Il sistema coloniale come
fattore d’indipendenza economica.
“ L’indipendenza economica di un paese non potrà mai essere assoluta, e se lo fosse, non sarebbe utile.
Essa però costituisce una meta e una direttiva per lo svolgimento del
Con queste parole, Alberto Asquini, deputato al Parlamento, sosteneva che: “..una nazione deve realizzare
al 100%
di lavoro della popolazione”.
La
prima condizione della ricchezza di una nazione è,
Bisogna però che questa
o parte di esso, non vada disperso
- un’adeguata area geografica;
- un’adeguata possibilità di rifornimento di materie
prime;
La situazione di entrambe può essere reale e virtuale.
La reale è l’area della nazione stessa e delle sue
colonie;
il resto del mondo sia disposto ad accettare lavoro dalla
nazione
in condizioni di equo
Questo
problema era già sentito, prima della guerra del
da quelli
Non
lo potevano avvertire paesi che, come l’Inghilterra, la Francia, l’Olanda,
possedevano tali domini coloniali
da avere un’area di lavoro e un’area di
approvvigionamento
rispettive popolazioni.
Proprio
questa, anzi, è la ragione per cui quei tre
coloniale, bensì una esportazione di capitali. La ragione,
da
Il
problema era invece sentito da paesi che, come la
e un esiguo mondo coloniale.
La
realtà dell’Italia si rifaceva ad una nazione di 40
separati dagli Appennini che riducevano ancor di più la
disponibilità di territorio lavorativo.
Nel
giro di qualche lustro, la popolazione sarebbe salita a 60 milioni di individui
con appena un milione e mezzo
di Kmq di colonia, in gran parte sabbiosi, verso i quali non
Quale
poteva essere il confronto diretto con le altre
L’Inghilterra,
che, con 47 milioni di abitanti, possedeva un impero coloniale di 55 milioni di
Kmq; la Francia,
che, con una popolazione di 38 milioni di individui, contava
su un impero di 15 milioni di Kmq, per non parlare del
Portogallo, dell’Olanda, del Belgio, tutte titolari di
possedimenti coloniali di gran lunga superiori a quello italiano.
Con
i trattati di pace, la situazione internazionale
altri stati capitalistici. Infatti, mentre l’Inghilterra
acquistò con il Trattato di Versailles 2,6 milioni di Kmq
di nuove colonie, con una popolazione di 10,2 milioni di
e mezzo di abitanti, l’Italia non ebbe che 300 mila Kmq di
Aumentarono,
quindi, le distanze tra l’Italia e gli
in senso relativo, si restrinse per noi l’area di lavoro
della nostra popolazione.
Ma
la situazione venne oltremodo aggravata dalla politica economica adottata dai
paesi che davano effettivamente
le direttive alla politica economica mondiale.
E
precisamente:
- restrizioni all’immigrazione da parte dei paesi che
tradizionalmente avevano lasciato la “porta aperta” al lavoro
straniero;
- l’abbandono del principio della parità per quello della
preferenza doganale, da parte dei paesi monopolizzatori
delle colonie,
e quindi di gran parte delle materie prime;
la Società delle Nazioni, pretendeva di immobilizzare i vari
un diaframma rigido contro l’espansione e quindi contro i
diritti della vita dei popoli.
Fintanto
che vigeva il principio della “porta aperta” -
rispetto al lavoro, noi potevamo contare su una certa “area virtuale” di lavoro: vale a dire che, quella parte di
popolazione che non poteva trovare occupazione in Patria o nelle esigue e povere colonie da noi possedute,
andava a lavorare in altri paesi.
Era
una situazione non lieta, perché molta parte dei risultati del lavoro italiano
andava disperso in favore di
altri sistemi economico-politici; era comunque una situazione di cose che bisognava accettare in mancanza di
meglio.
La
mobilità di lavoro era per noi un mezzo di equilibrio tra il nostro potenziale
demografico e le possibilità
offerte dalla terra di cui disponevamo.
Invece,
opposte delle barriere insormontabili all’immigrazione, dopo la crisi del
1920, venne a restringersi per
il lavoro italiano questa area virtuale di produzione, il
non si poteva rinunciare ad una politica di incremento demografico, poiché “solo negli uomini è la potenza e la
ricchezza delle nazioni”.
Gli
stessi ostacoli venivano elevati contro il lavoro
della politica economica internazionale:
- il principio della parità
- la clausola della nazione più favorita, incondizionata e
Questi
due punti interagivano tra loro, e la prima
negazione del secondo.
Tale
negazione fu definita con l’adozione della politica di preferenza, che
trionfò con la conferenza di Ottawa.
Già
fin da prima della guerra del ‘14 si erano manifestate, in Gran Bretagna,
tendenze favorevoli all’adozione di
un regime preferenziale per tutti i paesi dell’impero cui
facevano capo; ma solo nel 1926 si giunse ad un accordo sul
terreno politico, il quale doveva “aprire la porta” a
quello
A
tal fine venne riunita ad Ottawa, dal 21 luglio al 29
finizione sottoscritta di dodici accordi fra la Gran Bretagna
da una parte, i Dominions e le Colonie dall’altra.
In
tal modo, l’impero inglese venne a costituire una sola unità, presentandosi
con un fronte unico rispetto al
resto del mondo; e fu inutile avvertire che il regime
preferenziale fra le varie parti dell’impero si sarebbe risolto
in un regime differenziale per i paesi da esso esclusi.
E’
sufficiente pensare al potere di assorbimento di un
del globo, per comprendere quale ostacolo, tali accordi,
abbiano frapposto all’esportazione degli altri paesi, il nostro
compreso.
L’Italia
vide,pertanto, ridursi la possibilità di
analogamente, il fatto di non poter vendere in
condizioni di parità, si tradusse nel fatto di non poter neppure
comprare in condizioni di parità, in un mercato detentore di
Da
un lato, quindi, si restrinse, per noi, l’area virtuale di lavoro, dall’altro
si ridusse l’area virtuale di
approvvigionamento.
Come
era possibile la vita ad una nazione ad alto potenziale demografico come l’Italia?
Bisognava evidentemente
aumentare l’area reale di lavoro e di approvvigionamento.
Bastava
porre le cose in questi termini, volutamente
nostra impresa etiopica, fosse una guerra per la vita della
L’Italia
fece dei miracoli per aumentare in Patria le
la bonifica integrale e la battaglia del grano, sono tra gli
Ma si rese necessario allargare l’area di approvvigionamento delle materie prime e l’area di sbocco dei
manufatti, dato un mondo sempre più chiuso nei reticolati del protezionismo e delle preferenze: si doveva assicurare
fino al
“Poiché
il regime della porta aperta è tramontato, così
ne furono i fautori, non resta altra possibilità per la vita
delle Nazioni che costituirsi in grandi unità metropolitano-
coloniali, miranti alla più completa autosufficienza”.(**)
Era fatale che al vecchio sistema coloniale del seicento, sfruttatore e monopolistico, si sostituisse un nuovo
sistema basato sulla collaborazione fra la metropoli e
di lavoro e sullo scambio dei prodotti di due economie
complementari tra loro.
__________
(*)
ASQUINI A., La politica economica dell’Italia in Etiopia
in “Annali dell’Africa Italiana”, Vol.III°, Verona, ed.
A.Mondadori, 1938-XVI.
(**) TERUZZI A., Realtà costruttiva dell’Impero in “Annali
dell’Africa Italiana”, Vol.III°,Verona, A.Mondadori,
1939-XVII.
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