora, da interessi specifici. Ricordo un caso, sottoposto al
giudizio della magistratura del lavoro genovese, in cui - benché non si
facesse questiona esplicita di mobbing - dalle carte del processo
chiaramente si intuiva come la subdola operazione di demansionamento posta
in essere dal datore di lavoro nell’assegnare ad un funzionario la
dirigenza di un ufficio del quale egli nulla conosceva e che era del tutto
estraneo alla sua professionalità - anche se non al suo grado -, avesse
trovato la complicità dell’impiegato - di livello inferiore - che, avendo
di fatto diretto il medesimo ufficio sino a quella data, era evidentemente
propenso, per parte sua, ad astenersi dal trasmettere a quel funzionario
qualsiasi conoscenza ed esperienza nelle nuove mansioni. Il che pone in luce
la potenziale "insufficienza" della gamma di possibili autori del
mobbing delineata dalla proposta di legge Benvenuto, la quale, prendendo in
considerazione i soli superiori o pari grado del lavoratore
"mobizzato", muove dal presupposto che la superiorità gerarchica
e/o l’inquadramento poziore siano di per se’ sufficienti a tutelare il
lavoratore da simili condotte ad opera dei propri sottoposti o inferiori di
grado: probabilmente sottovalutando la varietà e imprevedibilità delle
mille strade che la persecuzione psicologica può percorrere nelle complesse
ed articolate dinamiche relazionali degli ambienti di lavoro. ...
e le tipologie. Condotte
"classiche" di mobbing che possono provenire da pari grado -ma
anche da sottoposti - del "mobizzato" sono, ad esempio, le azioni
di isolamento, di occultamento di informazioni, di critica più o meno
velata, di maldicenza nell’ambito lavorativo, di ostentazione di
indifferenza o di scarsa stima. Altri comportamenti tipici richiedono, invece, una posizione di preminenza rispetto al dipendente: la sottrazione di strumenti di lavoro (non è raro il caso del lavoratore che si trova dall’oggi al domani privato del computer, piuttosto che della linea telefonica), il rimprovero ingiustificato, sgarbato od eccessivo, l’attribuzione di mansioni avvilenti o senza significato, la sottoposizione a pressanti visite di controllo nei confronti del lavoratore in malattia, l’assegnazione di obiettivi di lavoro irraggiungibili, sino ad arrivare al demansionamento, al trasferimento e al licenziamento. Questo genere di persecuzione ha, di solito, un obiettivo aziendale ben preciso: espellere dall’impresa il lavoratore che, in base alla vigente legislazione protettiva, non si può licenziare, provocandone le dimissioni ovvero "costruendone" il licenziamento per scarsa produttività o superamento del periodo di comporto. Si parla, in proposito, di bossing o di mobbing strategico, il più diffuso in Italia secondo le stime del Centro di disadattamento lavorativo della Clinica del Lavoro dell’Università di Milano. Quali
strumenti di tutela sono oggi disponibili? Talora
queste condotte assumono connotati di rilievo penale; così quando si
traducono in ingiurie o fatti di violenza privata, diffamazione, abuso d’ufficio
o addirittura estorsione (è il caso, purtroppo assai meno raro di quanto si
creda, come rivelano le cronache giudiziarie, del comportamento indotto
attraverso la minaccia dell’esercizio - ovviamente improprio - di un
potere o di un vantato diritto, quale la minaccia di una denuncia penale per
ottenere le dimissioni del prestatore). Più frequentemente - almeno fino a
quando la penale sanzionabilità del responsabile di terrorismo psicologico
sul luogo di lavoro rimarrà una mera proposta di legge (la n.1813
presentata alla Camera dei deputati il 9/7/1996) - esse sfuggono alla sfera
di intervento punitivo dello Stato ed il loro destinatario non può trovare
tutela se non attraverso gli strumenti civilistici. Ma quali sono questi
strumenti e come possono essere utilizzati? L’interrogativo,
che ne racchiude molti altri, impone, in primo luogo, l’individuazione
degli obblighi e divieti - e delle rispettive fonti giuridiche - la
violazione dei quali può giustificare una richiesta di tutela da parte del
lavoratore. L’art.2043
c.c. Il
primo e fondamentale principio è quello del neminem laedere: la causazione
di un danno ingiusto è fonte di responsabilità extra-contrattuale e
obbliga il responsabile - anche indiretto, quale il padrone o il committente
per il fatto dei propri domestici e commessi - al risarcimento del relativo
danno. Non
mi addentro nella disamina della tutela risarcirai offerta da questa
"clausola in bianco" - per il cui approfondimento abbiamo la
fortuna di poterci avvalere dell’intervento di ben altro conoscitore del
tema - se non per ricordare fugacemente che, secondo Corte Cost 184/86, l’art.2043
c.c. "va necessariamente esteso fino a comprendere il risarcimento...di
tutti i danni che, almeno potenzialmente, ostacolano le attività
realizzatrici della persona umana" e per formulare la provocatoria
ipotesi che nella "visione" del giudice delle leggi la tutela
offerta dal sistema di responsabilità aquiliana possa andare al di là
della stessa nozione di integrità psico-fisica e arrivare a coprire quello
che in dottrina viene già chiamato "danno esistenziale". L’art.2087
c.c Secondo
parte della dottrina (F. Giammaria, Osservazioni in tema di danno da
dequalificazione professionale, nota a Cass., S.L. 18/4/1996, n.3686 e Riva
Sanseverino, in Commentario del cod. civ., a cura di Scialoja e Branca, sub
art.2987, Bologna, 1986, 203), l’art.2043 c.c. sarebbe addirittura l’unica
norma invocabile dal lavoratore laddove la condotta ascrivibile al datore di
lavoro non attenga alla eliminazione dei rischi strettamente ed
esclusivamente connessi all’ambiente di lavoro ("tecnicamente"
inteso), ai quali soltanto sarebbe riferibile l’art.2087 c.c.. Se
dovessimo accogliere questa lettura della norma, potremmo senz’altro
chiudere questo capitolo della discussione, escludere che l’art.2087 c.c.
possa costituire un presidio avverso le condotte di mobbing e rivolgerci
altrove. Ma a diversa determinazione ci induce altra interpretazione della
norma lavoristica, peraltro più aderente al dato letterale. Essa, infatti,
sottolinea come il riferimento all’esercizio dell’impresa" tout
court individui un ambito di operatività del precetto assai più vasto
rispetto all’ambiente di lavoro in senso stretto ed evidenzia come il
richiamo alla "particolarità del lavoro" e all’esperienza",
quali parametri di individuazione delle misure adottabili, ponga i confini
dell’obbligazione datoriale ben oltre i limiti di operatività delle mere
regole tecniche e scientifiche. Personalmente,
non solo credo che l’obbligo di protezione sancito dall’art.2087 c.c.
riguardi tutti gli aspetti della prestazione e del rapporto di lavoro - e ,
in particolare, il tema che oggi ci interessa-; sono anche convinta - in
ciò confortata da alcune pronunce di legittimità (v.., da ultimo,
Cass., 1/9/1997, n.8267, in F.I., 1998. 131 ss.) e da autorevole
dottrina - che l’obbligazione di adottare tutte le misure idonee a
tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del lavoratore
costituisca la piena trasposizione, nell’ambito della responsabilità
contrattuale, del principio stesso del neminem laedere e dei valori
affermati, a livello costituzionale, negli artt.32 e 41 comma secondo della
Costituzione. D’altra parte, che l’art.2087 c.c. possa costituire il fondamento di una responsabilità contrattuale per danno biologico è riconosciuto dalla giurisprudenza pressoché unanime nel settore specifico della responsabilità datoriale per l’ipotesi di molestie sessuali sul luogo di lavoro (cfr. , fra le altre, Cass., S.L., 17/7/1995, n.7768, in G. I, 1996, 1110 ss.; Pret. Trento 22/2/1993, in G. C., 1994, I, 555; Trib.Milano, 21/4/1998, in R.C.D.L., 1998, 957). E’
vero, tuttavia, che questa norma - che, in quanto foriera di responsabilità
contrattuale, comporta un regime di favore per il prestatore di lavoro
danneggiato, sia quanto a rito e competenza, sia quanto a prescrizione
estintiva e regime dell’onere probatorio - ha raramente conosciuto
applicazioni giurisprudenziali, specie di legittimità, che ne abbiano
valorizzato tutte le concrete potenzialità.
E’
il caso, per esempio, della pronuncia del Supremo Collegio, 8267/97, già
citata, che sull’art.2087 c.c. ha fondato la responsabilità dell’imprenditore
per il danno alla salute sofferto da un dipendente a causa dell’eccessivo
carico di lavoro, addebitandogli il mancato adeguamento della forza lavoro
alle effettive esigenze della produzione (facendo, altresì, applicazione,
al caso dello spontaneo adeguamento del lavoratore alle esigenze dell’ufficio,
e della conseguente accettazione di un regime di superlavoro, dell’ulteriore,
fondamentale principio di irrilevanza dell’eventuale concorso causale del
dipendente laddove il datore di lavoro abbia omesso le misure atte ad
impedire l’evento lesivo). Ma
soprattutto grandemente inesplorato appariva, sino a non molto tempo fa, il
terreno del bene giuridico tutelato dalla norma codicistica.
Osservava più di dieci anni or sono il Montuschi (Ambiente di lavoro e
tutela della malattia psichica, RIDL, 1987, 3 e ss) come, nonostante la
presenza nel nostro ordinamento di una fitta serie di disposizioni (art.32
Cost., art.2087 c.c., art.9 Stat. lav., l.833/73) impositive di una lettura
della salute in termini "onnicomprensivi", lo scenario
giurisprudenziale apparisse dominato unicamente dalla problematica relativa
alla lesione fisica, guardandosi invece con diffidenza alla tutela della
salute psichica lesa nell’ambito del rapporto di lavoro, quasi che la
malattia mentale - o meglio, il disturbo psichico - costituisse una
condizione preesistente nel lavoratore o dovesse esistere in nuce, solo
trovando nelle difficoltà incontrate sul lavoro la propria causa
scatenante. Si arrivava così, in forza di una ritenuta eccezionalità e
imprevedibilità dell’evento dannoso, a negare tutela al lavoratore
affetto da sindrome psico-nevrotica, benché i periti riconoscessero l’esistenza
di un preciso e sicuro nesso causale fra questa patologia e l’atteggiamento
negativo del datore di lavoro verso le giuste richieste del lavoratore di
riconoscimento dei propri meriti, (Cass., 20/12/1986, n.7801, in
R.I.D.L., 1997, II, 578 ss). Isolate, benché tratte dall’osservazione
di dati di fatto piuttosto evidenti, erano affermazioni simili a quella
contenuta in Pret.L’Aquila, 10/5/1991 (in F. I., 1993, I, 317 ss.)
secondo cui "appare adeguato ad un criterio di normalità sociale che l’esaurimento
nervoso e lo stress siano riconducibili alla causa licenziamento". La
più recente giurisprudenza pare fortunatamente, orientata verso un
superamento di questa impostazione, sia sotto il profilo della rilevanza
riconosciuta al danno psichico, sia quanto ad estensione della tutela anche
ai c.d. danni imprevedibili. Sulla
risarcibilità dei danni imprevedibili Da
quest’ultimo punto di vista, è recentissima la notizia giornalistica di
una decisione della Cassazione (la n.12339 del 5/11/1999) che avrebbe
escluso la possibilità di limitare la responsabilità del datore di lavoro
per i danni fisici (sindrome depressiva e successivo infarto), provocati con
il suo comportamento al lavoratore, in ragione della esistenza di una
concausa rappresentata da una preesistente patologia coronarica; la Corte
avrebbe affermato che una limitazione di responsabilità può derivare solo
dalla concorrenza di un altrui fatto colposo o doloso, ma non dalla
concorrenza, nella causazione dell’evento, di una precedente malattia o di
altro evento naturale ed imprevedibile. Non diversamente la giurisprudenza
di merito (cfr.,Trib.Milano, 19/6/1993 e 21/4/1998, in R.C.D.L., 1998,
957), ha escluso che il datore di lavoro potesse essere, in tutto o in
parte, esonerato dalla responsabilità per il danno biologico e morale
sofferto dalla lavoratrice molestata, in ragione della esistenza di una
concausa del danno, rappresentata dalla particolare fragilità personale
della donna. Conclusione del tutto corretta se si tiene conto, da un lato,
del principio per cui il concorso di cause, anche se
indipendenti dall’azione o dall’omissione del colpevole, non esclude il
rapporto di causalità fra questa e l’evento dannoso, e, dall’altro,
della inoperatività della limitazione della responsabilità contrattuale al
solo danno prevedibile, ai sensi dell’art.1225 c.c., allorquando l’inadempimento
sia accompagnato da dolo (ovverosia da una condotta intenzionalmente diretta
a ledere la personalità del lavoratore). I’inoperatività che, vale la
pena di sottolinearlo, potrà certamente essere opposta al datore di lavoro
in tutti i casi di mobbing che siano ascrivibili ad una sua propria condotta
o ad una sua consapevole e volontaria omissione; inoperatività che non ci
sarà nemmeno bisogno di invocare nei casi - meno gravi e più ricorrenti -
in cui alla persecuzione sul luogo di lavoro faccia seguito, come
conseguenza prevedibile secondo la scienza medica e psichiatrica, una
sindrome di tipo ansioso-depressivo. Nuove
frontiere nella rilevanza del danno psichico Deve,
infatti, darsi atto che in tempi relativamente recenti, con l’aiuto della
scienza medico-legale e psichiatrica, si è avviato il cammino verso l’acquisizione
e il riconoscimento delle dinamiche che collegano causalmente la
sofferenza psichica al disagio lavorativo e, quindi, della rilevanza, a fini
risarcitori, del c.d. "disturbo post-traumatico da stress"
subito nell’ambiente di lavoro, una patologia alla quale si riconnettono
precisi disturbi emotivi e psico-somatici, che ci sono stati ampiamente
illustrati dal precedente relatore. E,
talora, le affermazioni di principio vanno ancora più in là del
riconoscimento della tutela risarcitoria alla vera e propria malattia
mentale e tendono ad attribuire rilevanza al danno psichico anche quando non
assurga a livello di patologia psichiatrica. La già citata decisione della
Pretura di Milano del 14/12/1995 - pur partendo dal forse erroneo
presupposto della estraneità alla nosografia psichiatrica dell’accertato
"disagio nevrotico con nuclei di somatizzazione" - basa su un’approfondita
ricostruzione del concetto di danno alla salute, come elaborato dalla
dottrina e dalla giurisprudenza e desumibile dalle norme vigenti - da quelle
costituzionali a quelle ordinarie (per esempio in tema di diritto all’autodeterminazione
in tema di mutamento di sesso o sterilizzazione) - l’affermazione che il
diritto alla salute, comprensivo del diritto ad una salute psichica,
autonoma e potenzialmente prevalente su quella fisica, non ha soltanto una
dimensione "passiva", come diritto alla protezione della propria
sfera personale (fisica e psichica), ma possiede anche "una dimensione
attiva, come diritto e libertà di essere, di disporre di se’ e di
autodeterminarsi" (si ricordi che, per l’Organizzazione
Mondiale della Sanità, salute non è già "assenza di
malattia",ma il completo benessere fisico, psichico e sociale").
E su tali basi il Tribunale di Milano ha riconosciuto il diritto del
lavoratore al risarcimento non solo con riferimento alla vera e propria
patologia psichiatrica e alla conseguente riduzione della capacità
lavorativa, ma anche in relazione ad un precedente periodo di minore
efficienza psico-fisica, valutato alla stregua di danno biologico
temporaneo. Una
proposta "provocatoria" in punto interpretazione ed applicazione
dell’art.2087 c.c. Peraltro,
ragionando su queste parole e sulle connesse prospettive di
"apertura" verso un possibile passaggio dalla tutela della salute
alla tutela del benessere, mi è sorto spontaneo un quesito: non è forse
possibile che, mentre ci sforziamo di ampliare in via interpretativa la
gamma delle lesioni all’integrità della persona del lavoratore,
suscettibili di tutela sotto l’egida del concetto di danno biologico,
trascuriamo di valorizzare il dato normativo, messoci a disposizione dal
legislatore del 1942 e rappresentano dalla esplicita estensione dell’obbligo
di protezione, posto dall’art.2087 c.c. a carico del datore di lavoro,
anche alla "personalità morale" del lavoratore? Non dimentichiamo
per caso che l’art.41 comma secondo della Costituzione vieta l’esercizio
dell’iniziativa economica in contrasto, fra l’altro, con la dignità
umana (sì che il Pretore di Bologna, con sentenza 20/11/1990, in G. I.,
1992, I, 2, 84, arrivava ad affermare che questo precetto costituzionale
debba essere considerato uno dei "casi determinati dalla legge"
nei quali l’art.2059 c.c. consente il risarcimento del danno morale,
liquidandolo pertanto in favore di un lavoratore licenziato per le numerose
assenze provocate dalla grave malattia del figlio)? Mi
chiedo, insomma, se non sia possibile trarre dalla specificità e pregnanza
della normativa esistente uno strumento di tutela immediata e diretta, anche
preventiva e non solo risarcitoria, contro tutte le condotte di mobbing che
siano ascrivibili, per azione o colpevole omissione, al datore di lavoro; e
ciò a prescindere dalla insorgenza di una malattia fisica o psichica e in
dipendenza della mera incidenza (negativa) che la condotta produce sulla
capacità e sul modo del lavoratore di valutare se’ stesso, di rapportarsi
agli altri, di far valere la propria professionalità: in una parola, sulla
sua personalità. Il che costituisce già un danno, così come - forse - è
già danno la spendita di energie psichiche e lo sforzo tramite il quale il
lavoratore mobizzato può "resistere" alla persecuzione, adeguando
il proprio atteggiamento alle esigenze "difensive" (in senso
aggressivo o, all’opposto, menefreghista), o ricercando compensazioni
extra-lavorative al senso di frustrazione inflittogli dal lavoro: la vittima
di mobbing, infatti, non sempre è una persona malata, ma è sempre un
individuo in difficoltà, anche se più o meno brillantemente fronteggiate. Il
"pericolo" della elisione dell’onere della prova: un problema
noto alla giurisprudenza in materia di danno da demansionamento Mi
rendo conto, tuttavia, di avventurarmi in un terreno assai delicato, ove i
confini tra danno psichico, lesione della personalità e mera sofferenza
morale sfumano pericolosamente e nel quale la logica conclusione della
immanenza del danno alla condotta - non potendosi, in questa lettura, avere
mobbing senza lesione - può innescare un meccanismo di elisione dell’onere
della prova del danno e, quindi portare verso la - da molti temuta -
sostituzione in via interpretativa del sistema risarcitorio con un sistema
sanzionatorio, la cui introduzione, si sottolinea, non può che
essere riservata al legislatore. D’altra
parte, non è questo un tema nuovo al diritto del lavoro: l’identica
contrapposizione fra sostenitori di una rigorosa applicazione dell’onere
probatorio, gravante sul lavoratore che lamenta il danno, e fautori di un
riconoscimento in via presuntiva del diritto al risarcimento, in ragione
della intrinseca lesività della condotta datoriale, è nota alla
giurisprudenza in materia di danno alla professionalità derivante
dal demansionamento. Neanche
a dirlo, il secondo orientamento trova maggiore accoglienza presso i giudici
di merito (vedi, fra le altre, l’orientamento espresso da Pret. Milano,
7/1/97 e 31/7/97, entrambe in O. G.L., 1997, ma anche dal nostro Tribunale,
del quale ricordiamo le inedite sentenze 21/5/1999, n.1192 e 28/7/1998,
n.1969), mentre la via del rigore è prevalente nelle aule della Suprema
Corte; ma non senza eccezioni. La stessa Cassazione ha, infatti, talora
riconosciuto che la dequalificazione comporta un effettivo e inevitabile
vulnus alla vita professionale, sì che l’esistenza di un pregiudizio non
necessita di specifica prova (cfr. Cass., 16/12/1992, n.13299). L’argomento
interessa anche il nostro specifico tema di trattazione in quanto
demansionamento e dequalificazione sono forme "tipiche" del
mobbing c.d. verticale.; forse nulla è tanto avvilente per il lavoratore -
e utile all’eventuale progetto datoriale di estromissione del lavoratore
stesso dall’impresa - della sottrazione delle proprie mansioni e
competenze e dell’attribuzione di compiti non conformi alla propria
professionalità e preparazione o addirittura della totale assenza di
compiti (fenomeno assai più diffuso di quanto non si potrebbe credere, a
giudicare dal rilevante numero di casi sottoposti al giudice). Da
questo punto di vista pare utile ricordare alcuni punti fermi della
giurisprudenza in materia di demansionamento illegittimo: in primo luogo,
che l’equivalenza delle mansioni, alla quale il datore di lavoro deve
adeguare il proprio ius variandi, deve essere intesa, non solo nel senso di
pari valore professionale delle nuove mansioni, ma anche come loro
attitudine a consentire la piena utilizzazione e l'arricchimento del
patrimonio professionale acquisito dal lavoratore nella pregressa fase del
rapporto (sì che anche il radicale mutamento contenutistico delle mansioni
rispetto all’esperienza professionale acquisita può costituire
illegittimo demansionamento: cfr. Cass., 13/11/1991, n.12088 ma anche Trib.
Genova, 21/5/1999, n.1192, sopra citata); che dal demansionamento può
derivare un danno biologico, per la prova e la risarcibilità del quale si
richiamano tutte le considerazioni svolte con riferimento all’art.2087
c.c.; che ben distinto da questo va tenuto il danno alla professionalità,
il quale - debba o meno essere rigorosamente provato, a seconda dell’indirizzo
cui si ritenga di aderire - è un danno patrimoniale, giacche
professionalità significa prestigio, ricollocabilità sul mercato del
lavoro, chance di ulteriore miglioramento della propria posizione
lavorativa, voci tutte che hanno un contenuto economico reale, anche se
indiretto e di difficile quantificazione. Vero
è che le espressioni utilizzate in alcune decisioni dei giudici di merito
sembrano elidere tale patrimonialità, parlando di danno alla dignità e
alla personalità del lavoratore (Pret. Milano, 9/12/1997, Pret.
Bologna, 8/4/1997, in RIDL, 1997, 348 ss) o di danni concernenti
la vita di relazione (Pret.Milano 11/3/1996 e Pret.Nocera
Inf., 5/12/1996), ma nel momento della liquidazione ricorrono comunque
ad uno parametro di quantificazione - la retribuzione - che rivela
come, in ogni caso, l’unico valore della personalità la cui lesione viene
riconosciuta rilevante è quello "monetizzato" dal compenso, cioè
quello del singolo "uomo lavoratore". Lo rivela esplicitamente la
motivazione di Pret.Bologna 8/4/1997,(in L. G., 1998, 140) che, dopo
avere riconosciuto che il danno alla personalità del lavoratore
demansionato è in re ipsa, lo identifica nell’"ipotetico valore che
il lavoratore, ove non vigesse il divieto di reformatio in peius di cui all’art.2103
c.c. avrebbe potuto lucrare sul mercato del lavoro in termini di maggiore
retribuzione, accettando una previsione contrattuale di incondizionato ius
variandi da parte datoriale". Fedele
a questa opzione, che ha indubbio fondamento teorico, ma avvertendo al tempo
stesso la necessità di ricercare un criterio di razionalizzazione del
ricorso all’equità più soddisfacente del riconoscimento di una certa
percentuale della retribuzione (che rappresenta il sistema più diffuso di
quantificazione), il Tribunale di Genova ha assunto a parametro di
quantificazione delle singole voci di danno, accomunabili nella categoria
del danno professionale, la scala retributiva degli inquadramenti
come espressione del valore economico assegnato alle corrispondenti
professionalità (vedi le sentenze sopra citate). Rilevano così,
volta per volta: per il danno da perdita di chance, la differenza fra
la retribuzione percepita e il maggiore compenso che le progressioni di
carriera avrebbero assicurato in assenza del demansionamento illecito; per
il danno da dequalificazione in senso stretto, la differenza fra la
retribuzione spettante in relazione alla qualifica e alle mansioni, delle
quali il lavoratore è stato privato, - anche se integralmente corrisposta -
e quella prevista per la deteriore posizione aziendale di fatto ricoperta;
per il danno da radicale mutamento contenutistico delle mansioni, la
differenza fra la retribuzione corrispondente al livello inizialmente
rivestito nell’area di originaria assegnazione e quella corrispondente al
livello raggiunto, nella stessa area, con l’esperienza e la crescita
professionale maturate nelle mansioni originarie . La
tutela ripristinatoria Ma
più interessante ancora della tutela risarcitoria è la possibilità, di
una tutela ripristinatoria: a fronte dell’illegittimo demansionamento, il
giudice può ordinare la reintegrazione del lavoratore nelle mansioni
precedentemente svolte o in altre equivalenti.Tale possibilità è affermata
dalla dottrina e dalla giurisprudenza prevalenti sulla base del principio di
rimozione degli effetti dell’atto illegittimo e di conseguente
obbligatorio ripristino dello stato quo ante (vedi, da ultimo, Cass.,
29/10/1998, n.9734). L’insuscettibilità
di un’esecuzione forzata di tale ordine - che dal punto di vista pratico
può effettivamente costituire grave pregiudizio all’effettività della
tutela - non rappresenta però, anche secondo la giurisprudenza di
Cassazione, un ostacolo alla sua ammissibilità (cfr., tra le altre, Cass.,
16/3/1984, n.1833). La
necessità di un intervento preventivo Il
che, peraltro, non toglie che la tutela giudiziaria garantisca, di massima,
solo un intervento ex post, tanto meno efficace quanto più assenti sono le
norme di comportamento e la messa in opera, nei luoghi di lavoro, di misure
idonee a prevenire e combattere la molestia e il disagio sul luogo di
lavoro. E sotto questo profilo il nostro Paese sembra affetto da una sua
propria, tradizionale trascuratezza verso questo genere di problematiche. La
contrattazione collettiva difficilmente contiene previsioni che traducano in
specifiche norme d’azione i doveri e i poteri dell’imprenditore
funzionali all’adempimento di questa obbligazione contrattuale; solo
recentemente e solo con riferimento alle molestie sessuali - per le quali ci
si è potuti avvalere delle indicazioni fornite dalla Raccomandazione della
Commissione CEE del 27/11/1991 - si cominciano a tratteggiare norme
comportamentali e di intervento specifiche (così nel settore del commercio,
settore cooperative, e, per l’impiego pubblico e negli accordi collettivi
dei comparti della sanità e degli enti pubblici; va poi ricordata la
realtà specifica del Codice di comportamento per la tutela della dignità
delle lavoratrici e dei lavoratori del Comune di Torino. E
ciò benché elevatissimi siano i costi di questi fenomeni, non solo
sociali, ma anche imprenditoriali, in termini di diminuzione della
produttività e aumento dell’assenteismo e del turnover. Le
esperienze di altri Paesi Ben
più ampia e consapevole è l’attenzione che altri Paesi dell’Unione
Europea prestano al problema (certamente anche in ragione della maggiore
rilevanza che ivi riveste a livello sociale). In Svezia esiste un vero e
proprio regolamento dedicato al mobbing e adottato dall’Ente Nazionale per
la Salute e la Sicurezza del Lavoro. Esso prevede, fra l’altro: che il
datore di lavoro pianifichi e organizzi il lavoro in modo da prevenire, per
quanto possibile, la persecuzione nei luoghi di lavoro; che comunichi in
modo inequivocabile che queste forme di persecuzione non verranno
assolutamente tollerate; che l’ambiente lavorativo sia
"monitorizzato" al fine di individuare possibili condizioni di
potenziale insorgenza del mobbing (ivi comprese eventuali carenze
organizzative che possano indurre la cosiddetta mentalità del capro
espiatorio) ; che siano previste procedure speciali di intervento a sostegno
dei lavoratori mobizzati. Gli
strumenti di tutela del lavoratore "mobizzato" nel progetto di
legge n.6410 Da
questa e altre simili esperienze straniere sembrano avere ampiamente attinto
i promotori del progetto di legge n.6410, presentato alla Camera dei
Deputati il 30/9/1999 dagli onorevoli Benvenuto ed altri, che ampia
attenzione riserva al tema della prevenzione e dell’informazione. Ai
datori di lavoro e alle rispettive rappresentanze sindacali è fatto
obbligo: di adottare tutte le iniziative necessarie allo scopo di prevenire
la violenza e la persecuzione psicologica; di fornire informazioni sui
propri atti di esercizio del potere organizzativo che producano riflessi sul
personale (assegnazioni di incarichi, trasferimenti ecc.); di porre in
essere tempestive procedure di accertamento dei fatti denunciati,
eventualmente anche con l’ausilio di esperti esterni all’azienda; di
adottare le misure necessarie per il loro superamento, individuate con il
concorso dei lavoratori dell’area aziendale interessata. E’, altresì
prevista un’estensione del numero di ore retribuite, che l’art.20 dello
Statuto assegna per l’esercizio del diritto di assemblea, al fin di
consentire il dibattito sul tema delle violenze e delle persecuzioni
psicologiche sul luogo di lavoro (non diversamente da quanto previsto dal
disegno di legge n.38 per la tutela contro le molestie sessuali). Il quadro
è chiaramente perfezionabile, ma la traccia segnata muove nella giusta
direzione. Meno
convincenti sono le opzioni effettuate sotto il profilo delle forme di
tutela apprestate. Privilegiata è la tutela sanzionatoria, sia nella forma
della responsabilità disciplinare, sia in quella dell’obbligazione
risarcitoria. Quanto
alla prima, si tratta di una (inedita) ipotesi di integrazione necessaria
del codice disciplinare per volontà legislativa, che potrebbe configurarsi
come misura di tutela obbligatoria ai sensi dell’art.2087 c.c.: il datore
di lavoro che omettesse di introdurla potrebbe incorrere per ciò solo nella
relativa responsabilità contrattuale. D’altra parte, la giurisprudenza
non sembra avere mai nutrito dubbi sul fatto che la molestia - sessuale nei
casi esaminati - da parte di un lavoratore ai danni di un altro dipendente
costituisca fatto disciplinarmente sanzionabile, oltre che circostanza
legittimante, anche al di fuori dell’ottica disciplinare, modifiche dell’organizzazione
del lavoro che possono consistere anche nel trasferimento dell’autore
della molestia (cfr. Pret.Milano, 20/2/1995 in Foro it., 1995, 1985). La
responsabilità disciplinare è stabilita dall’art.4 anche a carico di chi
denuncia consapevolmente atti inesistenti, al fine di ottenere vantaggi comunque
configurabili; è evidente che destinatario della sanzione non potrà essere
colui che, persuaso della verità della propria denuncia, abbia in realtà
solo travisato la realtà (magari proprio a causa di una sua
particolarissima suscettibilità o fragilità emotiva). E tuttavia ci sia
consentito di nutrire qualche timore in ordine alla possibilità che la
previsione costituisca un freno alla presentazione delle denunce. Quanto
alla tutela risarcitoria, recita l’art.5 comma secondo (il comma primo si
limita a richiamare le procedure di conciliazione e le norme procedurali e
di rito degli artt.410 e ss. c.p.c.) che "il giudice condanna il
responsabile del comportamento sanzionato al risarcimento del danno, che
liquida in forma equitativa." E’, prima di tutto, spontaneo
interrogarsi sul significato del riferimento al "comportamento
sanzionato": vuole forse indicare una necessaria succedaneità dell’intervento
del giudice rispetto a quello disciplinare? E se così non è - come si
auspica - che significato riveste tale precisazione, che, oltre tutto,
escluderebbe dal novero dei responsabili passibili di condanna il datore di
lavoro, soggetto attivo e mai passivo del potere disciplinare? Quanto
al riferimento all’equità quale unico criterio di liquidazione del
danno, mi sembra scontata la non riferibilità della previsione ne’ al
danno patrimoniale ne’ al danno biologico, ma solo a quel danno
psico-fisico "intrinseco" alla lesività della condotta
mobizzante che trova definizione e delimitazione nel comma 4 dell’art.1:
menomazione della capacità lavorativa, pregiudizio per l’autostima, forme
depressive. Ma
ciò che soprattutto delude della disciplina della tutela giudiziaria,
contenuta nel disegno di legge, è la povertà delle disposizioni volte a
garantire una tutela ripristinatoria. Potrà il giudice, in sede di
cognizione ordinaria, ma anche di procedimento cautelare, ordinare la
cessazione della condotta mobizzante (quando posta in essere dal datore di
lavoro) o la messa in atto, da parte dello stesso, delle misure e dei
provvedimenti opportuni e necessari ad evitarne la prosecuzione (anche sub
specie di mutamenti di mansioni, trasferimenti ecc.) quando la condotta
provenga da altri dipendenti? Probabilmente a questo risultato si potrà
pervenire in via interpretativa, non diversamente da quanto è stato fatto
in materia di demansionamento; ma chi conosce le resistenze e le
incertezze cui va inevitabilmente incontro l’affermazione in via
interpretativa di un potere giudiziale di intervento sull’organizzazione e
sull’esercizio dell’impresa , non può non auspicare che un intervento
legislativo affermi e chiarisca esistenza e portata di questo potere. Unica
forma espressamente prevista di restitutio in integrum è l’annullabilità
degli atti e delle decisioni concernenti le variazioni delle qualifiche,
delle mansioni, degli incarichi, ovvero i trasferimenti, riconducibili alla
violenza e alla persecuzione psicologica (art.2). Previsione certamente
opportuna e tuttavia gravemente deficitaria, non solo nella qualificazione
degli atti aggredibili (indeterminato essendo il connotato della
"riconducibilità" alla persecuzione), ma soprattutto nella
elencazione, apparentemente tassativa, degli stessi. In particolare colpisce
il mancato riferimento al licenziamento e alle dimissioni forzate. Quanto
al recesso del datore di lavoro, gli strumenti di tutela già esistenti
offrono un certo margine di copertura delle possibili ipotesi (per esempio,
attraverso una valutazione del motivo di licenziamento addotto che ne valuti
la fondatezza anche alla luce della possibile influenza di una preesistente
situazione di mobbing) ma non garantiscono certo una copertura totale. Sulla
base della legislazione vigente, per esempio, è del tutto opinabile che un
licenziamento per scarsa produttività sia suscettibile di annullamento in
ragione della addebitabilità all’ambiente lavorativo del calo di
reddititività del lavoratore. Allo stesso modo in cui il recesso del datore
per superamento del periodo di comporto difficilmente potrà essere
messo in discussione sulla base della ascrivibilità delle assenze ad una
sindrome ansioso depressiva provocata da mobbing, almeno fino a quando una
norma, di legge o contrattual-collettiva, non sancisca la non computabilità
nel periodo di comporto delle assenze per malattia "da ambiente di
lavoro"). Più
grave ancora la carenza con riguardo alle dimissioni "forzate",
spesso unica via di fuga del lavoratore mobizzato - gli stessi psichiatri la
indicano come unica soluzione nei casi più gravi - e altrettanto spesso
reale obiettivo del datore di lavoro responsabile. La possibilità di una
tutela giudiziaria di tipo ripristinatorio sembrerebbe restare affidata all’esercizo
dell’azione di annullamento delle dimissioni stesse per violenza morale,
sia pure da intendersi, quest’ultima, anche alla luce della emergenza
legislativa del fenomeno mobbing. Manca anche una previsione di tutela sotto
il profilo risarcitorio: diversamente da alcune proposte riguardanti la
tutela conro le molestie sessuali, non è espressamente previsto - benchè
sia certamente sostenibile in via interpretativa (soluzione già praticata
in giurisprudenza) - il riconoscimento della giusta causa in caso di
dimissioni "indotte" , e soprattutto non è contemplata l’attribuzione
di una particolare indennità a favore del recedente. Pertanto, al ristoro
del danno a norma del già esaminato art.5 del progetto, sembrerebbe potersi
aggiungere, de iure condito, soltanto il diritto all’indennità di
preavviso, a meno di non voler aderire all’originale, se pur opinabile,
soluzione di Pret.Trento, 22/2/1993 (in G.C., 1994, I, 55 ss.) che
alla lavoratrice indotta alle dimissioni dalle molestie sessuali del datore
di lavoro ha riconosciuto il diritto alle mensilità ex art.2 l.108/90,
giustificandolo con l’affermazione che l’originaria identità della
tutela apprestata dal codice a favore, da una parte, del lavoratore
licenziato in tronco senza giusta causa e, dall’altra, del lavoratore
dimessosi per giusta causa, debba perpetrarsi anche nel mutato panorama
normativo, con l’estensione a questa seconda ipotesi della tutela prevista
per la prima. Come
si vede, i margini di miglioramento ci sono e sono consistenti. Tuttavia
bisogna dare atto che questo disegno di legge rappresenta, sino ad oggi, il
tentativo più serio che sia stato fatto nel nostro ordinamento per
suscitare l’avvio di un dibattito su una problematica che incide
profondamente sulla dignità e sull’integrità psico-fisica del non
irrilevante numero di lavoratori che ne sono coinvolti, come dimostra anche
l’interesse suscitato da questa come da altre iniziative di studio
relative al tema
|
||||||||||||||||||||||||||
"MOBBING"
e I.N.A.I.L. le molestie morali e la assicurazione sociale obbligatoria contro gli infortuni e le malattie professionali *****
***** ***** SOMMARIO: 1.
Etimologia 2.
Sinonimi 3.
Motivi 4.
Fattori scatenanti 5.
Requisiti 6.
Sintomi 7.
Malattie derivate 8.
Tipologie delle vittime 9.
Tipologie dei persecutori 10.
IL RISARCIMEMTO NEL DIRITTO COMUNE 11.
L’INDENNIZZO NEL DIRITTO PREVIDENZIALE A)
Il riconoscimento B)
L’indennizzo b1)
L’inabilità temporanea b2)
L’inabilità permanente C)
La rivalsa D)
La prevenzione 12.
LA SANZIONE NEL DIRITTO PENALE *****
***** ***** 1.
ETIMOLOGIA: To
mob = assalire tumultuosamente. Prende lo spunto dall’etologia per
indicare il comportamento aggressivo di alcune specie di uccelli nei
confronti dei loro contendenti. Il
primo a studiarlo scientificamente fu lo psicologo terdesco Heinz Leymann
che nel 1986 ne illustrò le conseguenze a livello neuropsichiatrico. 2.
SINONIMI: molestie
morali, persecuzione
psicologica negli ambienti di lavoro, persecuzione
sul lavoro, violenza
morale sul lavoro, 3.
MOTIVI (conflitto di lavoro che si trasforma in conflitto personale): riorganizzazione/fusione
di aziende/riduzione del personale/cambio managment, ecc., con conseguente
induzione del lavoratore alle dimissioni per evitarne il licenziamento, eliminazione
lavoratori scomodi ("bossing"), timore
dei diretti superiori o altri colleghi di essere scavalcati, invidia
dei colleghi, ecc., 4.
FATTORI SCATENANTI: ·
discriminazione, diffidenze
ingiustificate, disinformazione, rifiuto di informazio ni necessarie, in
relazione alla posizione rivestita, per il lavoro, isolamento intenzionale
dai lavori di gruppo, rifiuto ingiustificato e con disparità di trattamento
di permessi; ·
discredito, mancanza di
rispetto, rimproveri e critiche costanti e gratuite, sarcasmo,
ridicolizzazione nei confronti dei colleghi, maldicenze, calunnie,
diffamazioni, diffusione di voci maligne e infondate; ·
ostacoli ingiustificati alla
prestazione lavorativa, eccessivi controlli e critiche con intenti maligni,
assegnazione di compiti al di sotto delle comprovate capacità
professionali, assegnazione di obiettivi; ·
irrealizzabili, carico di
lavoro eccessivo insufficiente o nullo; ·
aggressione verbale,
oscenità, urla, idonee ad intimorire; 5.
REQUISITI: Frequenza,
durata, intensità e generalità della molestia sono fondamentali per
distinguerlo da conflitti episodici. 6.
SINTOMI disagio
profondo, ansia, depressione, difficoltà di digestione, disistima,
disperazione, eritemi, impotenza sessuale, infarto, insonnia improvvisa e
incubi, irritabilità, mal di testa, panico, paura di affrontare la
giornata, pensieri autolesionistici e/o suicidi, perdita capelli, perdita
identità, spossatezza, vertigini, vuoti di memoria, ecc., I
sintomi, se non adeguatamente diagnosticati e curati, si possono
cronicizzare e diventare: 7.
MALATTIE DERIVATE (psicosomatiche e fisiche).:
8.
TIPOLOGIE DELLE VITTIME Non
sono state individuate attualmente inclinazioni caratteriali che possano
caratterizzare una "predisposizione" al mobbing che colpisce
lavoratori di qualsiasi livello in tutti gli ambienti di lavoro e in tutte
le culture. In particolare, sono più predisposti: distratti, presuntuosi,
passivi, buontemponi, paurosi, ecc.
(Harald Ege ne elenca ben 18). 9.
TIPOLOGIE DEI PERSECUTORI ("mobbers") La
persecuzione può essere attuata dal datore di lavoro direttamente o tramite
suo rappresentante o tramite altri compagni di lavoro (cd. mobbing
"verticale"), ovvero da compagni di lavoro autonomamente (cd.
"orizzontale"). In particolare, sono più predisposti: narcisista
perverso, frustrato, istigatore, megalomane, ecc. (Harald Ege ne elenca ben
14). 10.
IL
RISARCIMENTO NEL DIRITTO COMUNE (Cost.: artt. 2, 32, ecc.; C.c.: artt. 2043,
2059, 2087, ecc.; C.p.: art. 185; ecc.): Il
mobbing è, sostanzialmente, uno stress causato da rapporti interpersonali
anomali con superiori e/o altri compagni di lavoro, durante l’attività
lavorativa. Il
mobbing determina un disagio soggettivo. Il
disagio, sistematico duraturo e intenso, può avere riflessi negativi
psicofisici. Tali
riflessi negativi possono incidere su diritti individuali inviolabili, in
quanto costituzionalmente protetti, quali quello alla personalità, alla
salute, ecc., e possono altresì incidere su altri diritti patrimoniali
riducendo, in modo temporaneo o permanente, la capacità di lavoro e/o di
guadagno. Il
mobbing, se è causato da un comportamento di un terzo e determina un danno
(non patrimoniale e/o patrimoniale) economicamente valutabile, può far
sorgere il diritto al risarcimento del danneggiato secondo le regole del
diritto comune. Nel
diritto comunitario vige il principio dell’ "integrale"
risarcimento del danno ingiusto alla persona, cioè quello causato da dolo o
colpa (grave). Le
direttive comunitarie, se rispondono a determinati requisiti, sono
direttamente efficaci anche nell’ordinamento giuridico italiano, in
applicazione dell’art. 2043 c.c., dell’art. 2 cost. e dell’articolo
della costituzione che protegge il relativo diritto individuale inviolabile
(alla persona nei rapporti relazionali; alla salute; alla famiglia, ecc.). Sotto
questo profilo, una corrente dottrinaria sostiene che il danno
"biologico psichico" (che si avvicina al danno "morale")
potrebbe essere risarcito, in applicazione dell’art. 2043 anziché dell’art.
2059 c.c., anche indipendentemente dall’esistenza di un reato. 11.
L’INDENNIZZO NEL DIRITTO PREVIDENZIALE (d.p.r. 30/6/1965, n. 1124): Passiamo
ad esaminare ora se il mobbing possa determinare anche un evento che, in
quanto astrattamente qualificabile come infortunio sul lavoro o
malattia professionale, potrebbe essere indennizzato dall’I.N.A.I.L.
qualora ricorressero, in concreto, tutte le condizioni previste dalla
normativa vigente in materia. E’
d’obbligo, in primo luogo, sottolineare la netta distinzione tra il
"risarcimento", proprio del diritto comune e l’
"indennizzo", proprio di quello previdenziale: il primo fonda,
quantomeno per il danno alla persona, il diritto per il danneggiato al
risarcimento "integrale", cioè in tutti gli aspetti, statici e di
relazione, del bene tutelato; il secondo, viceversa, si ispira a una logica
di tipo assicurativo tendente ad equilibrare, a livello generale, le uscite
con le entrate e, a livello particolare, i premi con i rischi assicurati. In
sostanza e per schematizzare, il responsabile è obbligato al risarcimento
integrale; l’assicurazione garantisce, per conto dell’assicurato, l’indennizzo
legislativamente (per le assicurazioni sociali) o contrattualmente (per le
assicurazioni private) pattuito, che può anche essere inferiore al
risarcimento. L’assicurazione
I.N.A.I.L. è attualmente disciplinata dal "Testo Unico" approvato
con D.P.R. 30/6/1965, n. 1124, che definisce "infortunio" (art. 2)
l’evento verificatosi per "causa violenta, in occasione di
lavoro" e "malattia professionale" (art. 3) quella contratta
"nell’esercizio e a causa" di lavorazioni tassativamente
"tabellate", o "non tabellate" purché sia comunque
provata la causa del lavoro (Corte Cost. n. 179 del 18/2/1988). Sia
dall’infortunio che dalla malattia professionale deve derivare, per
fondare il diritto all’indennizzo, una inabilità temporanea assoluta
che importi l’astensione dal lavoro totale e di fatto (art. 68), ovvero permanente
(totale o parziale). Nel
diritto previdenziale, la differenza è ravvisata nella "rapidità e
violenza" del momento infortunistico (anche la puntura di un ago
infetto che provoca, col tempo, l’epatite è considerato un infortunio),
rispetto alla "lenta manifestazione" della malattia professionale. Peraltro,
da un punto di vista medico-legale, anche l’infortunio determina uno stato
patologico. Il
mobbing, per il suo stesso modo di manifestarsi, potrebbe rientrare tra le
"malattie" e collocarsi tra quelle "non tabellate". Come
tale pertanto, in astratto, potrebbe rientrare nell’oggetto dell’assicurazione
I.N.A.I.L., ricorrendone i requisiti previsti dalla legge per la tutela
previdenziale. Le
prestazioni economiche e sanitarie erogate dall’I.N.A.I.L. consistono,
oltre alle cure mediche, in una indennità per inabilità temporanea per i
giorni di astensione totale dal lavoro (pari ad una percentuale del 60-75%
della retribuzione) e in una rendita in caso di postumi permanenti
(superiori al 10%). A)
IL RICONOSCIMENTO (L"AN"). Affinché
la malattia possa qualificarsi "professionale" ai fini della
tutela assicurativa obbligatoria è necessario che la stessa sia stata
contratta, per usare le stesse parole della corte Costituzionale, "a
causa del lavoro". Pare
necessario a questo punto sottolineare che, per le malattie professionali
"non tabellate" (come potrebbe essere quella da mobbing) grava
sul lavoratore che avanzi la richiesta nei confronti dell'I.N.A.I.L. l'onere
di provare in base alle regole di diritto comune (art. 2697 c.c.) sia
il rischio dell'ambiente di lavoro, sia il nesso eziologico tra questo e la
malattia contratta. Al riguardo, giova pure sottolineare che la prova
della "causa di lavoro" deve essere valutata in termini di ragionevole
certezza, rimanendo esclusa la rilevanza della mera possibilità
dell'eziopatogenesi professionale. Questa
premessa si rende necessaria - e deve essere sempre tenuta presente durante
la lettura di quanto segue sull'indennizzo nel diritto previdenziale -
perché, senza la concreta "prova provata" del rapporto di
causalità (che può essere fornito con ogni mezzo di prova ammissibile e
dedotto ed, eventualmente, con l'ausilio del C.T.U.) non esiste
giuridicamente la malattia professionale. Insegna
la medicina legale che i criteri che fondano il rapporto di causa/effetto
(per gli infortuni e le m.p.) sono cinque e devono coesistere, nel senso che
devono essere tutti realizzati per l’esistenza del nesso eziologico: 1.
efficienza lesiva; 2.
criterio cronologico; 3.
criterio topografico; 4.
continuità fenomenologica; 5.
esclusione di altre cause. I
suddetti criteri devono essere rapportati anche con quel modo di essere del
soggetto che, con termine atecnico e onnicomprensivo, potremmo chiamare
"suscettibilità individuale", cioè la soggettiva ed endogena
capacità del soggetto di reazione alle sollecitazioni che, per le malattie,
viene denominata "concausa". In
questa fase è fondamentale il giudizio del consulente medico-legale che,
infine, dovrà stabilire se la malattia (fisica e/o psichica):
Va
da sé che il giudizio medico-legale sarà fortemente condizionante per la
qualificazione giuridica della "malattia" come
"professionale" o "comune", ferma comunque la
valutazione conclusiva e definitiva del giudice. Invero,
ove si giungesse, infine, ad affermare che la patologia sia direttamente
conseguente alla "persecuzione sul lavoro", non potrebbe
escludersi a priori il riconoscimento della natura "professionale"
della malattia in ambito previdenziale. Certamente il mobbing non può
qualificarsi, in senso tecnico, come un rischio proprio del lavoro o della
lavorazione ma, nondimeno, non pare possa escludersi all’assicurato la
possibilità di provare - rigorosamente secondo le regole del diritto comune
(art. 2697 c.c.), con esclusione di ogni presunzione legale – l’origine
professionale della patologia. B)
L’ INDENNIZZO ("QUANTUM") Però,
pur riconosciuta l’esistenza della "malattia professionale da
mobbing", per fondare l’indennizzo I.N.A.I.L. è altresì necessario
che la patologia abbia determinato anche una inabilità temporanea totale o
una riduzione permanete della attitudine al lavoro (o, come definita da
autorevole dottrina, della capacità biologica al guadagno). b1)
L’INABILITA’ TEMPORANEA Sotto
questo profilo, è necessario che la patologia abbia determinato anche una
incapacità temporanea totale al lavoro specifico svolto dal
"mobbizzato". Anche in questo caso il giudizio medico-legale sarà
necessario ma risulterà forse meno condizionante (rispetto a quello sul
riconoscimento della patologia): ciò in quanto l’inabilità totale e di
fatto al lavoro specifico dipende anche da tutta una serie di altre
circostanze di fatto. Invero,
per il diritto previdenziale non è nuova la circostanza che alcune malattie
professionali possano comportare una inabilità "temporanea" al
lavoro pur senza determinare postumi "permanenti": basti pensare
alla varie dermatiti allergiche che, come noto, regrediscono, fino a
guarire, con l’allontanamento della sostanza allergizzante. Però, in
questo caso, si tratta di una inabilità "fisica" obiettivamente
constatabile. Come
pure, seppur più raro, è il riconoscimento dell’indennizzo I.N.A.I.L.
per infortuni (non malattie) occasionati da motivi psichici: per esempio, l’astensione
temporanea dal lavoro di un guidatore di una funivia che ha visto
precipitare la cabina accanto alla sua; il suicidio per rimorso di un
lavoratore che, per sua disattenzione, aveva provocato la morte di un
compagno di lavoro. In questi casi l’evento traumatico è certo,
concentrato nel tempo e obiettivamente verificabile. Ben
diversa è l’ipotesi del mobbing che, come abbiamo detto, è una malattia
a manifestazione progressiva che determina una inabilità
"psicosomatica" la quale, per essere indennizzata, dovrebbe
comportare l’astensione al lavoro "totale e di fatto" (art. 68).
Nel mobbing, questa inabilità dipende da una condizione psicologica
soggettiva (del mobbizzato) nel rapporto interpersonale con altri soggetti
(asseriti mobbizzanti), e non è chi non veda la difficoltà della prova
concreta del rapporto di causa/effetto tra la (asserita) molestia morale e
la totale incapacità lavorativa specifica. Per
il mobbing, la "normalizzazione" dei rapporti interpersonali
anomali con i superiori (cd. "verticale") e/o con altri compagni
di lavoro (cd. "orizzontale") dovrebbe, di norma, comportare la
fine del disagio psicosomatico e il totale recupero della capacità
lavorativa. Se
così non fosse, se cioè, nonostante la "normalizzazione"
persistesse il rifiuto del mobbizzato a riprendere il lavoro, la questione
dovrebbe necessariamente estendersi anche ad altri profili, che superano il
diritto previdenziale, quali quello della inidoneità alla specifica
mansione in precedenza svolta, per arrivare, al limite, alla valutazione del
comportamento di tutti i lavoratori anche a fini disciplinari, ecc.. b2)
L’INABILITA’ PERMANENTE La
problematica, già difficile per la inabilità "temporanea", si
complica ulteriormente per la "permanente". E
si complica vieppiù se si riflette sul fatto che la legge
"delega" del 17/5/1999, n. 144, all’art. 55, lettera s),
stabilisce che la normativa che si andrà ad elaborare con la legge
"delegata" dovrà prevedere una idonea copertura e valutazione
indennitaria del danno biologico, con la conseguente impossibilità per il
lavoratore di chiedere autonomamente al datore il risarcimento di tale
ulteriore forma di danno. In
attuazione della predetta legge l’indennizzo I.N.A.I.L. in caso di
inabilità permanente (art. 74) avrà ad oggetto: 1.
il danno biologico (cioè, tutte le menomazioni dell’integrità
psico-fisica lesive della salute in quanto attitudine a compiere qualsiasi
attività realizzatrice della persona umana e, pertanto, ove sussista, del
pregiudizio dell’attitudine al lavoro). 2.
Il danno reddituale (cioè, i riflessi delle menomazioni da
infortunio o malattia professionale sulla capacità lavorativa nell’attività
esercitata dall’assicurato). Quindi,
se dal mobbing derivasse effettivamente una malattia cronicizzata (fisica o
psichica) suscettibile di valutazione medico-legale, e se la stessa fosse
riconosciuta di natura "professionale", l’indennizzo I.N.A.I.L.,
in base alla nuova normativa, dovrebbe estendersi ai due suddetti tipi di
danno. Rimane
viceversa completamente escluso dalla tutela assicurativa ogni indennizzo
per il danno morale il cui risarcimento, in presenza di un reato, rimane a
carico esclusivo del responsabile (art. 2059 c.c.; art. 185 c.p.). C.
LA RIVALSA L’I.N.A.I.L.
indennizza all’assicurato il danno (escluso quello "morale") nel
caso in cui l’infortunio sul lavoro o la malattia professionale si sia
verificato per colpa o dolo di un altro soggetto ed anche per caso fortuito
o forza maggiore: l’unica ipotesi di esclusione dalla tutela è quella
relativa al dolo dello stesso assicurato (cd. autolesionismo). Quindi,
l’assicurazione sociale copre anche l’ipotesi dell’evento
verificatosi, in occasione di lavoro, per colpa o dolo del datore di lavoro
e/o suoi rappresentanti. In
sostanza, l’assicurazione I.N.A.I.L. è fondata sul rapporto trilaterale
tra lavoratore, datore di lavoro ed ente previdenziale e realizza un
contemperamento dei reciproci diritti e interessi: il lavoratore riceve
automaticamente le prestazioni, però con precisi limiti quantitativi
(franchigia sotto l’11%) e qualitativi (commisurazione della rendita non
alla capacità lavorativa specifica), il datore di lavoro sopporta l’onere
contributivo, ricevendone in cambio l’esonero dalla responsabilità
civile; l’Ente paga le rendite, agendo quindi in regresso contro i datori
di lavoro (e in surroga contro i terzi) che siano dalla legge ritenuti
penalmente responsabili dell’infortunio occorso al lavoratore (Corte Cost.
nn. 504/1999; 350/1997; 134/1971). Il
mobbing, per sua stessa definizione e modo di realizzazione, presuppone
normalmente un comportamento doloso, al quale, a volte, possono affiancarsi
anche altri comportamenti colposi. Invero,
lo stress da mobbing non è una conseguenza oggettiva, propria e
ineliminabile della lavorazione nel suo ciclo produttivo (tipico quello cd.
della "catena di montaggio", che si ritrova in tutti i lavori
fortemente ripetitivi), bensì soggettiva e collegata alla (intenzionale)
persecuzione del datore di lavoro e/o di un suo rappresentante (cd.
"verticale") o di altri compagni di lavoro (cd.
"orizzontale"). Sotto questo profilo, il collegamento del mobbing
col posto di lavoro potrebbe risultare anche solo cronologico o topografico,
per esempio nel caso in cui le molestie perpetrate da un dipendente a danno
di altro dipendente siano determinati da motivi personali. Per
il mobbing "verticale", una volta accertate come esistenti tutte–
e non sono né poche, né facili da provare - le condizioni sopra illustrate
per la indennizzabilità del caso, non pare seriamente contestabile il
diritto di rivalsa dell’I.N.A.I.L. contro il datore di lavoro responsabile
dell’evento. Infatti,
di fronte al comportamento intenzionale del datore e in presenza di una
lesione personale grave, possono configurarsi, in concreto, le condizioni
per l’esercizio del diritto di regresso dell’Istituto che, come noto,
può ripetere dal datore di lavoro, in caso di reato perseguibile d’ufficio
(10, comma 4°), l’importo delle prestazioni erogate al lavoratore (art.
11). Per
il mobbing "orizzontale", in presenza di un comportamento
intenzionale dei soli compagni di lavoro, la problematica risulta più
complessa perché l’ipotetica responsabilità datoriale potrebbe essere
ravvisata solo nel mancato intervento per far cessare gli atti di molestia
allo stesso datore ben noti ma sottovalutati: in pratica, per non aver
tutelato l’integrità psicofisica del lavoratore sul posto di lavoro (art.
2087 c.c.; L. 626/1994; ecc.). Comunque
in caso di mobbing "orizzontale", anche qualora non sia imputabile
alcuna colpa al datore, risulta pur sempre astrattamente esperibile la
surroga (art. 1916 c.c.) dell’I.N.A.I.L. contro i compagni responsabili i
quali, col loro comportamento (illecito, abnorme e non direttamente
ricollegabile alle loro mansioni, tale da farli ritenere "terzi"
rispetto all’organizzazione aziendale) hanno determinato il danno. D.
LA PREVENZIONE L’imprenditore
è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo
la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica sono necessarie a
tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di
lavoro (art. 2087 c.c.). Sulla
base di questo principio di diritto civile, ripreso e rafforzato dagli artt.
32 e 38 della Carta costituzionale e ampliato dal diritto comunitario, si è
sviluppata tutta la normativa in materia di igiene del lavoro (D.P.R.
303/1956), protezione dei lavoratori contro specifici rischi (D.Lvo
277/1991, per rumore, piombo e amianto), tutela della salute e sicurezza dei
lavoratori durante il lavoro (D.Lvo 626/1994, in generale e, in particolare,
per movimentazione manuale di carichi, utilizzo di videoterminali,
esposizione ad agenti cancerogeni e biologici). Anche lo "statuto dei
lavoratori" (L. 300/1970) prevede la tutela della salute e dell’integrità
fisica dei lavoratori. Come
si può facilmente constatare già dalla stesso titolo delle leggi e dall’oggetto
delle singole norme, la tutela viene prevalentemente prestata alla
integrità "fisica" che risulta privilegiata rispetto a quella
"psichica" del lavoratore. E così non poteva non essere in una
società nella quale il "valore Uomo" era rapportato
prevalentemente a parametri reddituali collegati alla capacità lavorativa
(manuale generica) e di guadagno. La
tendenza sta lentamente – ma sistematicamente – cambiando: il
"valore Uomo" è rapportato sempre più a parametri areddituali
(ancorché economicamente valutabili) e la capacità lavorativa è sempre
più intellettuale e specifica. In
questo contesto, la salute "psichica" acquisisce una sempre
maggiore importanza e la sua lesione costituisce danno "biologico"
e può comportare danno "patrimoniale" e "morale". Peraltro,
il mobbing non rientra attualmente tra i "rischi specifici"
sopraindicati, normativamente stabiliti, per cui risulta assolutamente
fuorviante parlare di una obbligatoria "valutazione del rischio",
così come previsto dalla L. 626/1994, da parte del "medico
competente". Ciò anche perché la prevenzione di eventuali forme di
persecuzione nei luoghi di lavoro deve logicamente precedere (proprio per
tentare di renderlo inutile) l’intervento medico- legale. Tuttalpiù,
il datore di lavoro e gli Enti abilitati (tra cui l’I.N.A.I.L.) potranno
eventualmente svolgere, anche in questo delicato settore, l’attività di
informazione, di consulenza e assistenza in materia di sicurezza e salute
nei luoghi di lavoro ad essi legislativamente attribuita (art. 24 D. Lvo
242/1996). 12.
LA SANZIONE NEL DIRITTO PENALE Il
mobbing si estrinseca e si realizza con tutta una serie di comportamenti che
possono assumere rilevanza anche sotto l’aspetto penale. Non è questa la
sede per approfondire la problematica, ma indubbiamente l’atteggiamento
intenzionale del mobbizzante, da cui deriva un evento dannoso previsto e
voluto o prevedibile, potrebbe configurare, in relazione al suo concreto
atteggiarsi, per esempio, il reato di violenza privata (art. 610 c.p.), di
molestie (art. 660), di ingiuria (art. 594) o diffamazione (art.595 c.p.),
di lesione personale (art. 583 c.p.), ecc., o, mancando il dolo, di lesione
personale colposa (art. 590 c.p.). Si
ricorda che la "malattia professionale", ancorché colposa,
secondo il più accreditato indirizzo giurisprudenziale, configura lesione
grave/gravissima ed è perseguibile d’ufficio (art. 590 c.p., come
modificato dalla L. 689/1981). Si aggiunge che, in base alla attuale normativa, in presenza di un reato è risarcibile anche il danno non patrimoniale, cioè il danno morale subiettivo, cd. pretium doloris, (art. 2059 c.c., 185 c.p.) e che tale danno non rientra nell’indennizzo I.N.A.I.L..
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