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L'OLOCAUSTO Una storia per tutte: vita e morte nel ghetto di Varsavia |
Chi voglia comprendere cosa sia stata la Shoah - o soltanto ritornarvi con il pensiero, per obbedire al monito del popolo ebraico, "Non dimenticare" - non ha che l'imbarazzo della scelta.
Dal Diario di Anna Frank ai libri di Primo Levi, di Fred Uhlman, di Joseph Joffo; da film celeberrimi quali Schindler's list ad altri meno noti ma non meno belli quali Europa Europa; da un eventuale viaggio, per chi sa di poter sopportare determinate atmosfere, nel luogo che è a tutti gli effetti il simbolo di quella tragedia, Auschiwtz; le possibilità e le occasioni per imparare quel che fu l'Olocausto, insomma, non mancano. Tra queste ve n'è una in particolare, che ha l'immediata violenza delle immagini: la fotografia di quel bambino con le braccia alzate e il volto tirato di paura, minacciato da un fucile delle SS all'interno del ghetto di Varsavia, nel 1943. Forse più di Auschwitz, è quella foto il simbolo della Shoah.
Auschwitz è il nome che indica
una barbarie che, a pensarla oggi, sembra ancora impossibile essere accaduta; è
l'icona di altri centinaia di campi di sterminio in cui furono soppressi 6
milioni di ebrei. La foto di quel bambino, invece, esprime l'essenza di quella
tragedia, la follia di chi ha il coraggio di puntare un fucile contro un piccolo
di sei anni, l'universale ingiustizia che vede il colpevole uccidere
l'innocente. Ma qualcosa ha voluto che quel bambino non morisse e che oggi, a 63
anni, viva a New York. Il suo nome e Tsvi Nussbaum. E se anche il destino non
gli avesse concesso di sopravvivere a quell'inferno, avrebbe comunque continuato
ad esistere in quell'immagine, così eloquente da indurre il professor Ernesto
Galli della Loggia a lanciare un pubblico appello perché venga affissa in ogni
aula scolastica a memoria di quel che è stato. Quell'immagine non è più una
semplice fotografia, ma è diventata un'icona; non solo per quello che
rappresenta, ma anche per la sua cornice: il ghetto di Varsavia, la cui storia
vi raccontiamo con questo articolo. La capitale polacca, nel programma nazista
di sterminio della razza ebraica, non può non costituire un obbiettivo di
primaria importanza. Nel periodo che intercorre tra le due guerre mondiali, a
Varsavia si contano circa 380.000 ebrei, cioè il 30% della popolazione della
città. Il ghetto esiste già, a pochi passi da Starego Miasta (Città vecchia),
cuore della capitale.
Ciò fa di Varsavia la vera capitale degli ashkenaziti, gli ebrei di origine
tedesca (Ashkenaz, infatti, è il nome biblico della Germania) che parlano la
lingua yiddish, scritta in caratteri ebraici ma derivata da un particolare
dialetto tedesco, il Mittelhochdeutsch. All'interno del ghetto pulsa una vita
frenetica, fatta soprattutto di commerci e scandita dagli antichi rituali
religiosi del popolo di David. Via Krochmalna, via Mila, via Pawia, via Dzielna:
strade tuttora esistenti ma il cui volto è radicalmente cambiato da quel che
era un tempo, sfigurato prima dalla barbarie nazista e poi dall'appiattimento
urbanistico di quarant'anni di regime sovietico. Di quel ghetto, della vita e
della cultura yiddish di allora sono testimoni soltanto le targhe delle strade,
cui il tempo e la storia hanno aggiunto nuovi nomi: per esempio il viale
Solidarnosci, che taglia in due l'antica zona ebraica e racconta di più recenti
e fortunate battaglie. Pure, quella non è l'unica zona di residenza degli
ebrei: altre 150.000 persone vivono infatti nel resto di Varsavia, e il ghetto
non è che un quartiere come tanti altri, in cui vive una maggioranza israelita
affiancata comunque da una seppur minima quota di cattolici polacchi (circa
80.000 unità).
La situazione cambia un anno dopo
l'invasione della Polonia da parte delle truppe tedesche. Il 16 ottobre del
1940, il governo di Berlino emana un decreto in forza del quale tutti gli ebrei
residenti all'esterno del ghetto sono obbligati a trasferirvisi; dal canto loro,
gli "ariani" che vi risiedono sono tenuti a traslocare nelle zone
"pulite" della città. Comincia così la scientifica operazione di
sterminio pianificata da Eichmann; gradualmente, con quello che appare come un
semplice scambio di alloggi tra famiglie. Tuttavia, già quel piccolo passo
verso la Shoah evidenzia le terribili intenzioni degli invasori nazisti: coloro
che lasciano il ghetto sono 80.000 persone; chi vi entra sono 150.000. Il
disegno è chiaro: creare in quella zona condizioni di vita adatte nemmeno agli
animali più disgraziati. Poiché i trasferimenti devono ultimarsi entro il 31
ottobre, in quelle due settimane la città si trasforma in un formicaio.
Miseri carretti di legno si incolonnano sulle strade che portano al ghetto,
trascinando tutto ciò di cui ciascuna famiglia necessita per vivere. Mobili,
vestiti, stoviglie e altri utensili si affastellano su quei poveri mezzi di
trasporto, su cui siedono anche persone dal volto sgomento, ammutolite da quel
nuovo esodo forzato e dal presentimento - più che mai fondato - di un futuro
ben peggiore. I soldati tedeschi, infatti, si accaniscono nel rovesciare i
carretti per il semplice gusto di vedere quella gente affannarsi alla ricerca
delle proprie cose. Gli oggetti di valore, però, restano in mano alle SS,
confiscati senza alcun motivo e senza alcuna formalità. Conclusa l'operazione
di raccolta di tutti gli ebrei in una zona limitata, si dà il via alla fase
successiva. Con un'operazione lampo - perfettamente in linea con l'idea del
blitzkrieg che, secondo Hitler, avrebbe dovuto consegnare l'Europa nelle mani
del Terzo Reich - le manovalanze delle SS, nella notte tra il 15 e il 16
novembre, circondano il ghetto con un reticolato di filo spinato che si snoda
per 17 chilometri, cui in brevissimo tempo sostituiscono un muro di cinta alto
più di 3 metri (analogo episodio avverrà parecchi anni dopo a Berlino, quando
nella notte tra il 12 e 13 agosto del 1961 le truppe della DDR alzeranno quel
famoso Muro che dividerà in due la città fino al 1989). La mattina del 16
novembre gli ebrei di Varsavia si svegliano e, come di consueto, si dirigono nei
quartieri "ariani" per il lavoro di ogni giorno nei negozi, negli
uffici, nelle fabbriche.
Giunti al confine del ghetto, sono bloccati dal filo spinato e da presidi di
polizia. Comincia quindi una corsa, vana, ad ogni punto di uscita, dove si
ripresenta il medesimo spettacolo. La notizia fa il giro del quartiere, e in men
che non si dica tutti gli abitanti del ghetto si riversano in strada per vedere
con i propri occhi quell'imprigionamento di massa. Da quel momento il ghetto è
isolato e ogni forma di fuga è impossibile, a meno di pagarla con la propria
vita. La situazione, al suo interno, diviene ogni giorno peggiore. Nuovi gruppi
di rifugiati arrivano dalla Germania, dall'Austria, da altre città polacche
quali Danzica, Cracovia, Lublino, Stettino. Il ghetto di Varsavia diventa in
pochi giorni un vero e proprio campo di concentramento, pari quelli che
passeranno alla Storia con i nomi di Birkenau, Dachau, Treblinka, Auschwitz.
L'unica differenza con questi ultimi sta nel poter gli ebrei dormire nelle
proprie case. Tutto il resto, invece, è tale e quale a ciò che sarà per i
deportati: fame, freddo, condizioni disperate, agli antipodi di ciò che si
intende con le parole "dignità umana". Il ghetto, tuttavia, è un
terreno conosciuto, che consente a chi ci vive l'organizzazione di svariate
forme di resistenza.
Prima tra tutte è una frenetica attività di contrabbando di generi alimentari, reato punito con sei mesi di reclusione. A seguito di ripetute violazioni, il governo nazista inasprisce con un ennesimo decreto la pena, che muta in pena capitale. E' un colpo durissimo per la sopravvivenza degli ebrei, che tuttavia non possono rinunciarvi e decidono di addestrare alla fuga dal ghetto chi può attuarla più discretamente possibile: i bambini. Questi imparano a sgattaiolare silenziosamente attraverso cunicoli scavati con segreta pazienza sotto il muro di cinta, o approfittando di un momento di disattenzione dei guardiani, scrutati dall'ombra degli androni durante la lunga attesa del momento propizio per la fuga. Una volta nella "zona ariana", i bimbi ottengono con fatica - grazie anche alla sempre maggior ritrosia dei cristiani a trattare con chi sia ebreo, o per genuino antisemitismo o per la vigliacca paura di ritorsioni tedesche - qualche tozzo di pane o qualche patata. Raccolto il magro ma fondamentale bottino, ritornano furtivamente nella loro "prigione" per dividerlo con i genitori, che spesso lo consumano tra le lacrime, consci del rischio mortale cui sono costretti a sottoporre i loro figli. In uno struggente libro di testimonianze, raccolte dallo storico Philip Friedman, è riportato un episodio emblematico del tragico coraggio di quei piccolo ebrei. "Un giorno - si legge -, dopo una di queste spedizioni, un bambino che si era già infilato fino a metà del corpo, con le sue provviste, in una breccia praticata nel muro, cominciò ad urlare. Nello stesso istante, si udì un tedesco che inveiva dall'altra parte. Un passante accorse per aiutare il piccolo a penetrare nel recinto. Sfortunatamente, però, il bambino era rimasto incastrato nell'apertura.
L'uomo tentò di tirarlo a sé con tutte le forze, mentre il bambino continuava a strillare. Quando finalmente l'uomo riuscì strapparlo dalla sua parte, il piccolo era morente, con la colonna vertebrale spezzata". Se i bambini costituiscono una sorta di "prima linea" nella lotta per la sopravvivenza, gli adulti agiscono invece nelle retrovie. La loro resistenza è innanzitutto psicologica, si attua con una metodica e consapevole rinuncia al suicidio. Può sembrare un parossismo, ma se si confrontano i dati che seguono ci si accorge che non lo è.
Nel 1938, a Vienna, è indetto un referendum sull'Anschluss (l'annessione dell'Austria alla Germania). Poco meno di duemila persone votano per il no a quell'annessione, a fronte di centinaia di migliaia di altre che invece l'approvano. Tuttavia, quell'anno nella città austriaca si suicidano 1358 persone, rispetto ai 400 circa della media di ogni anno, che significa un aumento in percentuale superiore al 250%. Nel ghetto di Varsavia le cose sono ben diverse: il numero di suicidi attuati nel biennio 1940-1942 diminuisce, rispetto al '39, del 65%. Sono freddi numeri, che però spiegano lucidamente qual è la forza di reazione del popolo ebraico di fronte a un male così grande e ingiusto da svegliare in loro la speranza che quello stato di cose non potrà durare in eterno. Anzi, proprio in ragione di un'ingiustizia così insostenibile, di un disegno così crudele si diffonde il pensiero che la macchina di morte nazista debba incepparsi e crollare su se stessa da lì a poco. Sbalorditi nel constatare una tenacia di tale portata, i tedeschi ricoprono gli ebrei di Varsavia di ulteriore disprezzo: a loro giudizio gli ebrei di Germania, più inclini a togliersi la vita, hanno maggiore dignità. Così, pur tra stenti e privazioni, la vita nel ghetto continua. In particolare, ferve l'attività culturale. E' istituito un corso di lingua e letteratura ebraica, cui assistono oltre ai giovani anche gli adulti, per dimenticare per qualche momento le difficoltà quotidiane.
Si fonda un'orchestra sinfonica, e viene sviluppata un'attività musicale che favorisce l'emersione di nuovi talenti: tra tutti, la cantante Maysia Ajzensztat, nota come "l'usignolo del ghetto". Le musiche più eseguite sono quelle del "patriota" Frydryk Chopin, che nei suoi meravigliosi brani per pianoforte ha trasfuso tutto l'amore e la nostalgia per la sua Polonia lontana. Per converso, è ovviamente bandito tutto ciò che sia stato creato dall'antisemita Richard Wagner (una censura che l'orchestra sinfonica di Tel Aviv mantiene tutt'oggi ). Si organizzano mostre di pittura e di scultura, nascono compagnie teatrali. Naturalmente, tutto ciò avviene in piena clandestinità, ogni attività essendo vietata dal governo nazista all'interno del ghetto. Per esempio, il teatro in cui lavora la compagnia più nota - in via Walowa, a due passi dall'importante via Franciszkanska - non è che un palcoscenico allestito in una mansarda e nascosto da una semplice tenda. Le luci di scena sono lampade a petrolio. Per raggiungere quel rudimentale, affascinante teatro è necessario farsi strada in vie ingombre di macerie, che crescono di giorno in giorno. Vi sono delle guide che indicano il percorso da seguire per arrivarvi, ma soprattutto avvertono della presenza di tedeschi infiltrati tra gli spettatori, la qual cosa accende un silenzioso passaparola tra gli ebrei, che abilmente depistano l'ospite indesiderato verso luoghi totalmente deserti.
Infine, c'è un proliferare di nuove pubblicazioni: giornali, riviste, libri. Tra questi si prediligono i romanzi ambientati durante la Grande Guerra, che raccontano della sconfitta della Germania. E si legge molto anche di Napoleone, la cui storia insegna che anche la stella di un dittatore, di un uomo apparentemente invincibile, finisce con l'estinguersi inesorabilmente. Sebbene sia ben organizzata, la resistenza culturale può sempre di meno di fronte all'inedia e all'epidemie - soprattutto di tifo - che falcidiano la popolazione del ghetto. Inoltre, i nazisti intensificano le loro pratiche di barbarica onnipotenza. Un'altra testimonianza, raccolta da Philip Friedman, ne rende chiara l'idea: "In mezzo alla strada c'erano due ragazzi con la divisa della gioventù hitleriana (…). Uno di loro cercava qualcosa: tentava di scoprire un bersaglio con la disinvolta attenzione di un ragazzo che voglia divertirsi al tiro a segno di una fiera. Seguii il suo sguardo (…). Nel campo visivo dei due ragazzi dal viso allegro non c'era un solo essere umano. Il ragazzo con la pistola fissò un punto che sfuggiva alla mia vista. Levò l'arma e mirò attentamente. Il colpo esplose, seguito da un tintinnio di vetri infranti e dal gemito di un uomo colpito a morte. L'assassino lanciò un grido di trionfo. L'altro lo prese per un braccio e si congratulò". Esasperati da questo continuo esercizio di ius vitae ac necis da parte di soldati semplici tedeschi, gli ebrei cambiano strategia e abbracciano la lotta armata.
Dal dicembre del 1942, tramite collegamenti con collaboratori "ariani" all'esterno del ghetto e grazie alla complicità dei poliziotti polacchi, riescono a introdurvi armi: dapprima solo dieci pistole, poi "bottiglie Molotov", bombe a mano, ancora pistole. Addirittura un mitra, unico in tutto il ghetto. Questa escalation procede costantemente tra il 18 gennaio e il 19 aprile 1943, periodo in cui gli ebrei danno inizio alla costruzione di trincee. Di giorno scavano tra le rovine alla ricerca di assi di legno e di mattoni; di notte scavano e allestiscono le barricate, curando di assicurare a ogni trincea più di un'uscita, in modo da sfuggire agevolmente a eventuali incursioni tedesche. Il centro dei movimenti della gente del ghetto, quindi, si sposta. Prima erano le mansarde, collegate attraverso brecce nei muri divisori per permettere spostamenti segreti e preservare gli uomini da pallottole vaganti esplose - magari solo per giocare al tiro a segno - dalle pistole naziste. In breve, quasi nessun ebreo usa più muoversi in strada. I tedeschi, credendo che le case siano affollati nascondigli di "carne da macello", prendono a bombardare e a incendiare ogni palazzo, convinti di accendere inevitabili roghi. I quali, però, non coinvolgono né le trincee sotterranee né le strategiche mansarde, luoghi questi ultimi fondamentali per poter attuare agguati contro soldati di pattuglia nelle strade. Avvertendo che la distruzione dei palazzi non conduce a soddisfacenti risultati, i nazisti decidono di "liquidare" il ghetto.
Nella notte tra il 18 e 19 aprile comincia l'irruzione; prontamente avvertiti dalle vedette, i gruppi combattenti di ebrei prendono le posizioni concordate. Spedite le donne e i bambini nelle trincee, nel ghetto cala un silenzio agghiacciante. Per circa cinque ore, dalle 2 alle 7 del mattino, nulla si muove nelle strade. Quindi, con un'azione silenziosa, gruppetti di tre o quattro tedeschi entrano nel quartiere. Vi trovano il deserto, e ciò dà loro un eccesso di sicurezza che li induce a farvi entrare gli autoblindo e i carri armati. Una volta all'interno, si scatena contro di loro il fuoco incrociato delle "milizie" ebraiche: dalle mansarde diluvia l'intero arsenale pazientemente approntano nei mesi precedenti. Ogni tanto - per ragioni di economia - si avvertono le raffiche di quell'unico mitra che è riuscito ad entrare nel ghetto. I tedeschi non sono pronti a una reazione così violenta, e quei pochi che sfuggono alla morte sono costretti a ripiegare, cercando aiuto nella copertura dei carri armati; ma una volta passato lo sgomento, feriti nel fisico ma soprattutto nell'orgoglio, liberano tutta la potenza di fuoco di cui sono capaci. E' una lotta tra il gigante Golia e il piccolo David, dall'esito tuttavia diverso. Per quasi un mese i tedeschi mettono a ferro e fuoco il ghetto, con incessanti bombardamenti che ne incendiano pressoché tutte le case. I cadaveri che ora si ammassano nelle strade non sono più quelli dei nazisti colti di sorpresa, ma quelli degli ebrei, inceneriti. Il ghetto è un cimitero senza tombe; ovunque sono corpi senza vita di combattenti: sui balconi, sui davanzali, sui gradini. Il tedeschi si accorgono dei rifugi e per stanare chi vi è dentro li ingorgano di fumogeni. Una volta fuori, gli ebrei cadono nelle mani del nemico, che li carica sui camion diretti ai campi di sterminio o li giustizia sul posto, risparmiando loro l'ennesima tortura. Capita anche che, stremato dalla stanchezza, qualcuno si addormenti per strada e venga ucciso nel sonno dalle pallottole naziste.
Esaurite quasi subito le munizioni - praticamente inesistenti, se confrontate con l'arsenale a disposizione dei nazisti - gli ebrei superstiti non hanno altra alternativa che studiare un metodo per la fuga attraverso gli unici canali in grado di condurli nella Varsavia "ariana", le fogne. I primi gruppi vi si inoltrano verso la fine di aprile, ma vengono accolti da centinaia di altre persone che le hanno scelte non come vie di fuga, bensì come semplici rifugi. Negli stretti passaggi si può avanzare solo strisciando, ma il numero di coloro che - vivi o morti - li ostruisce è tale da alzare il livello dell'acqua quasi fino a colmare la galleria. E' come navigare in apnea in una latrina. Ognuno comincia allora a sperare nella morte dell'altro, perché l'acqua porti via il cadavere e crei un po' di spazio per non morire soffocati. I tedeschi, ormai decisi a radere al suolo quella che era una delle più belle e antiche zone di Varsavia, si accaniscono anche contro la rete fognaria: aprono i tombini e vi gettano bombe fumogene o esplosive. "Pregavamo il Cielo di porre fine alle nostre sofferenze - ha raccontato uno dei pochi sopravvissuti - perché stavamo perdendo ogni nostra forza morale.
(…) Udimmo dei rumori: la galleria fu presto invasa da un chiarore al quale i nostri occhi non erano più abituati. Dapprima, pensammo che i tedeschi avessero scoperto il nostro nascondiglio, e tornammo in fretta nel sotterraneo. Ma erano i nostri compagni, venuti a soccorrerci (…). Ci fecero salire su un camion, che partì qualche minuto dopo con un carico di quaranta persone (…). Quando ci guardammo alla luce del sole, sudici, stracciati, coperti di fango, sfiniti dalla stanchezza, tremanti in tutte le membra, fummo colti dall'orrore. Solo gli occhi febbrili nei volti lividi conservavano ancora qualcosa di umano (…) Fummo condotti nei boschi vicini. Fu così che il 12 maggio 1943, un gruppo di combattenti ebrei in armi riuscì a sfuggire da Varsavia occupata dalle truppe naziste". Quattro giorni più tardi, il generale tedesco Stroop scrive nel suo rapporto a Hitler: "Il vecchio quartiere ebraico non esiste più. Numero di ebrei liquidati: 56.065. Le truppe tedesche hanno compiuto il loro dovere senza defezioni da parte di nessuno, con perfetta coesione cameratesca". Il numero di morti è però da considerarsi ben superiore, includendo tutti coloro che sono stati deportati a Treblinka (il campo più vicino a Varsavia) e ad Auschwitz. Solo poche decine di uomini, fuggiti dal ghetto, hanno potuto affermare di essere sopravvissuti all'inferno.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Martyrs and fighters: the epic
of the Warsaw ghetto,
di Philip Friedman - Praeger publishers, New York, 1954.
Shoha, di Isaac B. Singer - Ed. Tea Due, Milano, 1992.
Mila 18, di Leon Uris - Ed. A. Mondadori, Milano, 1968
Danubio, di Claudio Magris - Ed. Garzanti, Milano, 1997