SCHEDA
  BIOGRAFICA 

ALBERTO BENEDUCE 


Geniale conoscitore e manovratore dei meccanismi finanziari,  pur non essendo fascista, lavorò nell'ombra per lunghi anni accanto al dittatore

L'EMINENZA GRIGIA DI MUSSOLINI 
SALVO' L'ITALIA  DAL CAOS ECONOMICO

di VALENTINO NECCO

Cos'è una "eminenza grigia"? La storia recente dell'Italia è purtroppo punteggiata da un numero davvero notevole di misteri irrisolti e forse per questo la cosiddetta "dietrologia" è diventata una delle discipline più frequentate del paese. Un amore forse innato (e sicuramente un po' provinciale) per le teorie dei complotti altro non ha fatto che alimentarne l'uso strumentale. Chi non ha mai sentito parlare di "poteri forti", di "eminenze grigie", di "regie occulte" o di "grandi vecchi"? 

Tanto meglio se questi termini significano tutto e niente, perchè l'alone di mistero che ne deriva trae origine proprio da questa indeterminatezza. In realtà, se andiamo a consultare il dizionario, la definizione di eminenza grigia non ha in sè e per sè una accezione negativa, o esclusivamente negativa, ma tant'è: non è certo un caso che in Italia sia soprattutto ad un personaggio come Licio Gelli (" il burattinaio") che viene di norma affibbiata questa etichetta. 

C'è tuttavia un'altra figura che in Italia è solitamente definita come "eminenza grigia", ed è quella di Enrico Cuccia, il riservatissimo presidente di Mediobanca. Nonostante non abbia mai occupato alcuna carica istituzionale, nelle sue mani si sono spesso concentrati poteri immensi, e la sua influenza - per quanto indiretta - sulla economia italiana è stata talvolta pari a quella di un ministro del governo. Nelle mani di Cuccia, che ha fatto della discrezione uno stile di vita (mai in assoluto un'intervista concessa ai giornalisti), sono passati i pacchetti azionari di maggioranza della quasi totalità delle più importanti società italiane; il suo ormai mitico quanto inaccessibile studio di via Filodrammatici ha Milano ha visto disegnare le strategie finanziarie di quelle stesse società e comporne nella più assoluta segretezza i conflitti di potere. 

Di origini siciliane, Enrico Cuccia è sposato con una donna dal nome curioso: Idea Socialista. La signora - così pare - è chiamata meno impegnativamente Ida, ma resta egualmente curiosa tanta fede nel socialismo da imporre un tale nome alla figlia, soprattutto se scopriamo che il padre in questione fu uno dei più stretti collaboratori di Mussolini in campo economico e finanziario durante tutto il periodo fascista. L'uomo che sapeva tutto!

Se poi scopriamo che oltre ad essere il suocero di Cuccia ne fu per certi versi il predecessore e per altri una sorta di maestro e di padre spirituale, la cosa si fa doppiamente curiosa. Non solo: Alberto Beneduce (ecco finalmente in scena il protagonista dell'articolo, ma è legittima un po' di suspense quando si fa la conoscenza di una vera eminenza grigia…) fu, quanto a potere e prestigio, un Enrico Cuccia al cubo. Nonostante abbia sempre sostanzialmente operato dietro le quinte, la figura di Beneduce è assolutamente centrale nel panorama della storia economica - se non della storia tout court - tra le due guerre mondiali.

Nato a Caserta il 29 marzo 1877 da una famiglia di modeste condizioni, Alberto Beneduce studiò discipline matematiche a Napoli, dove si laureò nel 1900. Fino all'avvento del fascismo Beneduce fu apertamente socialista. La sua carriera procedette brillantemente su più fronti: quello politico, quello universitario e quello professionale. 

Nel 1910 fu abilitato alla libera docenza in statistica e demografia e nello stesso anno si vide assegnata una cattedra all'Università di Genova. Nel 1911 Francesco Saverio Nitti, allora primo ministro, lo chiamò a collaborare al progetto di un ente pubblico che gestisse monopolisticamente le assicurazioni sulla vita. L'anno successivo il suo apporto alla nascita e alla organizzazione dell'Istituto Nazionale delle assicurazioni (INA), in qualità di consigliere di amministrazione, fu probabilmente determinante. Seguace di Bissolati, nel 1913 fece parte del comitato elettorale socialista-riformista che lo sosteneva. In questo periodo Beneduce, che aveva nel frattempo aderito alla massoneria, faceva parte del comitato centrale dell'Associazione nazionale del libero pensiero. 

Nel 1914-15 fu interventista e con Bissolati e Nitti cercò di sostenere le ragioni che i gruppi democratici avrebbero avuto per schierarsi a fianco delle altre grandi democrazie occidentali. Si occupò tra l'altro dei problemi economico-finanziari connessi alle necessità belliche, e collaborò con Stringher, governatore della Banca d'Italia, alla istituzione del Consorzio per sovvenzioni su valori industriali, strumento che si rivelerà di primaria importanza nel sostenere il sistema industriale durante la problematica congiuntura di guerra. Mentre la maggior parte degli aderenti socialisti si era mantenuta su posizioni (per quanto variegate) di neutralità, Beneduce fu volontario in un reparto combattente del Genio.

Inutile dire che vi entrò come ufficiale. Vi uscì del resto già nel 1916, per assumere la carica di amministratore delegato dell'INA. È in questo periodo che la sua collaborazione con Nitti si fa ancora più stretta. Il suo apporto alle politiche economico-finanziarie del governo (particolarmente riguardo ai programmi di ricostruzione post-bellica) risultò importantissimo: è a lui che si deve la concessione della polizza gratuita di assicurazione ai combattenti, e soprattutto l'istituzione dell'Opera nazionale combattenti (ONC) di cui fu anche, inizialmente, il presidente. La funzione principale di questo organismo, nato all'indomani dell'umiliante sconfitta di Caporetto, non era solo quella di rendere più accettabili alle truppe - completamente frustrate sul piano fisico e psicologico - le durissime condizioni della guerra di trincea , ma anche e soprattutto quella di promuovere uno sforzo per una vera ricostruzione alla fine della guerra: si proponeva infatti compiti organizzativi e formativi verso i reduci, e diverse iniziative nel campo delle bonifiche agrarie e dell'assistenza finanziaria. 

Nel novembre del 1919 Beneduce si dimise da amministratore delegato dell'INA e da professore d'università per presentarsi alle elezioni politiche nel collegio di Caserta, schierandosi con il gruppo social-rifomista guidato da Ivanoe Bonomi. Eletto deputato, rappresentò il proprio collegio per due legislature (la V e la VI), dal 1919 al 1923. Presidente della commissione Finanza e Tesoro della Camera, ebbe una parte importante nella legislazione economica e finanziaria dei governi Nitti e Giolitti.

Politicamente si dimostrò favorevole alla collaborazione con i cattolici guidati da don Sturzo. Il 4 luglio 1921 entrò a far parte del governo Bonomi in qualità di ministro del Lavoro e della Previdenza Sociale, dicastero di recente istituzione. Molto significative furono le contrastanti reazioni seguite alla sua nomina: mentre i nazionalisti lo giudicarono il nemico forse più pericoloso per il fascismo, Mussolini in persona ne lodò pubblicamente le capacità su il Popolo d'Italia (5 luglio 1921). Del resto Beneduce, che come abbiamo visto proveniva da una famiglia di umili condizioni, il prestigio di cui godeva se lo era conquistato sul campo, grazie alle sue capacità, e molto probabilmente anche chi gli era nemico non poteva negarne la competenza tecnica: proprio la sua intelligenza fuori dal comune era ciò che agli occhi dei fascisti lo rendeva maggiormente pericoloso. 

L'esperienza governativa non fu per Beneduce gratificante, se è vero che, insoddisfatto, già nell'ottobre del 1921 presentò a Bonomi le sue dimissioni. Dimissioni che però - questo a riprova del prestigio di cui ormai godeva - non furono accettate: Beneduce concluse dunque il suo lavoro di ministro solo nel febbraio del 1922. Se osserviamo da vicino l'attività politica di Beneduce tra il 1919 e il 1922, notiamo come essa sia decisamente intensa. Ai ruoli ricoperti già menzionati se ne aggiunsero numerosi altri derivanti dalla sua partecipazione a molte diverse commissioni e a incarichi speciali di vario genere. L'elenco degli enti e delle associazioni in cui ricoprì a vario titolo cariche amministrative è davvero lunghissimo. Molto spesso si tratta poi di posizioni di responsabilità. Fu membro del Consiglio superiore di statistica e di quello per l'Istruzione Commerciale, membro del Consiglio superiore del credito, del Consiglio superiore della previdenza e assicurazioni sociali, e del comitato permanente della previdenza e assicurazioni sociali, e membro del Consiglio di amministrazione della Cassa nazionale per gli infortuni sul lavoro.


Fece anche parte del Comitato dell'associazione della Croce Rossa per il soccorso ai malati e ai feriti in guerra. Fu, infine, presidente della Cassa nazionale di previdenza per l'invalidità e la vecchiaia degli operai. Se non sapessimo che tutti questi incarichi, per tacere di quelli secondari, furono una quasi naturale conseguenza del prestigio goduto da Beneduce, saremmo tentati di sospettare una certa qual mania di protagonismo. Al contrario, Beneduce fu sempre maestro di discrezione. In pochi anni egli era riuscito a costruirsi una solida reputazione di uomo al di sopra delle parti, e proprio su questa immagine di imparzialità e di discrezione (nonché, ovviamente, sulle sue grandi capacità professionali) che costruì la sua brillante carriera. 

È strano constatare quanta poca letteratura esista su una figura così importante per la storia dell'economia italiana, degna, per il ruolo centrale che ha avuto, di figurare accanto a personaggi come Einaudi, Vanoni o Mattei, che in effetti godono di ben altra fama. Poco ha giovato a Beneduce, molto probabilmente, proprio questa vocazione all'understatement. 

Nel 1922, al momento del colpo di stato fascista, Beneduce abbandonò la vita politica e non si presentò alle successive elezioni del 1924, ma continuò sempre a schierarsi con i gruppi democratici in tutte le più importanti occasioni di opposizione al fascismo al quale - inizialmente - sosteneva si dovesse resistere anche con l'uso della forza.

Fu sempre al fianco dei più importanti esponenti progressisti, da Bonomi a Turati ad Amendola, sia prima sia dopo il delitto Matteotti. A proposito del delitto Matteotti, considerato come il vero inizio della dittatura fascista, ricordiamo che fu proprio grazie a Beneduce e al gran maestro della massoneria, Domizio Torrigiani, che l'opposizione antifascista entrò in possesso del noto memoriale di Cesare Rossi e lo stesso Beneduce si prodigò perché questo pervenisse al Re Vittorio Emanuele III, e con esso anche il memoriale Filippelli. 

Quella che possiamo senza alcun dubbio osservare in questo caso è una radicale opposizione al fascismo. Nel maggio 1925, tuttavia, Beneduce fu tra quelli che premettero per un ritorno in aula degli Aventiniani affinché l'opposizione al governo fascista si svolgesse all'interno del Parlamento. Non solo, si faceva strada in Beneduce l'idea che un eventuale collaborazione con I fascisti fosse da prendere in considerazione. Egli in realtà non fu l'unico in quegli anni a sostenere questa possibilità: come molti altri esponenti democratici oscillò spesso tra un giudizio completamente negativo sul fascismo e la speranza che esso rientrasse nei confini della legalità e che dunque fosse opportuno sperimentare con esso una qualche forma di collaborazione. 

Nella seconda metà del 1925, col rafforzarsi del nuovo regime e il frantumarsi dell'opposizione antifascista, Beneduce si distaccò dagli amici noti per antifascismo e con un probabilmente molto ben calcolato silenzio sul nuovo corso della vita politica si dedicò interamente a quelle iniziative pubbliche e private che lo porteranno, di lì a poco, a una stretta collaborazione col regime fascista. Un silenzio, quello di Beneduce, che lascia molto spazio alle libere interpretazioni, o meglio che non ne lascia alcuno, perché nessuno può provare con certezza quali considerazioni abbiano prevalso nelle sue decisioni.

Forse solo una grande ambizione personale, condita da una ben ponderata dose di cinismo politico; forse invece un realismo spinto alle estreme conseguenze di accettare la collaborazione con un regime che altrimenti sentiva di dover decisamente rifiutare, nella speranza di ricavare uno spazio di libertà e di azione il più ampio possibile. Quali che fossero le sue motivazioni, dobbiamo dire che i suoi scopi li raggiunse in pieno, se è vero come è vero che proprio il fascismo lo lanciò in una dimensione ancora più grande ( tanto da diventare, come abbiamo già più volte ripetuto, figura di prima grandezza della storia economica nazionale), e se è vero anche che il suo rapporto con il regime non richiese mai riconoscimenti ufficiali, risolvendosi come vedremo in un rapporto diretto e personale con Mussolini. 

Già dal 1926 dunque Beneduce assunse la presidenza della cosiddetta "Bastogi", che conservava il nome di Società per le strade ferrate meridionali, ma che era in realtà una società di primissima importanza nel settore elettrico. Evidentemente Beneduce non partiva da zero, ma si giovava di una solida esperienza sui problemi finanziari sia interni sia internazionali e soprattutto su una rete di contatti importanti intrecciata negli anni precedenti. Fin dagli inizi egli poté contare sulla amicizia e sull'appoggio di Stringher e del potente Volpi, ministro delle Finanze molto ben introdotto nel mondo bancario.

Nel 1927 Volpi stesso lo incaricò di appoggiare il lavoro dello Stringher per la predisposizione di tutte le lunghe e complicate manovre finanziarie necessarie per attuare la riforma monetaria. Con il famoso "discorso di Pesaro" dell'estate del 1926 Mussolini si era impegnato - per evidenti questioni di prestigio politico - a difendere il cambio della lira. In particolare si volle difendere la cosiddetta "quota 90" rispetto alle sterlina (con grande dispendio di retorica nazionalista, per difendere un cambio che in realtà sopravvalutava il vero valore di mercato della nostra moneta), e ciò costrinse le istituzioni monetarie del Paese a un duro lavoro di adeguamento. Anche in questo caso l'apporto di Beneduce all'elaborazione del provvedimento che fissava a 92,46 il cambio lira-sterlina (21 dicembre 1927) fu decisivo, e lo fu anche per quanto concerne tutte le operazioni collaterali tra le quali la sistemazione del debito fluttuante dello Stato e la definizione degli accordi con le autorità monetarie inglesi e americane. 

Comincia dunque in sordina l'ascesa di Beneduce e senza bisogno che questi si esponga mai dal punto di vista politico: con molta probabilità possiamo credere che egli mai fu fascista, tanto è vero che più volte Mussolini resistette alle insistenti pressioni di certi ambienti fascisti che mal tolleravano la persona di Beneduce in così elevati posti di comando. La forza (e quindi il potere) di Beneduce stava nella grande stima che il duce in persona aveva in lui. 
La documentazione storica su questo strano rapporto personale che legava Mussolini a Beneduce è piuttosto carente: non si sa molto sulla natura di questo rapporto ma è certo che la condotta di Beneduce, del resto volutamente circoscritta in ambito puramente tecnico, era improntata ad una lealtà che non lasciava indifferente Mussolini. Ovviamente non è il caso di ricamare troppo attorno alla relazione Mussolini - Beneduce: l'ascesa di quest'ultimo trovava appoggio nel primo ma è altrettanto evidente che essa è determinata dal modo con il quale Beneduce si seppe muovere nel mare turbolento dell'economia italiana, in particolare in occasione della crisi bancaria degli anni Trenta, alla cui soluzione egli contribuì in modo a dir poco fondamentale.

Lo sguardo va qui allargato su un orizzonte più ampio: nell'autunno del 1929 il crollo di Wall Street, la borsa più importante del mondo, fa deflagrare una crisi latente, che è crisi dell'economia reale e crisi finanziaria assieme. Tra il 1929 e il 1932 in tutto il mondo si assisterà a un drammatica crollo della produzione industriale (il che, sia detto per inciso, porterà a una progressiva chiusura di stampo autarchico delle singole economie nazionali, e dunque ad un aumento della conflittualità che avrà il suo ruolo nello scoppio della successiva guerra mondiale). Ebbene: nemmeno l'Italia sfuggì alla grande depressione, ma la crisi assunse una forma particolare. Il sistema industriale italiano infatti aveva subìto una forte accelerazione - soprattutto in alcuni settori - con la Prima guerra mondiale grazie alle commesse statali. 

Venute a mancare quelle, a fronte di un mercato ancora poco sviluppato, la crisi da sovrapproduzione era stata quasi automatica. La grande anomalia, in ogni caso, era costituita dall'intreccio tra banche e industrie, anch'esso divenuto più stretto nel periodo 1915-18. Questo "abbraccio perverso" era la conseguenza di un mercato finanziario troppo contratto e comunque sbilanciato sui titoli di stato: da sempre il grave handicap del capitalismo italiano era (e in parte lo è tuttora) quello di essere un "capitalismo senza capitali". In sostanza accadeva che banche e industrie si controllassero a vicenda: le prime ingerivano nella gestione industriale, mentre i gruppi industriali tentavano di acquisire i pacchetti azionari di controllo delle banche più importanti per utilizzare i depositi dei risparmiatori come fonte di finanziamento. 

Questo sistema, comunemente definito di banca mista, aveva in Toepliz, presidente della Banca Commerciale, il più acceso sostenitore. Esso in effetti aveva dato un contributo più che notevole al processo di industrializzazione del Paese, ma già fin nel 1921 il crak della importante Banca Italiana di Sconto (BIS) aveva reso evidente a molti, tra i quali Beneduce, che la banca mista era troppo esposta al rischio di venire coinvolta dall'eventuale crisi dell'industria. Una tale commistione di interessi si rifletteva poi nella composizione dei consigli di amministrazione delle banche e delle imprese controllate (o viceversa): i dirigenti finivano per essere gli stessi e ciò donava una sfumatura ancora più ambigua al quadro generale. Durante tutti gli anni Venti il sistema bancario soffrì visibilmente di questa anomala commistione: oltre alla BIS crollò la Banca Agricola Italiana (1923) e I fallimenti non si contarono. Il Banco di Roma fu invece salvato, sempre nel 1923, per motivi di opportunità politica: era appena caduta la BIS e con essa l'Ansaldo, e inoltre il Banco di Roma avrebbe trascinato con sé moltissimi altri piccoli istituti di credito.

Non ultimo, esso rappresentava gli interessi di molti gerarchi fascisti e dello stesso Vaticano. Le prime risposte alla crisi arrivarono concretamente attorno al 1926, orchestrate dall'attenta regia del solito Beneduce. Dal 1919 egli era presidente del Consorzio di credito per le opere pubbliche (CREDIOP) e dal 1924 dell'Istituto di credito per le opere pubbliche (ICIPU), di cui era stato ispiratore e fondatore. Questi due importanti enti gli avevano consentito di farsi una incomparabile esperienza nel campo del credito industriale. Egli li aveva gestiti entrambi con una filosofia diametralmente opposta a quella di Toepliz, il che, come vedremo, lo porterà in seguito ad un inevitabile conflitto con quest'ultimo. 

Nel 1926 la "sezione speciale autonoma" del Consorzio per sovvenzioni su valori industriali venne organizzata nella forma voluta da Beneduce per una gestione autonoma delle operazioni di salvataggio. L'istituto venne così in possesso di numerose partecipazioni azionarie rilevate dalle banche in difficoltà: queste in parte furono nuovamente cedute ai privati, in parte mantenute sino a quando non le passò all' IRI, la grande invenzione di Beneduce che diventerà realtà qualche anno più tardi. Nel 1929 infatti, la caduta dei corsi azionari aveva danneggiato soprattutto quelle banche - la Commerciale, il Credito Italiano, il Banco di Roma - che più di altre partecipavano della proprietà di imprese industriali da loro stesse finanziate coi depositi.

Dal 1930 al 1933 la crisi andò progressivamente peggiorando, dimostrando una volta per tutte che il sistema della banca mista era giunto all'epilogo. Inoltre, nel tentativo di sostenere le imprese in difficoltà, le banche invece di smobilizzare i propri capitali, intervenivano ancora più pesantemente con l'acquisto di nuove partecipazioni azionarie, innescando un circolo vizioso pericolosissimo. Le immissioni di liquidità della Banca d'Italia (che solo dal 1926 era l'unica titolare del diritto di emissione e di controllo dello stock monetario, nonché di controllo sul resto del sistema creditizio) evitarono il crollo dell'intero sistema bancario ma non poterono risolvere una crisi che era strutturale. A questo proposito la maggiore lungimiranza di Beneduce, convinto assertore della separazione tra credito ordinario e credito industriale, ebbe la meglio sulla ostinata convinzione di Toepliz, per il quale il salvataggio dello Stato avrebbe dovuto permettere alla Commerciale (e così alle altre banche) di riprendere la politica sino ad allora adottata. 

Beneduce, al quale fu affidato l'intervento statale, sosteneva invece che il settore pubblico, una volta messi a disposizione I capitali necessari al salvataggio avrebbe dovuto acquisire I titoli e le partecipazione industriali delle banche e provvedere di suo conto alla loro gestione e al successivo smobilizzo. Il primo grande tentativo di rispondere alla ristrettezza del mercato finanziario (obbligazionario in particolare) che tanti ostacoli poneva allo sviluppo industriale fu la costituzione dell' Istituto Mobiliare Italiano (IMI), ente pubblico che avrebbe dovuto realizzare il credito industriale attraverso la concessione di mutui a medio e lungo termine alle piccole e medie imprese. Costituito nel maggio del 1931 l'IMI (di cui Beneduce era consigliere d'amministrazione) fu sopraffatto dalla gravità della crisi e l'attuazione pratica dei suoi obiettivi fu molto limitata. Intervento di ben maggiore portata, che ben possiamo definire storica per l'economia italiana, fu la costituzione dell'IRI.

L'Istituto per la Ricostruzione Industriale rappresentò una novità assoluta anche rispetto alle esperienze di altri paesi. Della sua ideazione e della sua organizzazione, elaborata nel più totale riserbo assieme a Donato Menichella (l'allora presidente della Banca d'Italia, anch'egli personaggio anomalo in quanto non fascista) e a Pasquale Saraceno, Beneduce rese conto solo ed esclusivamente al duce. Il silenzio attorno al progetto fu totale, e Mussolini stesso, a quanto sembra, diede il suo benestare al lavoro già ultimato. 

Presieduto dallo stesso Beneduce e costituito per regio decreto il 23 gennaio 1933, l'IRI fu finanziato dalla Banca d'Italia e dal Tesoro e si assunse l'immane compito di smobilizzare le partecipazioni delle banche miste nelle aziende industriali, operazione quanto mai complessa anche a causa dell'intricatissimo sistema delle partecipazioni incrociate. Questo portò l'IRI a possedere azioni in un numero assai notevole di aziende nei più disparati settori: dalla telefonia alle armi, dalla chimica all'agricoltura, dal tessile alla meccanica. Caso particolare quello del settore bancario, dove la quasi totalità delle azioni era costituita dai capitali sociali di Banca Commerciale, Banca di Roma e Credito Italiano, che si vennero così a trovare sotto controllo pubblico. Dal 1936 esse assunsero la qualifica di Banche di Interesse Nazionale (le cosiddette BIN), che hanno conservato fino alle privatizzazioni avvenute in questi anni Novanta.

Tutto ciò fece dell'IRI un mastodonte economico, dalle proporzioni esagerate rispetto a quasi tutti gli altri gruppi di imprese operanti allora in Italia. Il suo bilancio presentava dimensioni fuori dall'usuale: all'attivo erano iscritte partecipazioni per circa 8 miliardi di allora. Una cifra esorbitante, basti pensare che il capitale sociale dell'IMI ammontava a 551 milioni. L'IRI era stato pensato da Beneduce come un ente temporaneo per gli smobilizzi e per il finanziamento a medio-lungo termine delle piccole e medie imprese. 

Esso finì invece per diventare permanente perché le risorse di capitale del mercato risultarono insufficienti a riassorbire tutte le partecipazioni. Queste difficoltà possono dare l'idea di come l'azione di Beneduce andasse a toccare l'intero sistema economico nazionale. Dal giugno 1937 un provvedimento governativo rese l'IRI un ente permanente e se in un certo senso questa fu una piccola sconfitta per Beneduce è lecito immaginare che egli si sia adeguato con il suo usuale realismo alla situazione contingente, sfruttando al meglio le risorse che questa gli metteva a disposizione. Tra l'altro la ripresa economica del 1935 se da un lato era essa stessa un ostacolo al riacquisto delle partecipazioni IRI, in quanto gli investimenti del settore privato erano già impegnati in una fase di espansione, dall'altro aumentò il valore delle azioni a allontanò il pericolo di nuovi collassi finanziari. 

Ciò che però allontanò davvero il timore di nuove crisi fu la normalizzazione dell'attività creditizia che seguì la legge bancaria del 1936, l'ultimo capolavoro di Beneduce, di cui la costituzione dell'IRI era stata la premessa indispensabile. Datata 12 marzo 1936 (ed emendata nel 1937 e nel 1938), la riforma bancaria fu ispirata da Beneduce e suddivise il credito a breve da quello a lungo termine. Il primo fu assegnato agli istituti di credito ordinario tra cui le tre banche pubbliche (chiuse all'azionariato estero), le casse rurali e di risparmio, le banche popolari, le ex banche di emissione (che avevano fino a pochi anni prima il diritto di stampare lire: tre queste San Paolo, Monte dei Paschi, i Banchi di Napoli e Sicilia).

Il credito industriale divenne invece competenza esclusiva di IMI, CREDIOP e ICIPU. In realtà la legge disciplinava la raccolta e non gli impieghi e quindi non impediva che questi potessero essere anche ad altissimo rischio, ma permetteva agli organi di controllo appositamente creati di interferire con giudizio di merito - potere notevolissimo - sul rapporto raccolta/impieghi. Questo potere spettava a un Comitato interministeriale nato contestualmente alla legge e alla Banca d'Italia che sempre in virtù della riforma diventava completamente pubblica e aumentava I propri poteri di supervisione dell'intero sistema creditizio, assumendo definitivamente il carattere di "banca delle banche". 

Quanto all'IRI, esso venne gestito da Beneduce con criteri privatistici e con la perenne cautela di mantenere l'intervento statale nei limiti del controllo finanziario, senza sconfinare nell'ambito della gestione e della programmazione. Egli fu in questo senso un riformista illuminato: dotato di un senso dello Stato che pochi in Italia prima e dopo di lui hanno dimostrato, per principio percepì sempre compensi ed emolumenti solo dalle sue partecipazioni in società private e mai dall'amministrazione pubblica. La sua impronta sulla forma dell'economia italiana si è conservata praticamente fino ad oggi: gli ordinamenti finanziari e l'assetto della proprietà dei capitali qualificarono da allora, in Italia, un tipo di economia "mista" di iniziative pubbliche e private.

LA NASCITA DELLE PARTECIPAZIONI STATALI

Dall'esperienza dell'IRI nacque il sistema delle partecipazioni statali, unico in Europa e forse nel mondo, una sorta di "terza via" tra liberalismo e socialismo che ha avuto le ben note degenerazioni di corruzione partitocratica ma che ha anche avuto nel nostro paese una notevole importanza storica, essendo stato tra l'altro uno dei più importanti terreni di incontro tra la cultura di sinistra e quella cattolica. 

Tornando al 1936, superata la crisi economica, la posizione di Beneduce nella vita finanziaria del paese è, se possibile, ancora più forte: lo troviamo presidente dell'IRI, dell'ICIPU, del CREDIOP, dell'Istituto per il credito navale (altra sua personale creazione, in omaggio alla filosofia della specializzazione finanziaria), dell'Istituto nazionale dei cambi e del Comitato centrale amministrativo del Consorzio per sovvenzioni su valori industriali. 

Nel settore privato conservava la carica di presidente della Bastogi e quella di consigliere di amministrazione delle società controllanti o controllate tra cui Fiat, Pirelli, Edison, Montecatini, Generali. 

Verso la fine del luglio 1936 fu colpito, a Milano, da una grave malattia da cui guarì solo dopo qualche mese e che lasciò le sue capacità lavorative molto compromesse. Mantenne la presidenza dell'IRI fino al 1939 nonostante che dopo la malattia si fossero moltiplicate le pressioni su Mussolini per un suo esonero dalla carica. Il 4 aprile 1939 venne nominato senatore in quanto ex-ministro e solo allora gli venne conferita la tessera del partito nazionale fascista (PNF) al quale tuttavia, egli non volle mai formalmente aderire, limitandosi, come per il passato a manifestazioni di personale devozione e solidarietà al duce. Poco dopo questa nomina lasciò ogni incarico nella pubblica amministrazione, comprese tutte le cariche minori. Ripresosi, almeno in parte dalla malattia, dedicò tutte le restanti energie al governo della Bastogi.

Anche in questi ultimi anni diede prova di notevole lucidità e lungimiranza adoperandosi affinché le imprese idroelettriche meridionali non fossero vincolate all'influenza dei grossi complessi industriali del nord e affinché disponessero di mezzi finanziari tali da stare al passo con l'espansione del Settentrione, in funzione e in previsione dei programmi di industrializzazione del Mezzogiorno.

L'immagine che ci resta di Beneduce, tuttavia, è quella di uomo di Stato. Uomo potentissimo, per certi versi, servitore dello Stato per altri. Massone, socialista, fascista, riformista? Cosa sia veramente è molto difficile dirlo. Molte delle fonti bibliografiche che lo riguardano sono frammentarie e indirette. Il ritratto che ne esce è forse più quello di un grand commis (dove l'aggettivo grande è pienamente giustificato) che di una eminenza grigia. Alberto Beneduce morì a Roma il 26 aprile 1944, dopo una vita spesa, spesso dietro le quinte, a fare da arbitro nel grande gioco dell'economia italiana.


RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI