"Credo che senza improbabili distinguo, storicamente inesistenti, l'Italia avrebbe dovuto avere dagli Alleati lo stesso trattamento post-bellico che ebbe la Germania e il Giappone, insomma un netto voltare pagina, non di facciata e allora non avremmo avuto gli infiniti compromessi catto-comunisti e post-fascisti e forse saremmo stati la grande potenza economica e industriale, senza le italiche risibili nostalgie, che oggi sono la Germania e il Giappone.
Qualcuno invece, in nome della realpolitik e del timore di cadere nell'orbita sovietica, ha ritenuto e forse addirittura creduto che 500 giorni di guerra partigiana potessero riscattarci da 23 anni di autentico Fascismo ad enorme consenso di popolo e renderci per questo "migliori" dei nazisti, dei quali siamo stati ispiratori e poi imitatori di ideali e azioni (vedi Leggi Razziali e Manifesto della Razza - vedi anche tra i Firmatari e aderenti nomi di personaggi che hanno costituito l'intellighenzia post-bellica della nostra Nazione)". (Carlo Anibaldi - 2008)
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Epurazione, la missione impossibile del dopoguerra
Di Loreto Di Nucci
Nella resa dei
conti con il fascismo non vi fu soltanto l'«epurazione
selvaggia» descritta da Giampaolo Pansa ne Il sangue dei
vinti, ma anche un'epurazione legale. Sortì qualche
effetto o si trattò di una «burletta», come sosteneva
Alessandro Galante Garrone?
Arturo Carlo Jemolo era del parere che le sanzioni
contro i fascisti erano state «mal congegnate e peggio
attuate». Sulla stessa lunghezza d'onda era sintonizzato
Massimo Severo Giannini, il quale riteneva che la
vicenda dell'epurazione era «nata male», era «cresciuta
peggio» e soltanto verso la fine era stata «raddrizzata
da atti normativi ragionevoli». Fra le storture
dell'epurazione Giannini indicava la più macroscopica,
vale a dire l'aver fatto «saltare tanti piccoli ingenui»
e l'aver lasciato al proprio posto «i furbi, dagli alti
papaveri in giù». I giudizi di Jemolo e di Giannini sono
certamente fondati, ma lasciano aperta una questione, e
cioè: il fallimento dell'epurazione fu determinato da
una scelta politica oppure no? La storiografia ha a
lungo sostenuto la tesi che la mancata epurazione in
Italia era stata il frutto di una precisa volontà
politica dei partiti moderati, i quali, d'accordo con i
governi angloamericani, avevano optato per una
continuità dello
Stato
e dell'apparato burocratico del periodo fascista.
Ma
quella tesi, come scrive Elena Aga Rossi nel numero di
Ventunesimo Secolo appena uscito e dedicato al tema, non
è mai «stata provata sulla base di ricerche
documentarie». A far sì che l'epurazione diventasse una
missione quasi impossibile da compiere concorsero
diversi fattori e molti impedimenti oggettivi. La prima
grande difficoltà scaturiva dal fatto che in un regime
come quello fascista, caratterizzato da una simbiosi tra
il partito e lo Stato, il numero degli epurabili era
potenzialmente altissimo. Si consideri che nel 1942 gli
iscritti al partito e alle organizzazioni dipendenti
erano 27.375.696, il 61% della popolazione. A ciò si
aggiunga la preoccupazione, fondata, che se si fosse
proceduto con la più assoluta severità, e con
l'immediata sospensione dal servizio dei funzionari
implicati, si sarebbe corso il rischio di bloccare a
tempo indeterminato, in attesa dell'accertamento delle
responsabilità dei singoli, l'intero apparato statale. A
parte questo, comunque, la complicazione maggiore
nasceva dal paradosso che coloro che dovevano applicare
le sanzioni, vale a dire i magistrati, erano al tempo
stesso «epuratori» ed «epurabili». La magistratura
italiana avrebbe potuto adeguatamente assolvere a questo
compito se fosse stata preventivamente epurata, come
accadde in Francia. Ma, come ha osservato Pietro
Saraceno, mancavano «uomini di ricambio». E dunque, per
quanto fosse «necessaria», l'epurazione della
magistratura era di fatto impossibile. Fu infatti
limitata ai vertici, ai pochi magistrati «più visibili»,
ma fu poca cosa nell'insieme del corpo. Come ha scritto
Guido Melis, inoltre, la legislazione relativa alle
sanzioni fu «alluvionale, frammentaria, contraddittoria,
sensibile ai mutamenti del clima politico succedutisi
fra il 1943 e il 1948». E naturalmente, il fatto che
fioccassero continuamente nuovi provvedimenti
legislativi creava sempre maggiori difficoltà
d'interpretazione dei fatti. Sicché poteva capitare che
la commissione centrale prosciogliesse del tutto
Marcello Piacentini, l'architetto ufficiale del regime,
che era stato condannato in primo grado dalla
commissione per l'epurazione del ministero della
Pubblica Istruzione, con sospensione dalla cattedra e
dallo stipendio, con una singolare motivazione.
Una motivazione che suonava così: «La partecipazione
attiva alla vita politica del fascismo può configurarsi
solo nell'attività di coloro che parteciparono alla vita
politica in senso proprio del cessato regime e non
nell'attività tecnica di chiunque col regime stesso ha
avuto rapporti». Era davvero arduo, inoltre, individuare
una linea di demarcazione netta fra «collaborazionismo»
e «resistenza passiva». Il gruppo dirigente dell'Iri, ad
esempio, era stato sospeso in blocco per aver concorso
al trasferimento al Nord dell'istituto, ma fu
rapidamente prosciolto perché si accertò che il trasloco
era avvenuto d'intesa con il direttore generale
Menichella, «nell'intento di sottrarre l'Iri alle
inframettenze naziste». Molti, peraltro, riuscirono a
sottrarsi all'epurazione dimettendosi, conservando così
pensione e onorificenze. Il caso più illustre fu quello
del presidente del Consiglio di Stato, Santi Romano, uno
dei massimi giuspubblicisti italiani. Trascinato sul
banco degli imputati, Romano si dimise, ma respinse ogni
addebito, sostenendo di aver sempre tutelato
l'indipendenza dell'istituto. In tale difesa c'era certo
qualcosa di vero, ma è altrettanto indiscutibile che
Romano si era iscritto al Pnf fin dal 1928 e che in
innumerevoli occasioni aveva tributato riconoscimenti al
regime e al suo duce. Benché difficile da realizzarsi,
l'epurazione coinvolse un gran numero di funzionari. Nei
ministeri, ad esempio, secondo i dati dei carabinieri,
furono «esaminati», fra il 1943 e il 1946, 218.159 casi
su 385.465 unità. Il numero esatto dei dispensati non si
conosce, ma fu basso. Nonostante ciò, l'epurazione
costituì una ferita per la burocrazia, poiché in molti
casi i funzionari avevano vissuto la «prossimità alla
politica» come «routine» e «solerte adempimento dei
doveri d'ufficio».