Il nazismo che Norimberga non cancellò
Secondo gli Alleati, dopo aver sconfitto Hitler,
era necessario sradicare completamente il nazismo dalla società tedesca,
colpendo quanti avevano contribuito al funzionamento della dittatura e
della stessa macchina dello sterminio. Il tribunale di Norimberga
sottopose perciò a giudizio non solo i principali esponenti politici del
Terzo Reich, ma anche alcuni dei maggiori rappresentanti di quelle élite
sociali e tecniche che avevano collaborato con il regime
nazionalsocialista. Contemporaneamente i tribunali militari delle zone
di occupazione processarono molti industriali, magistrati, militari,
medici, alti funzionari statali. Già nel luglio 1945 gli americani
avevano dato un chiaro segnale dell’intenzione di «denazificare» la
Germania arrestando decine di migliaia di membri dell’élite tedesca. Nel
giro di qualche mese gli internati raggiunsero la cifra di 250.000. Se
fu soltanto una minoranza a subire processi e condanne, tutti gli altri
dovettero comunque passare attraverso quel procedimento di
“denazificazione” che fu imposto a milioni di tedeschi. Solo chi avesse
chiarito in tal modo le proprie responsabilità poteva poi rientrare
pienamente nella vita civile. Al di là delle conseguenze
quantitativamente limitate (poiché quasi tutti la superarono), la
“denazificazione” ebbe un grande valore in termini di cesura con il
passato: obbligando tutti i tedeschi a giustificarsi, stava a
significare che non vi era nessun futuro possibile per il
nazionalsocialismo. Tuttavia, senza sottovalutare il significato di
quella rottura, è altresì innegabile che il procedimento di
“denazificazione” presto divenne quasi una farsa, anche grazie alla
facilità con cui si potevano ottenere dalle Chiese degli attestati di
innocenza. Nel giro di pochissimi anni, molti di coloro che avevano
collaborato con il regime di Hitler si trovarono di nuovo a esercitare
le funzioni di un tempo, come si ricava da un libro di straordinario
interesse, curato da Norbert Frei, che raccoglie i saggi di vari
studiosi sulle tante carriere iniziate nel Terzo Reich e proseguite
nella Repubblica federale tedesca. Vediamo così che già nel 1949 quasi
tutti i rappresentanti di una scienza medica che aveva tradito la
propria missione, dandosi come scopo non più la salute del singolo ma
quella della «razza ariana», erano tornati nelle università e negli
istituti di ricerca in cui lavoravano prima della
guerra.
Nel 1952 risultavano ormai riabilitati tutti i liberi docenti, compresi
dei membri delle SS e alcuni medici che avevano collaborato agli
esperimenti su esseri umani. Chi aveva partecipato al programma di
«eutanasia» (che comportava la soppressione dei malati incurabili e dei
portatori di handicap) continuava a insegnare alle nuove generazioni di
medici. I pochissimi che si trovarono accusati da un tribunale della
nuova Germania federale furono al massimo ritenuti colpevoli del
cosiddetto «errore di valutazione circa l’antigiuridicità del fatto
commesso»: in pratica, li si riconosceva non consapevoli del fatto che
le loro azioni erano contrarie alla legge (una motivazione, questa, che
non fu impiegata soltanto a favore dei medici). Non meno incredibile
appare il caso dei magistrati, che riuscirono ad accreditarsi come un
ceto di esperti e di tecnici che avevano soltanto applicato la legge,
laddove era vero il contrario: che le leggi naziste spesso erano state
interpretate in modo particolarmente severo. Già nel 1946 la penuria di
magistrati giustificò il cosiddetto procedimento «a cavalluccio»: per
ogni giudice non compromesso con il nazismo era consentito impiegarne
uno compromesso. Ma presto, superata la procedura di “denazificazione”,
tornarono nei tribunali quasi tutti coloro che vi lavoravano fino al
1945. Così, scrive Frei, i tedeschi perseguitati dal regime nazista che
si rivolgevano a un tribunale «potevano trovarsi di fronte allo stesso
giudice che li aveva condannati nel Terzo Reich». La continuità era
assai marcata anche tra il personale del ministero federale della
Giustizia che, in alcune sezioni, sembrava riprodurre - secondo gli
autori di questo volume - la composizione esistente ai tempi di Hitler.
Non diverso il caso del ministero degli Esteri, che ai tempi di Adenauer
aveva in quasi tutte le posizioni dirigenti i funzionari dell’epoca di
Ribbentrop. Di questa continuità il libro presenta un campionario
vastissimo e sconcertante anche per quel che riguarda altri settori
chiave delle élite tedesche, come gli industriali, i militari e i
giornalisti (a ciascuno dei quali è dedicato un saggio). Ma il volume ha
il merito di evitare le facili recriminazioni postume, analizzando
invece le cause storiche di una simile continuità, a cominciare dalla
principale, dal fatto cioè che una “denazificazione” radicale avrebbe
implicato qualcosa di impossibile: l’emarginazione dalla nuova Germania
democratica di milioni di tedeschi che in precedenza avevano aderito con
entusiasmo al regime nazionalsocialista. Proprio la stabilità della
nuova Repubblica federale richiedeva, ad esempio, di integrare milioni
di ex militari che avevano servito Hitler, al fine di evitarne la deriva
politica verso destra. Tra i prezzi da pagare vi fu quello di accettare
una visione del recente passato di natura largamente mitologica, finendo
col credere, nel caso delle forze armate, che la Wehrmacht si fosse
mantenuta indipendente dalle azioni criminali compiute dalle SS ed
estranea allo sterminio degli ebrei. Più in generale si accreditò a
lungo, come scrive uno degli autori del libro, la favola dei tedeschi
«innocenti» dominati da «una piccola cricca senza scrupoli» di fanatici
in camicia bruna. Sarebbe stato necessario che la generazione di quanti
avevano collaborato con Hitler uscisse di scena perché, da parte
dell’opinione pubblica tedesca, questa e altre «favole» analoghe
venissero finalmente riconosciute come tali.
di G. Belardelli
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