1903 - 1914 l'Età giolittiana
Giolitti:
l'età giolittiana
Il primo
quindicennio del XX° secolo vide prevalere la
figura di Giovanni Giolitti, quasi
ininterrottamente al governo dal 1903 al 1914.
L'originalità del suo pensiero si capì subito
quando, non ancora ministro degli interni, in un
discorso al parlamento disse che era sbagliato
lodare la frugalità dei contadini, in quanto chi
non consuma non produce. Mantenendo bassi i
salari, continuava Giolitti, si commetteva
un'ingiustizia, un errore economico ed un errore
politico: un'ingiustizia perché lo stato non
dava a tutti i cittadini le stesse opportunità;
un errore economico perché chi non ha soldi da
spendere non può certo produrre ricchezze; un
errore politico perché si mettevano contro lo
stato le classi che ne costituiscono la
maggioranza.
Per alzare i salari bisognava dunque non
contrastare gli scioperi dei lavoratori: e
questa fu infatti la sua politica, pur con
qualche sanguinose eccezioni.
L'altro mezzo con il quale Giolitti tentò di
accelerare lo sviluppo economico furono le nuove
leggi e riforme, sulle pensioni, sulla tutela
del lavoro minorile e
femminile. Istituì un commissariato per
l'emigrazione, il Consiglio Nazionale del
Lavoro; varò inoltre
la legge sulla municipalizzazione dei servizi
pubblici, onde rendere più agili questi ultimi.
Ciò che indubbiamente favorì lo statista fu il
suo organizzatissimo sistema burocratico, anche
perché, senza di esso, il suo programma
riformatore avrebbe sicuramente incontrato
resistenze.
Ovviamente Giolitti trovò oppositori sia a
destra che a sinistra: non passò infatti in
parlamento il progetto del ministro delle
finanze Wollenborg, che prevedeva un aumento
delle imposte dirette (che colpivano i ceti
dirigenti) e una diminuzione delle imposte
indirette (che colpivano invece la popolazione),
dimostrando così gli industriali italiani di non
essere in grado di assumersi la responsabilità
dello sviluppo economico; ma contemporaneamente
il leader dei socialisti Filippo Turati rifiutò
un posto nel governo Giolitti, temendo
ripercussioni dal suo partito.
La mancanza di alleanze formali fece si che
Giolitti potesse attuare quella politica di
favori, clientelismi, di trasformismo insomma
più capillare e nocivo di quello di De Pretis.
Ancora più spregiudicata fu la sua posizione
nelle elezioni del 1904, che furono pilotate
tramite una pressione operata sull'elettorato.
Alla luce di questi fatti Giolitti fu definito
da Gaetano Salvemini "Il ministro della
malavita".
Dopo un breve periodo di pausa, nel 1906
Giolitti torna al governo, durante un periodo di
prosperità economica che aveva portato la lira a
"fare aggio sull'oro", cioè a valere più dello
stesso equivalente in oro, e nel quale i tassi
di interesse erano scesi dal 5 al 3,5 per cento.
Ma già l'anno dopo le carenze di base
dell'economia italiana, dovute sia a scarsità di
materie prime sia a mancanza di capitali, si
resero evidenti. La nuova crisi economica fece
aumentare la resistenza alle sue riforme sia a
destra che a sinistra. Nacquero la C.G.L.
(confederazione generale del lavoro) e la
confederazione italiana dell'industria.
Dopo le nuove elezioni del 1909, che videro il
rafforzamento soprattutto dei socialisti,
Giolitti capì che non era il momento per tentare
altre riforme e il governo andò in mano a Luigi
Luzzatti. Il suo piano prevedeva il monopolio
delle
assicurazioni sulla
vita, l'ampliamento dell'istruzione pubblica e
soprattutto l'introduzione del suffragio
universale maschile, nella speranza di avere
l'appoggio dei socialisti.
Tornava intanto ad affacciarsi la questione
coloniale e in particolare l'occupazione della
Libia. Per fare questo però, bisognava tornare
ad avere dei rapporti con la Francia. Ed
infatti, con gli accordi tra Prinetti e Barrère
in cambio del riconoscimento degli interessi
francesi in Marocco l'Italia aveva campo libero
in Libia. Fu questo il giro di valzer cui si
riferiva il cancelliere tedesco Bulow, a cui
l'Italia era legata dalla triplice alleanza.
La guerra di Libia aveva tra i socialisti i
maggiori oppositori: essi sostenevano infatti
che non ne valeva la pena ("Uno scatolone di
sabbia" la definì Salvemini) e che non avrebbe
dato neanche terra coltivabile ai contadini
meridionali. Chi la sosteneva erano invece i
settori nazionalisti , capeggiati da Gabriele
D'Annunzio.
Nel frattempo all'interno del partito socialista
prevalse la corrente intransigente e
rivoluzionaria, guidata dal giornalista Benito
Mussolini e l'ala riformista riformista,
espulsa, creò il Partito socialista riformista
al quale non aderì Turati.
Intanto la guerra di Libia continuava e gli
italiani, se pure formalmente avevano dichiarato
la loro sovranità, si trovarono costretti a
combattere con le agguerrite popolazioni locali.
Per giungere ad una conclusione, l'Italia si
decisa ad attaccare l'impero Ottomano
direttamente: fu occupata Rodi e le isole del
Dodecaneso e l'ammiraglio Millo arrivò persino a
forzare i Dardanelli. La Turchia fu così
costretta a firmare la pace di Losanna, con la
quale riconosceva la supremazia italiana in
Libia.
La guerra fu più lunga e cruenta del previsto,
dando ragione ai timori dei socialisti, e per
riannodare i rapporti Giolitti fece approvare la
legge sul suffragio universale maschile:
votavano gli uomini con più di 21 anni (30 se
analfabeti).
Ma in quelle elezioni la novità fu la
partecipazione dei cattolici a sostegno dei
liberali, grazie al Patto Gentiloni: esso
prevedeva appunto il voto dei cattolici in
cambio dell'ostruzionismo su alcune leggi
contrarie agli interessi cattolici (divorzio,
laicità dell'insegnamento).
Dopo le elezioni del 1913, il parlamento si
ritrovò troppo frammentato e Giolitti preferì
dare le dimissioni; al suo posto salì Antonio
Salandra, che si dimostrò subito autoritario e
di indirizzo conservatore, reprimendo
violentemente i moti della settimana rossa del
giugno 1914.
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