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ARGOMENTI DI MEDICINA CLINICA
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Ultimo aggiornamento: 23.12.2013
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La
fig.01
Tuttavia,
come si osserva nella fig.01
Un'altra
considerazione riguarda il fatto che i tumori rappresentano un vasto gruppo di
malattie diversificate. Già nel II secolo d.C. Galeno descriveva 61 forme di
tumore (in senso lato). L'attuale classificazione internazionale delle malattie
(ICD-IX) configura ben 92 categorie e 570 sottocategorie di tumori. Alcune forme
hanno un andamento stazionario, altre sono in aumento e altre ancora sono in
diminuzione. Per queste ultime, di particolare rilievo è stata la riduzione
della mortalità per carcinoma della cervice uterina, legata soprattutto alla
prevenzione secondaria (diagnosi precoce), e quella per carcinoma gastrico in
entrambi i sessi, che rappresenta un esempio di prevenzione primaria
involontaria, riconducibile con ogni probabilità a cambiamenti della dieta
avvenuti negli ultimi decenni ed alle differenti modalità di conservazione
degli alimenti. Fra i tumori in maggior aumento spicca il cancro polmonare, con
una curva in ascesa che ha incrociato quella in discesa del carcinoma gastrico
intorno al 1950 negli USA e 15 anni più tardi in Italia. L'escalation del
cancro polmonare non può essere motivo di disappunto, perché le cause di
questo tipo di tumore sono largamente note (all'85% il fumo di tabacco) e quindi
in teoria sarebbe realizzabile una valida prevenzione primaria. La controprova
viene dal contenimento della mortalità specifica in quei gruppi di popolazione
sensibilizzati dalle campagne antifumo, come i medici inglesi e, su vasta scala,
la popolazione maschile di razza bianca degli USA. In queste valutazioni va
tenuto conto che l'effetto benefico si può manifestare solo a distanza di molti
anni, essendo la latenza del cancro polmonare causato dal fumo di sigaretta
dell'ordine dei 25-30 anni.
Le
strategie di lotta contro i tumori vanno pertanto diversificate in rapporto allo
stato delle conoscenze ed alle attuali capacità tecniche di controllo. La fig.02
Sono
sufficienti soltanto 3,25 ulteriori divisioni perché le cellule raggiungano il
numero di 10 miliardi, con una massa neoplastica di circa 10 g. In questo
stadio, più facilmente diagnosticabile, l'intervento di elezione è affidato
alla terapia medica, chirurgica o radiante che sia. Questa è di norma seguita
da interventi di prevenzione terziaria volti ad evitare la ricrescita, in situ o
a distanza, di eventuali cloni superstiti. Se l'intervento della medicina
curativa viene a mancare, la crescita essendo oramai nella parte più avanzata
della curva esponenziale, diventa tumultuosa. In soli altri 6,75 raddoppiamenti
si arriva a oltre 1000 miliardi di cellule, pari a circa 1 kg di peso. Tale
situazione è in genere incompatibile con la vita. Queste caratteristiche di
crescita giustificano le difficoltà di controllo terapeutico del cancro
allorquando la malattia diventa clinicamente manifesta e rendono conto
dell'importanza della prevenzione secondaria. Tuttavia l'obiettivo più
ambizioso è rappresentato dalla prevenzione primaria. Già dall'osservazione
della fig.02
Buona
parte della presente trattazione è dedicata alla patologia neoplastica. Come si
discuterà a proposito di iniziazione del cancro e degli eventi genetici
multipli coinvolti nel processo della cancerogenesi, le mutazioni svolgono un
ruolo cruciale nella patogenesi dei tumori, anche se la complessità dei
fenomeni che saranno descritti nelle prossime pagine sottintende il contributo
di altri meccanismi essenziali. Va tuttavia sottolineato che, seppure in via di
ipotesi in attesa di consolidamento, mutazioni a carico delle cellule somatiche
dell'organismo potrebbero essere associate anche ad altre malattie
cronico-degenerative. Le ricerche svolte nel nostro laboratorio dimostrano ad
esempio che la reazione di agenti genotossici con il DNA in animali esposti al
fumo di sigaretta avviene non solo in tipici organi bersaglio dell'effetto
cancerogeno, come i polmoni, ma anche in altri organi (come il cuore) per i
quali si può prospettare un'associazione con altre forme degenerative (come le
cardiomiopatie).
Di
particolare interesse è la possibile relazione tra mutazioni a carico di
cellule muscolari lisce delle arterie e genesi delle placche aterosclerotiche, o
almeno di una parte di esse, che è confortata da diverse linee di evidenza. Fra
queste, la dimostrazione dell'origine monoclonale di una quota rilevante delle
placche nell'uomo e la documentata capacità del loro DNA di trasformare cellule
di mammifero, che a loro volta provocano l'insorgenza di tumori in animali
suscettibili (topi nudi), così come farebbe il DNA di cellule tumorali. E'
d'altronde una nozione comune, desunta sia dagli studi epidemiologici sia dalla
sperimentazione negli animali, che alcuni fattori di rischio (fumo di sigaretta,
componenti della dieta, radiazioni ionizzanti ecc.) possano essere
contemporaneamente associati con effetti cancerogeni e aterogeni nello stesso
organismo. Un'altra importante associazione delle mutazioni in cellule somatiche
è quella con i fenomeni di invecchiamento cellulare e con situazioni
patologiche dell'età avanzata. Sono stati chiamati in causa soprattutto i
meccanismi di tipo ossidativo ed il loro equilibrio con i sistemi di difesa
dell'organismo.
Altre
conseguenze patologiche derivano, come è ovvio, dalle mutazioni a carico delle
cellule germinali, che potranno portare alla morte il prodotto di concepimento
(caratteri dominanti letali) o causare difetti genetici espressi fenotipicamente
nella prima generazione (caratteri dominanti non letali) o nelle generazioni
successive (caratteri recessivi).
Sulla
base di questi presupposti, è evidente che alcune delle considerazioni
riguardanti fattori di rischio, meccanismi patogenetici e approcci di
prevenzione primaria dei tumori possono essere estese ad altri tipi di patologie
associate con mutazioni.
Diverse
motivazioni, in parte già discusse, giustificano il divergente andamento
epidemiologico delle malattie infettive e delle forme cronico-degenerative,
soprattutto quali cause di morte. Alla radice vi sono le profonde differenze
nell'eziopatogenesi di questi stati morbosi, che si traducono in diverse
possibilità di controllo.
Infatti
nella patologia infettiva vi è un rapporto causale biunivoco con un agente
eziologico, nel quale il microrganismo rappresenta una causa necessaria, anche
se il più delle volte non sufficiente nel determinismo della malattia. Proprio
grazie alle grandi scoperte dell'era microbiologica, iniziata poco più di 100
anni or sono, il dualismo uomo-ambiente (diade di Ippocrate) si è trasformato
in una triade (uomo-ambiente-agente eziologico). Agendo su tutte e tre le
componenti di questa triade è stato possibile giungere al controllo preventivo
e terapeutico delle malattie infettive, pur entro limiti ben noti e con
importanti problematiche, sia tradizionali sia emergenti.
Anche
se perfino nel settore della patologia infettiva il principio della causalità
tende ad essere sostituito da quello della probabilità, quest'ultimo è
emblematico della patologia cronico-degenerativa, per cui vige il modello della
multifattorialità. Al singolo agente eziologico si sostituisce una rete di
fattori di rischio, spesso interagenti fra di loro, ognuno dei quali non
rappresenta una causa né necessaria né tantomeno sufficiente per l'insorgenza
di una malattia. In altre parole, ogni fattore di rischio può essere collegato
con varie malattie, e ogni malattia è associata con diversi fattori di rischio.
La conseguenza ovvia è che l'eliminazione di un singolo fattore di rischio
può, a seconda della sua importanza, avere come risultato la diminuzione più o
meno marcata di diversi stati morbosi, ma non è possibile prospettarne
un'eliminazione completa (eradicazione) così come è successo per diverse forme
infettive in certe zone geografiche o addirittura su scala mondiale (vaiolo).
Il
concetto di rischio e la mancanza di un automatismo causa-effetto derivano dal
fatto che l'organismo ospite possiede dei formidabili mezzi di difesa, che
limitano i danni che potrebbero potenzialmente conseguire alle frequenti e
ripetute esposizioni a fattori di rischio. Il fenomeno epidemiologico
dell'iceberg, che è stato configurato per esprimere l'elevato rapporto tra
portatori sani e malati per molte patologie infettive, è esaltato nel caso
della patologia cronicodegenerativa. Come illustrato simbolicamente nella fig.03
La
parte sommersa raffigura gli stadi preclinici e le interazioni fra fattori di
rischio e meccanismi di difesa dell'organismo, che si susseguono nella sequenza
di tappe patogenetiche della malattia. Vi sono due importanti caratteristiche di
tali processi difensivi che saranno sviluppate più avanti. La prima è che vi
sono differenze qualitative e quantitative non solo fra specie animali diverse
ma anche nell'ambito della stessa specie, ad esempio nell'ambito della
popolazione umana, che spiegano la variabilità della risposta individuale anche
a parità di livelli espositivi. La seconda caratteristica è che in principio
tutte le interazioni possono essere modulate con intervento esogeno, ciò che
dischiude la prospettiva ad interventi di chemioprevenzione mirati a proteggere
l'organismo ospite.
Pur
con notevoli difficoltà e approssimazioni, sono stati fatti alcuni tentativi di
quantificare globalmente il rischio cancerogeno per l'uomo. La fig.04
per quanto riguarda i casi di malattia o di morte per cancro. I valori
attribuiti ai vari fattori di rischio sono abbastanza simili, pur con differenze
che riflettono valutazioni personali e, per quanto riguarda i casi e i morti, il
diverso grado di letalità delle forme di cancro attribuibili ai fattori di
rischio. Nel complesso, emerge in maniera netta l'impatto preponderante dei
fattori legati allo stile di vita e alle abitudini voluttuarie, quali la dieta,
il fumo di tabacco e la sua associazione con l'alcool. Molto importanti appaiono
anche i fattori fisici ambientali, e soprattutto le radiazioni ultraviolette
contenute nella luce solare. Più modesta è invece la quota attribuita ai
fattori occupazionali ed ai farmaci.
La
tab.01a
Fattori
ormonali sono implicati, specie nella fase di promozione, in una proporzione
notevole dei tumori umani, in particolare in quei tessuti il cui grado di
proliferazione è sotto il controllo ormonale. Ad esempio il cancro endometriale
è messo in relazione ad una esposizione cumulativa ad estrogeni in assenza di
progestinici, mentre il cancro della mammella, pur essendo anch'esso associato
con l'esposizione ad estrogeni, risente dell'azione potenziante del
progesterone. La risposta proliferativa delle cellule mammarie agli estrogeni è
infatti ulteriormente aumentata in presenza di progesterone. Questo spiega
l'importanza attribuita al menarca precoce ed alla menopausa tardiva quali
fattori di rischio per il cancro della mammella (il rischio diminuisce del
10-20% per ogni anno di ritardo del menarca). Il cancro ovarico è messo in
relazione alle complesse variazioni ormonali che si verificano durante
l'ovulazione. Vi è qualche indicazione che il cancro della prostata sia
associato con l'esposizione cumulativa al testosterone od al suo metabolita
diidrotestosterone, forse in combinazione con estrogeni. Vi è anche qualche
sospetto che l'esposizione prenatale ad estrogeni esogeni od endogeni
rappresenti un fattore di rischio per i tumori a cellule germinali del testicolo
e dell'ovaio.
E'
interessante rilevare che un modesto esercizio fisico, oltre ad essere associato
con un diminuito rischio di cancro del colon, soprattutto in quanto favorisce la
motilità intestinale, può ritardare il menarca e l'inizio di cicli ovulatori
regolari, con un importante effetto protettivo sui tumori della mammella e forse
dell'endometrio. Pertanto la prevenzione dell'obesità ed una moderata attività
fisica nell'infanzia andrebbero incoraggiate. Per quanto riguarda i
contraccettivi orali, gli effetti dipendono dalla composizione e dal dosaggio.
In linea di massima si può affermare che, peraltro non frequentemente, essi
potrebbero aumentare nelle giovani donne il rischio di tumori epatici, mentre
possono ridurre il rischio di tumori endometriali ed ovarici.
Anche
i fattori traumatici possono avere una certa rilevanza nella promozione dei
tumori, soprattutto a causa della proliferazione cellulare che fa seguito al
danno ripetuto ed alla irritazione cellulare. Si possono ricordare le
associazioni fra traumi cranici e meningiomi, fra esistenza di calcoli biliari e
cancro della colecisti, o fra presenza di fibre di asbesto nel mesotelio e
mesotelioma.
Come
si discuterà più avanti, tutte le situazioni flogistiche croniche possono
innescare meccanismi alla promozione dei tumori. Un ruolo specifico è stato
attribuito, in alcune zone geografiche endemiche, ad infestazioni da Trematodi,
come lo Schistosoma haematobium per il carcinoma vescicale, o l'Opistorchis
viverrini ed il Clonorchis sinensis per i tumori delle vie biliari. Recentemente
è stata sospettata anche la responsabilità di infezioni batteriche specifiche,
ad esempio quella da Helicobacter pilori per il carcinoma gastrico,
presumibilmente a causa della risposta proliferativa che segue al processo
gastritico cronico.
Le
infezioni più importanti in cancerogenesi sono, come è noto, quelle legate ai
virus oncogeni, per le quali si faranno solo alcune considerazioni sintetiche e
limitate alla patologia umana. A parte alcuni virus per i quali il ruolo in
cancerogenesi umana è ancora scarsamente documentato, come i virus del polioma
(BK, JC e LPV), poxvirus (mollusco contagioso) e adenovirus (in particolare i
tipi 12 e 18), indicazioni epidemiologiche più convincenti sono disponibili per
altri virus, sia a DNA sia a RNA. Tuttavia vi è l'opinione che nessuna di
queste infezioni virali sia di per sé sufficiente ad indurre il cancro, ma che
siano necessari meccanismi aggiuntivi, fra cui possibili interazioni con agenti
fisici e chimici.
Fra
i virus oncogeni a RNA (retroviridae), l'HTLV-1 è stato riconosciuto
responsabile della leucemia-linfoma a cellule T dell'adulto (ATLL), prevalente
in alcune aree geografiche di Giappone, Caraibi ed Africa centrale. Il
riconoscimento dell'associazione fra HTLV-1 e ATLL ha portato un notevole
contributo all'oncologia da retrovirus - noti da tempo come agenti responsabili
di leucemie e sarcomi praticamente in tutte le specie animali ad eccezione
dell'uomo - ed ha spianato la strada alla scoperta di altri retrovirus patogeni
per l'uomo, come l'HTLV-II e l'HIV. Quest'ultimo è associato con il sarcoma di
Kaposi ed altri tumori, presumibilmente a causa dell'immunodepressione. Un altro
virus a RNA probabilmente implicato in cancerogenesi umana e il virus
dell'epatite C (HCV), forse inquadrabile fra i flavivirus, che causa
cronicizzazione dell'epatite con frequenza ancora più elevata rispetto al virus
dell'epatite B (HBV) e che potrebbe essere associato con l'insorgenza del
carcinoma epatocellulare primitivo.
Un
ruolo nella patogenesi di tumori maligni umani viene attribuito a tre famiglie
di virus a DNA, e cioè hepadnaviridae, herpesviridae e papovaviridae. Fra
questi ultimi, particolare interesse hanno i virus del papilloma umano (HPV), di
cui sono stati isolati più di 60 genotipi patogeni per l'uomo. Alcuni sierotipi
(soprattutto il 16 e il 18) sono associati con cancro cervicale, vulvare,
penieno, perianale e anale; altri (sierotipi 6 e 11) con il carcinoma verrucoso
della vulva e del pene e con i tumori di Buschke e Lowenstein; altri ancora (sierotipi
5, 8, 14, 17 e 20) con carcinomi cutanei, in genere in sedi esposte al sole
(esempio di interazione fra infezione virale ed agenti fisici) e in pazienti
affetti da una rara malattia ereditaria (epidermodysplasia verruciformis).
L'effetto dell'HPV sembra essere legato all'azione di oncogeni virali ed al
possibile legame delle oncoproteine con geni soppressori implicati nella
regolazione del ciclo cellulare, di cui sarà discusso più avanti. Fra le
herpesviridae, il virus dell'herpes simplex di tipo 2 (genitalis) è stato messo
da molto tempo in relazione, seppure in maniera non conclusiva, con il cancro
anogenitale e soprattutto con il carcinoma della cervice uterina. Meglio
documentata, anche nei suoi meccanismi (v. il paragrafo sugli oncogeni) è
l'associazione fra virus di Epstein-Barr - responsabile nelle nostre zone
geografiche della mononucleosi infettiva - e la forma africana di linfoma di
Burkitt ed il carcinoma nasofaringeo. Più incerto è il ruolo dell'EBV nel
linfoma di Hodgkin in cui una forma clonale di DNA virale è individuabile nel
40% dei pazienti nelle cellule di Reed-Sternberg specifiche per l'Hodgkin e in
forme di linfomi a cellule B in individui immunodepressi, soprattutto in
trapiantati renali o in corso di AIDS. Numerose e ben fondate linee di evidenza
dimostrano che l'infezione cronica da virus dell'epatite B (HBV) rappresenta il
principale fattore di rischio per il carcinoma epatocellulare primitivo. Simili
associazioni esistono per altre hepadnaviridae patogene per animali, e
soprattutto per il virus dell'epatite del woodchuck o Marmota monax (WHV).
L'integrazione e la persistenza del DNA di questi virus nel genoma dell'epatocita
è critica per il processo della cancerogenesi ma non è ritenuta sufficiente.
Sicuramente è importante la rigenerazione epatica postcirrotica, che favorisce
l'accumulo di eventi mutazionali ed ha un effetto promuovente. Tuttavia lo
stadio della cirrosi non è una tappa costante nell'epatocancerogenesi da HBV e
non esiste in quella da WHV. E' probabile un'associazione fra infezione virale
ed agenti chimici. Le ricerche svolte nel nostro laboratorio hanno dimostrato
che nell'infezione sia da HBV sia da WHV vi è un'esaltata attivazione
metabolica ed una diminuzione dei meccanismi di difesa nei confronti di
epatocancerogeni chimici, soprattutto di pirolisati di amminoacidi che si
formano durante la cottura degli alimenti.
Nel
complesso, come si può desumere dalla fig.04
La
maggior parte dei tumori e di altre malattie associate con mutazioni viene
ricondotta a fattori ambientali, intendendo per ambiente in senso lato non solo
l'ambiente fisico di vita e di lavoro ma anche lo stile di vita, cioè tutto
ciò che, non essendo predeterminato geneticamente, è di origine esogena. Il
ruolo dei fattori ambientali è comprovato da diverse constatazioni
epidemiologiche, quali:
1)
la prevalenza di tipi diversi di tumori in zone geografiche diverse, come è
evidente non solo dal confronto di aree lontane geograficamente e culturalmente,
ma anche dalla mappatura dei tumori nelle varie province dei Paesi della
Comunità Europea;
2)
la diversa prevalenza dei tumori in gruppi di popolazione caratterizzati, per
motivi etnici o religiosi, da diverse abitudini di vita;
3)
il fatto che le popolazioni migranti tendano ad acquisire, più o meno
rapidamente (1-3 generazioni), i tipi di tumore caratteristici del Paese di
immigrazione;
4
) le variazioni cronologiche nell'incidenza dei tumori come conseguenza di
modificazioni ambientali e delle abitudini di vita (ad esempio, variazioni della
dieta e della conservazione degli alimenti per il carcinoma gastrico, o aumento
del consumo di sigarette per il cancro polmonare);
5)
la controprova epidemiologica che documenta una diminuzione del rischio in
seguito a rimozione dei fattori sospetti (ad esempio, la flessione dei tumori
occupazionali conseguente ai progressi dell'igiene industriale, o la riduzione
del cancro polmonare in gruppi di popolazione sensibilizzati dalle campagne
antifumo). Le stesse argomentazioni possono essere portate, in senso inverso,
per dimostrare l'importanza epidemiologica dei fattori protettivi di origine
ambientale. Per quanto alcuni dei fattori di rischio già discussi risentano
dell'influenza ambientale - come la diversa distribuzione geografica di virus
oncogeni e altri agenti patogeni e le conseguenze dell'alimentazione sullo stato
ormonale - in genere i fattori ambientali sono ricondotti ad agenti fisici e
chimici.
Fra
gli agenti fisici, oltre agli effetti locali delle elevate temperature, che
saranno discussi a proposito di promozione dei tumori, si fa soprattutto
riferimento a vari tipi di radiazioni. Vi è un'ampia documentazione
epidemiologica sulla cancerogenicità dei raggi X, desunta soprattutto dall'uso
di queste radiazioni ionizzanti nella ricerca medica e in radiologia in epoca
pionieristica, e dei raggi gamma, di cui le esplosioni atomiche di Hiroshima e
Nagasaki hanno dato testimonianza. L'uso non controllato dell'energia nucleare
può portare alla disseminazione ambientale di isotopi alfa, beta o gamma
emittenti, che si inseriscono nel ciclo naturale del corrispondente isotopo non
radioattivo o di omologhi chimici. Ad esempio lo 131I viene captato dalla
tiroide; lo 90Sr, omologo del Ca, si localizza principalmente nel tessuto osseo;
il 137Cs, omologo del K, si distribuisce in sede intracellulare. Esiste anche un
problema di radioattività naturale, legata soprattutto alla ricchezza nel
sottosuolo di gas radon (222Rn) derivato dall'uranio, di cui sono ben noti gli
effetti cancerogeni in minatori e per il quale esistono forti sospetti quale
cancerogeno polmonare anche in certe abitazioni in cui le concentrazioni di
questo radioisotopo e dei suoi prodotti di decadimento nell'aria sono elevate.
Questo può dipendere dalle caratteristiche del sottosuolo, dal materiale da
costruzione e dalla scarsa ventilazione degli edifici moderni. Un altro isotopo
radioattivo, il polonio (210Po), derivato dal 210Pb e questo a sua volta dal
222Rn che si deposita sulle foglie di tabacco, è responsabile del 99%
dell'attività alfa presente nel fumo di sigaretta.
Un
altro tipo di radiazione rilevante in cancerogenesi è rappresentato dai raggi
ultravioletti (UV) di varia lunghezza d'onda: UV-A (320-400 nm), UV-B (280-320
nm) e UV-C (200-280 nm). Per quanto tutti gli UV-C e la maggior parte degli UV-B
emessi dal sole siano bloccati dalla fascia di ozono, si ritiene che la luce del
sole porti un importante contributo all'epidemiologia dei tumori umani (v. fig.04
Per
quanto riguarda gli agenti chimici, è in corso un acceso dibattito sul
contributo relativo di composti naturali e di quelli artificiali. Da un lato vi
è preoccupazione per la continua sintesi di molocole (quasi 1000 composti di
sintesi entrano quotidianamente nel Chemical Abstract Service dell'American
Chemical Society) e per la valutazione, fatta congiuntamente da FDA (Food and
Drug Administration) ed EPA (Environmental Protection Agency), che l'uomo
potrebbe essere esposto a 63.000 molecole artificiali. Altre opinioni, anche
autorevoli, minimizzano la reale importanza dell'inquinamento antropogenico ed
enfatizzano la presenza di "pesticidi naturali", cui Bruce Ames
attribuisce un contributo superiore addirittura di 10.000 volte rispetto ai
"pesticidi artificiali". Questi cancerogeni naturali sono presenti
soprattutto nei vegetali, essendo elaborati dalle piante come mezzi di difesa
nei confronti degli insetti e dei parassiti. Va comunque rilevato che i
pesticidi, sia naturali sia artificiali, vanno a far parte di miscele complesse,
che ne possono mascherare l'effetto, e che i vegetali sono particolarmente
ricchi di antiossidanti e di altri fattori protettivi.
In
questo scenario piuttosto incerto sembra emergere la considerazione che, pur non
trascurando fattori di rischio limitati a determinati gruppi di popolazione
(come certi farmaci ed esposizioni occupazionali) né quelli che potrebbero
effettivamente derivare da fenomeni di inquinamento ambientale di origine
antropogenica, gli sforzi maggiori dovrebbero essere concentrati nel controllo
dei fattori di rischio epidemiologicamente più rilevanti. Fra questi, come si
rileva chiaramente nella fig.04 , spiccano le
abitudini voluttuarie e soprattutto, almeno nelle nostre zone geografiche, il
fumo di tabacco e la sua associazione con alcool, e fattori legati alla dieta ed
agli alimenti.
E'
fuori di dubbio che il fumo di tabacco rappresenta la principale causa di morte
evitabile nei Paesi occidentali, essendo ritenuto responsabile del 25% delle
morti per malattie cardiovascolari e del 30% dei morti per tumori (fig.04
Più
complessa e articolata è la valutazione del ruolo della dieta, anche perché
diverse sue componenti possono modulare la cancerogenesi sia positivamente sia
negativamente. L'apporto calorico ed il contenuto in proteine e in lipidi,
specie i acidi grassi saturi, sono importanti nella cancerogenesi del colon, e
influenzano lo stato ormonale, favorendo così alcune forme di cancro,
tipicamente il carcinoma mammario e forse il carcinoma prostatico. Questi
effetti sono contrastati dalla presenza di fibre e di calcio nella dieta. Come
si discuterà più avanti, un eccesso di normali componenti, come il cloruro di
sodio, porta ad uno stimolo irritativo cronico che promuove il carcinoma
gastrico. Alcune derrate alimentari possono essere contaminate da micotossine
cancerogene, come le aflatossine. Un rischio potrebbe venire dagli additivi
alimentari, ma i mezzi di controllo oggigiorno disponibili rendono improbabile
questa eventualità. Al contrario, vengono addizionate vitamine e altre molecole
antiossidanti che, oltre a favorire la conservazione degli alimenti, esplicano
effetti protettivi in cancerogenesi. Un simile ruolo anticancerogeno è svolto
da prodotti naturali, presenti soprattutto in vegetali ricchi di vitamine o di
altri composti anticancerogeni, come polifenoli, isotiocianati, indoli,
ditioltioni ecc. Notevoli progressi sono stati compiuti con un minor ricorso a
metodi di conservazione che comportano l'esposizione a cancerogeni, come la
salatura e l'affumicatura. Considerazioni a parte merita il nitrito, che può
essere naturalmente presente in alimenti e bevande come tale o come nitrato,
ridotto poi a nitrito dalla flora batterica orale, oppure essere utilizzato come
conservante, in quanto si lega alla mioglobina degli alimenti carnei ed inibisce
la produzione di esotossina botulinica. Esauritesi le discussioni sulla
cancerogenicità del nitrito stesso, che ne avrebbe automaticamente precluso per
legge l'utilizzazione negli USA, resta accertato, anche se difficilmente
quantificabile nell'epidemiologia dei tumori umani, il suo ruolo quale
precursore di N-nitroso-composti mutageni e cancerogeni, che si formano in
seguito alla reazione del nitrito con ammine e ammidi presenti in certi farmaci
e alimenti. Questa reazione avviene prevalentemente nell'ambiente aciclo dello
stomaco, e può essere inibita da varie miscele complesse e composti, spesso
presenti nella dieta, di cui il prototipo è l'aciclo ascorbico (vitamina C).
Infine, alcuni dei maggiori rischi legati all'alimentazione derivano dai metodi
di preparazione e cottura degli alimenti, soprattutto per quanto riguarda
l'abbrustolimento di certe componenti, che porta alla formazione di pirolisati
di amminoacidi e di altri composti carboniosi nocivi. Secondo alcune
valutazioni, con diete di tipo occidentale si assumerebbero ogni giorno diversi
grammi di residui carboniosi.
Il
processo della cancerogenesi si articola tipicamente in tappe successive (fig.02
Il
primo stadio della cancerogenesi, che è di breve durata (giorni o settimane),
viene denominato iniziazione. Il processo di iniziazione causato da agenti
chimici è preceduto da una serie di eventi critici, legati a complessi processi
di farmacocinetica e di biotrasformazione tendenti a modificarne la dose attiva
ed a condizionarne l'effetto genotossico. Questi fenomeni sono assai importanti
nel determinare il tropismo tissutale, la via di penetrazione efficace ed i
livelli dosimetrici. Come si può osservare nella fig.05a
Di
cruciale importanza è il metabolismo dei mutageni/cancerogeni, che si compie
soprattutto nel citoplasma cellulare e che coinvolge fenomeni di bioattivazione
e di detossificazione, in genere articolati in una complessa sequenza di vie
metaboliche interconnesse con un delicato equilibrio. Da un lato, composti
inerti (promutageni/procancerogeni) tendono ad essere attivati a metaboliti
intermedi (prossimali) ed infine a metaboliti terminali, che hanno la
caratteristica comune di essere idrosolubili e quindi di poter essere escreti
più facilmente dall'organismo, ma anche di essere elettrofilici, cioè avidi di
elettroni, e quindi di potersi legare con i siti nucleofilici del DNA. D'altro
canto, esistono nella cellula altre molocole con proprietà nucleofiliche, come
il glutatione ridotto (GSH), capaci di legare e neutralizzare i metaboliti
elettrofilici, che allo stesso tempo sono sottoposti all'azione di enzimi
detossificanti e coniuganti. Si distinguono reazioni biochimiche di fase I, che
comportano la creazione o modificazione di gruppi funzionali della molecola, e
quelle di fase II, che comportano il trasferimento di gruppi reattivi o
catalizzano la coniugazione con nucleofili. Fra le prime, particolarmente
studiate sono le mono-ossigenasi, o ossidasi a funzione mista, dipendenti dai
citocromi P450 localizzati nel reticolo endoplasmico (frazioni microsomiali).
Tutti
questi processi, come accennato in precedenza, variano qualitativamente e
quantitativamente non solo fra diverse specie e ceppi animali ma anche
nell'ambito della stessa specie, ad esempio nella popolazione umana. Questo è
uno dei fattori determinanti nel condizionare la suscettibilità ad agenti
nocivi e giustifica la ricerca di parametri biochimici capaci di discriminare
individui a rischio nella popolazione (v. anche la tab.04
Ai
fenomeni lesivi del DNA fanno riscontro i complessi meccanismi biochimici che
tendono a ripararne la struttura non appena questa sia alterata. I sistemi di
riparazione del DNA, che sono stati studiati soprattutto nei procarioti, sono
molteplici. Nel caso di danni di lieve entità alla doppia elica intervengono
attività endonucleasiche di riparazione controllate dai geni uvrA, uvrB ed uvrC.
Nella stessa situazione l'intervento può anche essere deputato ad enzimi che
agiscono ricombinando e riparando il polimero nucleotidico, la cui attività è
determinata dai geni recA, recB e recF.
Nel
caso che il danno al DNA sia molto consistente, tanto da bloccare ogni
possibilità di replicazione e duplicazione del filamento
desossiribonucleotidico, interviene il cosiddetto sistema SOS, al cui controllo
presiedono i 3 geni denominati umuA, umuC ed umuD. Questi meccanismi di
riparazione non sono però perfetti. Soprattutto il sistema SOS, un po' per la
difficoltà intrinseca al suo specifico compito, un po' perché agisce spesso in
situazioni cruciali in cui se il DNA non riesce ad essere riparato e duplicato
la cellula va incontro alla morte, commette errori. Si può quindi affermare che
normalmente un danno lieve al DNA è riparato; un danno grave può invece essere
letale oppure sottostare all'azione del sistema SOS. Quando tale riparazione
avviene in maniera errata ("misrepair"), il danno stesso determina una
mutazione, ma la cellula riesce a sopravvivere. La conseguenza può essere in
questo caso l'iniziazione di un processo di cancerogenesi.
L'importanza
di tali meccanismi di difesa è suffragata dall'esistenza di alcune sindromi
ereditarie (quali lo xeroderma pigmentosum, l'anemia di Fanconi, l'ataxia-teleangectasia,
la sindrome di Bloom ecc.), in cui vi sono gravi deficienze nelle capacità
riparative del DNA, con conseguente vistoso incremento della suscettibilità
agli agenti cancerogeni. Ad esempio, l'esposizione alla luce solare di individui
affetti da xeroderma pigmentosum comporta un rischio di ammalarsi di cancro
cutaneo migliaia di volte superiore a quello di soggetti con normali capacità
riparative. Tutti i quadri clinici in questione si esprimono assai raramente
allo stato omozigote, mentre la frequenza dei portatori eterozigoti nella
popolazione è tutt'altro che trascurabile essendo, ad esempio, circa dell'1%
per l'ataxia-teleangectasia, dello 0,2% per la sindrome di Bloom e dello 0,25%
per lo xeroderma pigmentosum. Ciò implica la possibilità di individuare
soggetti appartenenti a categorie a rischio per la malattia neoplastica e quindi
particolarmente adeguati per interventi mirati di prevenzione primaria.
Non
tutti gli iniziatori agiscono comunque con meccanismo genotossico. Vi sono
infatti degli iniziatori che estrinsecano la propria azione non mediante un
danno al DNA, bensì interagendo con qualche altra struttura della cellula. Da
qui la denominazione di "epigenetici". Il loro meccanismo d'azione è
ancora piuttosto vago, ed è stata avanzata l'ipotesi che essi non siano da
classificare tra gli iniziatori quanto piuttosto fra i promotori, il che, fra
l'altro, implicherebbe che l'iniziazione sia costantemente la conseguenza di un
danno genotossico. La categoria degli iniziatori epigenetici comprende sostanze
anche di grande rilevanza epidemiologica, quali l'asbesto, i pesticidi
organoclorurati come il diclorodifeniltricloroetano (DDT), la 2, 3, 7,
8-tetraclorodibenzodiossina (TCDD) e il dietilstilbestrolo (DES).
La
seconda fase della cancerogenesi, denominata promozione, dura nell'uomo anni o
decenni. Mentre un cancerogeno iniziatore induce il cancro con un meccanismo
irreversibile, un cancerogeno promotore provoca effetti reversibili e non è di
per sé sufficiente a determinare l'insorgenza della neoplasia. E' invece in
grado, specie se somministrato a dosi ripetute, di fissare ed amplificare il
danno determinato da un iniziatore. L'iniziazione può perciò essere paragonata
al negativo di una fotografia e la promozione alla sua stampa. I meccanismi
intimi della promozione non sono stati ancora completamente chiariti. Numerosi
indizi fanno ritenere che in questa fase vi sia una modulazione dell'espressione
genica delle cellule iniziate, determinata da un'azione sui geni regolanti la
crescita e la differenziazione cellulare. Altri possibili meccanismi sono
l'aumento del numero delle copie dei geni (dimostrato per le specie reattive
dell'ossigeno generate dagli esteri del forbolo), l'attivazione delle proteine
chinasi endocellulari (enzimi chiave nel processo di trasduzione dei segnali) e
l'inibizione delle comunicazioni intercellulari.
In
linea generale si può affermare che il promotore agisce inducendo
proliferazione cellulare, con conseguente amplificazione dell'elemento
trasformato e selezione clonale della cellula iniziata, conferendole un
vantaggio replicativo rispetto alle cellule normali. Vista la complessità dei
meccanismi in gioco si tende oggi ad attenuare la distinzione tra iniziatori e
promotori. E' infatti difficile che un agente abbia esclusivamente attributi
univoci in uno dei due sensi; spesso, invece, possiede entrambe le proprietà,
con prevalenza dell'una o dell'altra. I cancerogeni che agiscono sia come
iniziatori sia come promotori sono detti "completi". La promozione
può essere determinata da sostanze chimiche, da stimoli fisici o meccanici e da
eventi biologici.
I
promotori chimici possono essere caratterizzati da un organotropismo specifico.
Così, ad esempio, il TPA (tetradecanoilforbolo acetato), un estere del forbolo,
derivato dall'olio di croton, è correlato con l'insorgenza del cancro cutaneo
(ma anche con altri tipi di tumore). Il cloruro di sodio può promuovere, se
introdotto in quantità eccessive, le neoplasie gastriche (si consiglia di non
superare i 5 g/die). La diminuzione dell'uso del sale da cucina come
conservante, grazie all'introduzione della conservazione degli alimenti a basse
temperature, ha contribuito a decrementare l'incidenza di queste forme in
Occidente. La saccarina, spesso usata in sostituzione del glucoso come
dolcificante, riconosce invece come bersaglio l'epitelio vescicale. Anche i sali
e gli acidi biliari hanno azione promuovente; è soprattutto l'aciclo litocolico
ad agire in questo senso nei confronti della mucosa del colon. La sua azione è
fortemente limitata dall'introduzione con gli alimenti di polimeri
beta-glugosidici indigeribili. Gli estrogeni manifestano invece organotropismo
verso la ghiandola mammaria e i barbiturici nei confronti del fegato.
Molte
componenti del fumo di tabacco hanno azione promuovente per il cancro del
polmone. Se l'azione cancerogena dipendesse esclusivamente da iniziatori,
l'irreversibilità del danno non comporterebbe alcuna diminuzione del rischio in
coloro i quali abbandonano l'abitudine al fumo. Poiché però questo è una
miscela complessa sia di iniziatori sia di promotori, il rischio relativo
dell'ex-fumatore diminuisce progressivamente, fino a raggiungere lo stesso
valore dei non fumatori, secondo alcune ricerche dopo 10-15 anni.
Uno
dei promotori fisici di maggiore importanza è il calore. L'introduzione
abituale di bevande od alimenti bollenti costituisce un noto fattore di rischio
per l'insorgenza del carcinoma esofageo. Altro esempio è quello del cancro
della cute dell'addome conseguente all'uso prolungato dei kangri, uno scaldino
usato dai pastori del Kashmir. L'importanza dei promotori meccanici è
comprovata dall'insorgenza di forme atipiche sulla mucosa labiale dei fumatori
di pipa e dalle eventuali fenomenologie leucoplasiche della mucosa in
corrispondenza delle sedi di frizione determinata da protesi odontoiatriche non
perfettamente conformi alla loro sede anatomica. E' del resto bene immaginabile
come un qualsiasi agente meccanico e fisico, anche blandamente necrotizzante,
che agisca su epiteli cambiali (o comunque su popolazioni labili o stabili)
provochi, per esigenze riparative, un incremento nell'indice di frequenza
mitotica perfettamente in linea con i descritti meccanismi della promozione.
D'altronde negli studi sperimentali di epatocancerogenesi a più stadi nei
roditori la fase promuovente può essere ottenuta con agenti epatotossici, come
il tetracloruro di carbonio, ma anche mediante epatectomia parziale, che stimola
la rigenerazione delle cellule epatiche.
Fra
le cause biologiche di promozione un ruolo di primo piano è svolto dai processi
infiammatori. Spesso nelle sedi colpite da flogosi cronica si osservano eventi
di rigenerazione atipica metaplastica o neoplastica, imputabili almeno in parte
alla produzione di specie reattive dell'ossigeno. Gli elementi leucocitari, che
accorrono in seguito al richiamo chemiotattico proprio delle fasi iniziali del
processo, sono grandi produttori di molecole di questo tipo. Anche i macrofagi
polmonari di soggetti fumatori producono grandi quantità di radicali liberi
dell'ossigeno, con una vera e propria "esplosione ossidativa" nel
metabolismo della cellula. L'ossigeno molecolare può, avendo due elettroni
spaiati con il medesimo "spin" nei due orbitali esterni, acquisire due
elettroni che abbiano "spin" opposto. Quando questo accade, la
molecola di ossigeno si trasforma in anione superossido (O2-). L'acquisizione
eventuale del secondo elettrone porta all'interazione con 2 protoni, disponibili
nel mezzo acquoso, con la conseguente formazione di perossido di idrogeno
(H2O2). Da questo può generarsi il radicale idrossilico (OH), considerato come
il più fortemente reattivo, tanto che la sua vita media è di circa 10 alla -9
secondi ed il suo raggio d'azione non supera 1 nm. La produzione di specie
reattive dell'ossigeno può anche avvenire per effetto fotodinamico. La
radiazione solare può infatti eccitare uno dei due elettroni spaiati
spostandolo ad un livello energetico più elevato, venendosi così a generare
ossigeno singoletto (1O2-). Vi è normalmente un equilibrio dinamico con gli
specifici sistemi di difesa costituiti sia da sostanze chimiche sia da enzimi,
spesso cooperanti. Un esempio è dato dal glutatione (GSH) e dalla GSH
transferasi, la quale diminuisce la specificità del legame del tripeptide con
il substrato consentendogli così di ridurre molecole nei confronti delle quali
avrebbe di per sé affinità bassissima. La presenza di selenio nelle molecole
di alcuni isoenzimi di GSH perossidasi giustifica un eventuale impiego di questo
elemento chimico in anticancerogenesi. Altri enzimi, quali la catalasi e la
mieloperossidasi, sono invece in grado di inattivare il perossido di idrogeno.
L'enzima più efficace nel trasformare l'O2- in H2O2 è la superossidodismutasi,
anch'essa presente nella cellula sotto forma di diversi isoenzimi. La rottura di
questo equilibrio, spesso causata da fenomeni biologici quali l'infiammazione,
può avere gravi conseguenze per la cellula. Le specie reattive intervengono
infatti a vari livelli del processo di cancerogenesi, dal metabolismo ossidativo
di alcuni cancerogeni al danno genotossico e soprattutto all'azione promuovente.
Come è noto, l'importanza delle specie reattive dell'ossigeno non è solo
ristretta alla cancerogenesi, essendo queste implicate nella patogenesi di
diverse malattie cronico-degenerative quali l'enfisema polmonare, la
coronaropatia ischemica e l'ictus cerebrale.
Lo
schema iniziazione-promozione-progressione è utile dal punto di vista didattico
e operativo, ma è sempre più evidente che la distinzione fra i vari stadi è
sfumata, con meccanismi simili che si possono ripetere in diversi momenti del
processo della cancerogenesi. Ad esempio, è chiaro che gli effetti a carico del
DNA non sono limitati all'iniziazione del cancro, ma alterazioni genetiche di
vario tipo, che coinvolgono geni distinti, si possono susseguire in tutti gli
stadi della cancerogenesi, inclusi quelli più avanzati che portano alla
malignità, all'invasione e alle metastasi. Ne deriva che il cancro può essere
considerato come il risultato dell'accumulo di alterazioni genetiche multiple.
Tentativi
di caratterizzazione di questa successione di eventi genetici, che comunque non
sembra seguire uno schema rigido, sono stati fatti ad esempio per la
cancerogenesi del colon, in cui è possibile raccogliere e studiare anche dal
punto di vista genetico materiale bioptico rappresentativo dei vari stadi di
sviluppo della malattia, a partire dall'iperplasia dell'epitelio e dai polipi
adenomatosi a vario stadio di displasia fino al carcinoma, dapprima non invasivo
e successivamente invasivo. Per quanto riguarda la progressione di questo
tumore, è possibile che l'inattivazione della proteina p53, che sarà discussa
più avanti, possa mediare la transizione da adenoma a carcinoma.
Alcune
aberrazioni cromosomiche, come riarrangiamenti strutturali del cromosoma 1 o la
fusione presso il centromero dei bracci corti del cromosoma 6, appaiono
correlate con gli ultimi stadi della cancerogenesi. E' possibile che un gene
localizzato nel cromosoma 1 sia importante per l'acquisizione di un potenziale
di crescita più aggressivo in vari tipi di tumore.
L'acquisizione
di proprietà invasive e la conseguente disseminazione metastatica delle cellule
maligne, il più delle volte attraverso il sistema vascolare, rappresentano le
fasi più avanzate del processo di cancerogenesi, che ne rendono estremamente
difficile il controllo terapeutico. L'invasione della membrana basale dei vasi
sanguigni che, con alcune eccezioni, è impermeabile alle cellule normali, può
realizzarsi attraverso una serie di meccanismi sequenziali. Questi comportano il
legame delle cellule maligne a componenti della membrana, e in particolare la
loro adesione alla laminina, che a sua volta determina la produzione di
collagenasi di tipo IV e di attivatore del plasminogeno. L'attivazione della
produzione di enzimi proteolitici ha come conseguenza la digestione della
matrice extracellulare e la migrazione nel torrente circolatorio in risposta a
stimoli chemiotattici o chemiocinetici, forniti da proteine della matrice
extracellulare e da loro frammenti proteolitici, da prodotti delle cellule
ematiche, da fattori di crescita e anche da fattori autocrini di motilità
elaborati dalle cellule tumorali stesse.
Le
cellule maligne possono così sfuggire dal tumore primitivo, invadere il
torrente circolatorio e metastatizzare a distanza, attraversando con un processo
inverso la parete dei capillari di altri organi. Questo avviene attraverso una
retrazione dell'endotelio, l'adesione alla membrana basale e la sua digestione
mediante proteasi. Le cellule metastatiche penetrano cosi nell'organo bersaglio,
dove proliferano sotto lo stimolo di fattori di crescita autocrini e paracrini,
fino a formare un tumore secondario.
Va
rilevato che, oltre alla possibile ricrescita in situ di un tumore primitivo
trattato ed alla disseminazione di tumori secondari metastatici, un'altra
evenienza non infrequente è la formazione di un secondo tumore primitivo, cioè
di una massa neoplastica cresciuta indipendentemente nello stesso organo oppure
in sede controlaterale, presumibilmente in seguito alle stesse cause e secondo
gli stessi meccanismi dell'altro tumore primitivo, ma con una latenza maggiore.
Il
ciclo cellulare si articola in 5 fasi: G1 (pausa 1), G0 (riposo), S (sintesi del
DNA e duplicazione dei cromosomi), G2 (pausa 2) e M (mitosi). Il programma di
proliferazione e differenziazione cellulare è regolato da una complessa rete di
fattori di crescita e fattori inibenti, interconnessi fra di loro mediante una
cascata di segnali biochimici che porta all'attivazione o alla repressione di
geni con funzioni antagoniste.
La
scoperta di fattori di crescita o "growth factors" (GF), come quello
di nervi (NGF), epidermide (EGF), epatociti (HGF), derivato dalle piastrine (PDGF),
cheratinociti (KGF), fibroblasti (FGF) ecc., ha portato all'identificazione di
meccanismi che influenzano la crescita di un gran numero di tipi cellulari.
Alcuni fattori di crescita inducono solo proliferazione, mentre altri possono
anche promuovere la differenziazione delle cellule progenitrici. L'assenza di
stimolazione delle cellule da parte di fattori di crescita può anche portare a
fenomeni di senescenza cellulare o di morte cellulare programmata o apoptosi. In
certe fasi del ciclo cellulare sono necessari fattori di progressione, come
l'"insulin-like growth factor" (IGF-1), mentre gli effetti
proliferativi dei fattori di crescita sono contrastati da citochine, quali gli
interferon, il "transforming growth factor beta" (TGFBeta) e il
fattore di necrosi tumorale (TNF).
Negli
organismi pluricellulari esistono inoltre meccanismi coordinati di controllo
delle interazioni cellulari. Fattori di crescita prodotti da una cellula possono
influenzare la proliferazione di altre cellule (stimolazione paracrina). A
questo proposito sono di fondamentale importanza le comunicazioni
intercellulari, che garantiscono l'integrità architettonica di tessuto normale
e permettono il trasferimento da una cellula all'altra di metaboliti
(cooperazione metabolica) e di segnali di crescita, sia positivi sia negativi.
Così alcune cellule possono favorire la crescita delle cellule vicine
attraverso segnali mitogeni, veicolati dai fattori di crescita polipeptidici
precedentemente citati. Molte delle proteine codificate da oncogeni cellulari (oncoproteine)
attivano costitutivamente quelle vie di segnalazione intracellulare che sono
abitualmente usate dalla cellula normale in risposta a fattori di crescita
esogeni. Di conseguenza, la cellula che ospita un oncogene acquisisce autonomia
di crescita e non dipende più da stimoli mitogeni che provengono dall'ambiente
circostante.
D'altro
canto, le cellule sono anche in grado di inibire attivamente la crescita delle
cellule vicine tramite una serie di molecole che sono ancora poco
caratterizzate. Un tipo di segnale negativo mediato da molecole di superficie
finora sconosciute è legato alla cosiddetta inibizione da contatto prodotta da
cellule normali che formano un monostrato in coltura. Alcune molecole inibenti a
basso peso molecolare, inferiore ai 1000 daltons, sono capaci di passare
attraverso i canali delle comunicazioni intercellulari. Un ruolo fondamentale è
anche svolto da ormoni e da inibitori di crescita macromolecolari, come il
TGF-beta, che trasferendosi da una cellula all'altra possono bloccare una
crescita esponenziale e trasformarla in un'altra fase del ciclo di crescita,
oppure indurre una differenziazione post-mitotica oppure ancora causare
senescenza e apoptosi della cellula.
Sono
anche critiche le interazioni tra cellule parenchimali e cellule stromali. Ad
esempio, la capacità degli ormoni steroidei di stimolare la proliferazione di
cellule epiteliali in tessuti suscettibili agli ormoni sessuali, come quelli
della mammella e della prostata, sembra essere mediata in parte da effetti
ormonali sulle cellule stromali. A loro volta, le cellule stromali possono
influenzare le cellule parenchimali, inducendo la produzione di fattori di
crescita e/o diminuendo la produzione di citochine inibenti. Meccanismi simili
possono entrare in gioco in seguito a traumatismi ripetuti o infezioni croniche,
che favoriscono la selezione clonale di cellule geneticamente alterate, in
risposta a fattori di crescita con azione paracrina.Pertanto, le cellule
stromali influenzano la crescita delle cellule epiteliali normali e possono
favorire un ambiente che porta alla proliferazione, invasione, e perfino alle
metastasi di cellule epiteliali tumorali. Un'altra caratteristica di malignità
è rappresentata dalla neoangiogenesi, che porta alla vascolarizzazione della
massa ed al conseguente apporto di sostanze nutritizie alle cellule tumorali. Le
cellule stromali possono essere coinvolte anche in questo processo attraverso la
produzione di fattori angiogeni.
A
livello genetico il programma proliferativo delle cellule normali avviene sotto
la regia armonica di cosiddetti protooncogeni, che hanno la funzione di
stimolare la crescita in certi momenti del ciclo cellulare, funzione che è
controbilanciata da geni cosiddetti soppressori, i quali tendono a inibire la
crescita. Le ricerche svolte negli ultimi due decenni hanno dimostrato che la
regolazione fisiologica della crescita cellulare viene inficiata quando i
proto-oncogeni sono trasformati in oncogeni, attraverso vari meccanismi di
attivazione cui si farà cenno tra breve, oppure quando viene a mancare il freno
esercitato dai geni soppressori. Come discusso a proposito di progressione dei
tumori, entrambi i tipi di alterazione del genoma cellulare sono coinvolti nella
sequenza di eventi genetici multipli caratteristica del processo di
cancerogenesi.
Gli
oncogeni sono geni dominanti inseriti nel genoma di cellule (c-onc) o virus (v-onc),
capaci di causare trasformazione di cellule di mammifero in coltura. La natura
neoplastica delle cellule trasformate può essere confermata dalla loro
proprietà di indurre tumori quando sono inoculate in animali, come topi nudi.
E'
quindi fondamentale mettere a fuoco i meccanismi attraverso i quali i
protooncogeni possono essere trasformati in oncogeni, perdendo così il ruolo di
regolatori fisiologici della crescita cellulare. Questi fenomeni sono stati
studiati anche in tumori umani, in un terzo dei quali è stato finora possibile
dimostrare l'espressione di oncogeni attivati (tab.02
La
dinamica dell'amplificazione genica è stata ad esempio determinata per
l'oncogene N-myc. La duplicazione di questo gene non avviene con i normali ritmi
della via semiconservativa. Si ha infatti la duplicazione di un nuovo gene sul
filamento appena costituito. Ciò accade per un numero di volte n su entrambi i
filamenti originari portando così ad un'amplificazione del gene pari a 2 x n
volte. Tale fenomeno ha anche un riscontro citogenetico, essendo stata rilevata
in doni trasformati una maggiore quantità di DNA rispetto alle cellule normali.
E' anche possibile l'acquisizione di una o più copie di un cromosoma o braccio
di cromosoma, che influenzerà centinaia o migliaia di geni. La trisomia più
frequentemente osservata è quella a carico del cromosoma 8 nella sindrome
mielodisplastica, malattia mieloproliferativa, leucemia mieloide acuta e
leucemia linfoide acuta.
La
traslocazione cromosomica reciproca rappresenta un'alterazione citogenetica
caratteristica delle leucemie e dei linfomi. Un classico esempio è fornito
dalla traslocazione reciproca tra i cromosomi 9 e 22 [t(9;22)] in corso di
leucemia mieloide cronica, con conseguente formazione del cromosoma Philadelphia.
Un altro esempio è rappresentato dal linfoma di Burkitt, nel cui caso si ha la
traslocazione di un protooncogene dal cromosoma 8 al 14 [t(8;14)]. La
traslocazione può avere due conseguenze dal punto di vista molecolare. La
prima, caratteristica della t(9;22), consiste in una fusione dei geni, che dà
luogo ad una oncoproteina chimerica, la cui capacità trasformante deriva da
entrambi i geni. La seconda conseguenza comporta una depressione di oncogeni in
seguito alla loro giustapposizione a sequenze di "enhancers" o
promotori attivi nel tipo cellulare da cui origina il tumore, come gli "enhancers"
delle catene pesanti o delle catene leggere delle immunoglobuline.
Le
mutazioni geniche o puntiformi coinvolgono una sola o poche basi nucleotidiche.
In seguito a transizione o transversione una base può venire sostituita con
un'altra, con conseguente alterazione di una sola tripletta. La conseguenza
fenotipica di un simile evento non è univoca. Se risulta un "nonsense",
cioè una tripletta non contemplata dal codice genetico, si ha un'interruzione
della trascrizione con formazione di una proteina incompleta. Più
frequentemente si ha un "missense", cioè il cambiamento della
tripletta in un'altra corrispondente ad un amminoacido diverso. Tanto più
questo è differente da quello originario, tanto più grave è l'alterazione
indotta nel protide sintetizzato. I fenomeni di inserzione o di delezione sono
assai più dannosi, poiché determinano uno spostamento globale di tutto il
modulo di lettura, con conseguente "missense" non solo della tripletta
colpita, ma anche di tutte quelle che ad essa fanno seguito. Anche queste minime
alterazioni puntiformi del DNA possono essere di per sé sufficienti ad attivare
l'oncogene, come dimostrato sperimentalmente per l'oncogene H-ras-1, che può
essere attivato in seguito a mutazioni puntiformi in roditori trattati con
cancerogeni chimici.
Gli
oncogeni esercitano i loro effetti a diversi livelli della cascata di
informazioni che partono da un messaggero al di fuori delle cellule e arrivano
fino ai fattori di trascrizione nucleare che programmano lo stadio del ciclo
cellulare e il grado di differenziazione.In particolare, a seconda delle
proteine codificate, gli oncogeni possono essere classificati in 4 classi. La I
classe comprende 2 sottoclassi denominate rispettivamente IA e IB. Gli oncogeni
appartenenti alla classe IA codificano per le attività tirosina chinasiche, che
tanta importanza hanno nella trasduzione del segnale dal versante endocellulare
del recettore al nucleo. La loro attivazione porta ad un'attività tirosina
chinasica costitutiva, cioè non più regolata ma continuativa, a cui consegue
una perenne presenza degli effetti del segnale extracellulare anche in sua
assenza. Gli oncogeni di classe IB presiedono alla sintesi dei recettori di
membrana e delle loro componenti. Quelli di classe II codificano per i fattori
di crescita precedentemente citati. Le proteine sintetizzate dagli oncogeni
della classe III sono in grado di legare il GTP (guanosintrifosfato). E' noto
come queste "proteine G" siano necessarie per accoppiare l'attivazione
del recettore con quella dell'adenilatociclasi. La classe IV è deputata alla
produzione delle fosfoproteine nucleari.
Il
secondo tipo di geni tumorali, denominati geni soppressori dei tumori o
antioncogeni, o anche emerogeni (cioè geni nascosti), è stato implicato finora
quasi esclusivamente in tumori solidi. A differenza degli oncogeni, i geni
soppressori contribuiscono alla cancerogenesi attraverso la loro perdita
anziché attraverso fenomeni di attivazione. Il loro comportamento è recessivo,
per cui entrambe le copie del gene devono essere inattivate per consentire la
formazione del tumore. L'inattivazione può avvenire in seguito a vari
meccanismi mutazionali submicroscopici, che sono individuabili a livello del
DNA, come una perdita di eterozigosità costituzionale. In altri casi si hanno
invece alterazioni più grossolane che comportano la perdita di un intero gene,
una regione del cromosoma, o addirittura l'intero cromosoma che contiene il gene
soppressore. Queste delezioni e perdite sono identificabili con tecniche di
citogenetica.
Possono
essere distinte due forme di tumori la cui insorgenza è legata alla perdita di
un gene soppressore. Nella forma familiare una prima alterazione è ereditata da
un genitore affetto geneticamente oppure origina durante la gametogenesi, mentre
la seconda mutazione si realizza dopo la nascita come evento somatico. Questa
situazione è tipica per rare forme di tumori a diatesi familiare, come il
retinoblastoma, il tumore renale di Wilms, la poliposi adenomatosa del colon, la
neurofibromatosi e alcune forme neoplastiche pluriendocrine. Nella forma
sporadica entrambe le lesioni colpiscono i due geni della stessa coppia allelica
dopo la nascita. Il prototipo di queste diverse situazioni è rappresentato dal
gene coinvolto nell'insorgenza del retinoblastoma. E' stato visto infatti come
la perdita di due specifici alleli posti sul braccio lungo del cromosoma 13
(13ql4) provochi l'insorgenza di questa grave forma. Gli individui con diatesi
familiare ereditano uno solo dei due alleli. Sono quindi molto maggiori le
possibilità, rispetto alla situazione diploide, che una mutazione a carico di
questo locus abbia conseguenze fenotipiche. Si spiega così a livello genetico
la frequenza di retinoblastoma familiare (mutazione dell'unico allele presente)
rispetto alla sua sporadicità nella popolazione (mutazione di entrambi gli
alleli).
Oggigiorno
la perdita di geni soppressori è stata documentata, attraverso tecniche di
ibridizzazione cellulare, o di trasferimento di cromosomi, o attraverso la
dimostrazione di una perdita di eterozigosità di un marcatore cromosomico
specifico, in una grande varietà di tumori (tab.03
Un
aspetto di particolare interesse nello studio dei geni implicati in
cancerogenesi è la prospettiva di potere mettere a punto, in un futuro non
immediato, dei mezzi di prevenzione e terapia del cancro. E' già dimostrato che
diversi agenti chemiopreventivi sono capaci di inibire l'attivazione da
proto-oncogeni a oncogeni. La possibilità di reinserimento di geni soppressori
deleti è ben documentata da diversi esperimenti di ibridizzazione di cellule
somatiche, che hanno portato alla conclusione che la fusione di cellule tumorali
con cellule normali genera quasi sistematicamente cellule non tumorali. E' così
realizzabile, impiegando idonee tecniche che sono utilizzate anche per studiare
la localizzazione cromosomica dei geni soppressori, l'inserimento di un gene
soppressore donato da una cellula normale ad una cellula in cui era avvenuta la
delezione, sopprimendo così il fenotipo neoplastico. Una strategia alternativa
consiste nell'inibizione del fenotipo neoplastico in seguito all'introduzione
nella cellula tumorale della proteina codificata dal gene soppressore mancante
in quella cellula.
E'
noto che i tumori si sviluppano poco frequentemente in tessuti a lenta
replicazione, mentre d'altro canto importanti fattori di rischio cancerogeno
stimolano la divisione cellulare. Questo non significa che quelle cellule che in
condizioni fisiologiche replicano attivamente siano necessariamente più
suscettibili agli agenti cancerogeni, presumibilmente perché le stesse cellule
sono dotate di un apparato difensivo particolarmente efficace. Più pericolosi
sono gli stimoli mitogeni, soprattutto quelli che derivano da fenomeni tossici
letali per le cellule, che portano ad una risposta proliferativa del tessuto
colpito.
Come
già discusso, la replicazione cellulare è una componente della cancerogenesi
di natura epigenetica e della promozione tumorale, legata ad esempio ad agenti
infettivi (virus, batteri, elminti), ormoni, stimoli irritativi, traumi o
situazioni infiammatorie croniche ecc. Tuttavia la proliferazione svolge un
ruolo importante anche nell'iniziazione del cancro conseguente ad eventi
genotossici, perché la riparazione fedele del danno al DNA deve avvenire prima
della divisione cellulare. Le cellule in fase proliferativa non hanno il tempo
per riparare il danno e rimuovere gli addotti al DNA, e sono quindi maggiormente
a rischio per la mutazione. Inoltre la divisione cellulare favorisce certi
eventi genetici, come ricombinazione mitotica, conversione genica e
non-disgiunzione, che sono particolarmente efficaci a convertire all'emizigosità
od omozigosità un gene recessivo, come un gene soppressore dei tumori. Ancora,
la divisione cellulare favorisce l'amplificazione genica e può aumentare
l'espressione di oncogeni, come il myc e il fos.
Da
queste considerazioni è evidente che le misure di vario tipo intese a
contrastare gli stimoli mitogeni sopradescritti e gli agenti chemiopreventivi
che inibiscono la proliferazione cellulare rivestono una particolare importanza
nella prevenzione primaria dei tumori.
Sulla
base delle premesse scientifiche delineate nelle pagine precedenti, è possibile
impostare una strategia generale di prevenzione primaria. La fig.06
Esiste
un complesso di metodologie utilizzabili per l'identificazione dei fattori di
rischio o dei fattori protettivi, così come per la comprensione dei relativi
meccanismi d'azione. Le tecniche disponibili studiano una grande varietà di
parametri nell'uomo, in modelli animali, in sistemi in vitro e in modelli
statistico-matematici.
Le
valutazioni di epidemiologia analitica tengono in dovuto conto la lunga latenza
dei tumori. Oltre a studi di tipo correlazionale, che mettono in relazione
esposizioni su larga scala (consumo di determinati alimenti, vendita di
sigarette ecc.) e morbosità o mortalità per tumori, vengono utilizzati
soprattutto studi di tipo longitudinale, retrospettivi o prospettivi. I primi
sono del tipo caso-controllo e cercano di dirimere anamnesticamente il fattore
di rischio che distingue i malati dai controlli. Nello studio prospettivo invece
i gruppi (coorti) sono differenziati solo dalla presenza o meno dell'esposizione
al fattore di rischio studiato. Dopo molti anni viene valutato il rischio
relativo della coorte esposta, evidenziando l'eventuale significatività
nell'incidenza della malattia rispetto ai soggetti non esposti. Questo tipo di
studio si presta anche ad interventi di epidemiologia sperimentale, i quali
prevedono la possibilità di effettuare un intervento attivo, valutando ad
esempio l'efficacia di eventuali fattori protettivi (clinical trial).
Il
principale vantaggio dell'approccio epidemiologico è quello di fornire dati
direttamente applicabili all'uomo, e pertanto non limitati da problemi di
translabilità interspecie. Le difficoltà d'altro canto sono numerose e
comprendono soprattutto gravi problemi di ordine logistico ed organizzativo.
Sovente è molto difficile discriminare tutti i fattori di rischio interagenti
con l'uomo, mentre è più agevole stabilire l'esistenza di un possibile
rapporto di causa-effetto se il fattore in esame è quantitativamente
preponderante rispetto ai confondenti, cioè quando si realizzino esposizioni a
dosi molto alte, come accade nei forti fumatori, o nei luoghi di lavoro, o in
individui che assumono farmaci per periodi prolungati. La stessa considerazione
vale quando la forma istopatologica conseguente è particolarmente rara. Per
questo motivo, secondo le valutazioni dell'International Agency for Research on
Cancer (IARC), solo alcune decine di agenti chimici o fisici o lavorazioni
industriali sono riconosciute come sicuramente cancerogene per l'uomo.
Oltre
agli studi di epidemiologia analitica, lo sforzo della ricerca in questi ultimi
anni è stato rivolto all'individuazione di marcatori "intermedi", in
grado di stimare l'esposizione ad agenti mutageni e cancerogeni e in alcuni casi
di rivelare un danno precoce, predittivo dell'effetto cancerogeno. Le tecniche
di biomonitoraggio, di cui viene presentata una panoramica nella tab.04
Un
contributo meno diretto ma di vasta portata alla previsione del rischio
cancerogeno per l'uomo, pur se limitato da problemi pratici ed economici, è
apportato dagli studi di cancerogenicità negli animali. Si può infatti
affermare in linea di massima che una sostanza cancerogena per gli animali di
laboratorio ha una buona probabilità di estrinsecare una proprietà analoga
sull'uomo (e viceversa). Un grave inconveniente deriva dal fatto che le
posologie impiegate sono molte elevate, a causa della bassa sensibilità del
test in esame e della necessità di utilizzare un numero non eccessivo di
animali. Sono in genere somministrate dosi vicine a quella massima tollerata
(MTD). E' quindi assai problematico e discutibile estrapolare dati relativi alla
reale situazione umana, che generalmente implica un'esposizione a dosi molto
più basse per periodi più lunghi. A questo si ricollega il dibattito sulla
linearità delle curve dose-risposta, sull'extrapolarità dei risultati da alte
a basse dosi e sull'esistenza o meno di soglie e quindi di livelli di
accettabilità in cancerogenesi. Secondo la nostra opinione, la mancanza di
soglie può essere ipotizzata nel momento in cui un agente fisico o chimico
riesce a danneggiare il DNA, ma nella maggior parte dei casi un meccanismo di
soglia, pur difficilmente quantificabile, è conferito dai processi di
biotrasformazione che si realizzano prima di questo evento e che tendono a
variare i livelli dosimetrici dell'agente penetrato nell'organismo (vedi .fig.05
La
novità più importante nel campo del "risk assessment", che ha
portato nuovo vigore alle ricerche sull'identificazione su larga scala di agenti
potenzialmente cancerogeni e sulla comprensione del loro meccanismo d'azione, è
venuta dall'impiego dei cosiddetti test a breve termine, che si propongono di
evidenziare effetti biologici strettamente correlati con quello cancerogeno,
come quello mutogeno, o più generalmente genotossico, o la trasformazione
cellulare. Più di un centinaio di test a breve termine è stato sviluppato
negli ultimi due decenni. Alcuni dimostrano il danno al DNA nella sua
manifestazione fenotipica, rilevando ad esempio l'insorgenza di fenomeni
mutazionali in procarioti o eucarioti, di fenomeni trasformativi in cellule di
mammifero in vitro, di alterazioni degli attributi somatici di semplici
organismi come la Drosophila melanogaster oppure di vegetali. Altri evidenziano
in maniera diretta mutazioni cromosomiche o il danno a carico dell'acido
nucleico, che può anche essere estratto direttamente dai mammiferi dopo
trattamento in vivo. Ai fini della valutazione del rischio i test a breve
termine sono utilizzati in batterie composite, ciò che tende ad aumentarne la
sensibilità, sovente già di per sé notevole, ma anche inevitabilmente a
diminuirne la specificità .
Infine
in numerosi laboratori, incluso il nostro, sono in corso tentativi di mettere a
punto modelli statistico-matematici desunti dalla dimostrazione di relazioni fra
struttura chimica e attività biologica, ad esempio, tossica, mutagena,
cancerogena o all'opposto protettiva. Il perfezionamento di metodiche di questo
tipo potrà essere di estrema utilità, specie negli studi preliminari per la
messa a punto di nuove molecole di uso farmacologico od industriale.
Alla
fase di valutazione del rischio (risk assessment) fa seguito la fase di gestione
del rischio (risk management) in cui, oltre alle indicazioni di natura
scientifica, peraltro non sempre univoche, entrano in gioco anche considerazioni
di politica socio-sanitaria e di economia sanitaria, con analisi di costi,
rischi e benefici. Per limitare l'esposizione umana a fattori di rischio noti o
sospetti, possono essere messi in opera interventi di natura pedagogica
(educazione sanitaria) oppure coercitiva (disposizioni di legge).
Poiché
oggi la maggior parte dei fattori di rischio implicati in cancerogenesi deriva
dallo stile di vita, una corretta e convincente educazione della popolazione
sembra essere una delle principali misure pratiche per la prevenzione del
cancro. L'educazione sanitaria costituisce la branca applicativa dell'igiene a
cui è deputato questo fondamentale compito. L'individuo va pertanto informato
o, meglio, formato, affinché possa valutare in maniera critica e conscia le
effettive conseguenze della scelta di esporsi a determinati agenti.
Per
i fattori di rischio che derivano dall'ambiente di vita e di lavoro, che
comportano un'esposizione involontaria, è possibile invece intervenire con
regolamenti intesi a controllare le fonti di emissione di agenti nocivi ed a
limitare l'esposizione individuale. Entrambi questi provvedimenti sono stati
largamente utilizzati nel campo dell'igiene industriale in tutti i Paesi
avanzati. In questi ultimi anni vi è stata una maggior sensibilizzazione nei
confronti dell'inquinamento ambientale di origine antropogenica. Anche se il
fenomeno è di difficile controllo, essendo strettamente collegato a certi
benefici della vita moderna che richiedono lo sfruttamento di fonti energetiche,
in molti Paesi, compresa l'Italia, sono in vigore leggi per la tutela delle
matrici ambientali, dal controllo delle derrate alimentari alla protezione del
suolo e delle acque ed alla prevenzione dell'inquinamento atmosferico da
traffico motorizzato industriale, impianti di riscaldamento domestico e di
incenerimento dei rifiuti, fino all'igiene dell'abitazione per il controllo
dell'inquinamento indoor. Molte delle leggi introdotte in Italia in questo
campo, applicate su base nazionale o regionale, seguono le direttive della
Comunità Europea. Altri esempi riguardano il cosiddetto fumo di tabacco
ambientale, la cui restrizione rappresenta un problema di sanità pubblica in
quanto comporta l'esposizione passiva, involontaria e indesiderata dei non
fumatori. Ancora, esistono leggi che regolamentano la registrazione e l'uso di
farmaci, cosmetici e tutti i prodotti di origine industriale che devono essere
sottoposti a prove di tossicità, inclusa la valutazione dell'attività in test
a breve termine ed eventualmente in test di cancerogenesi negli animali.
Negli
ultimi anni la chemioprevenzione è emersa sempre più quale arma di prevenzione
primaria del cancro e possibilmente di altre malattie cronico-degenerative.
L'importanza di questo approccio deriva dal fatto che, per difficoltà sia nella
valutazione sia nel controllo dei fattori di rischio, molte esposizioni ad
agenti nocivi sono inevitabili. Inoltre è sempre più evidente che
l'epidemiologia di queste malattie è in funzione della disseminazione
ambientale sia dei fattori di rischio sia dei fattori protettivi, a volte in
equilibrio fra di loro, per cui è
giustificato il tentativo di sbilanciare l'esposizione umana a favore di questi
ultimi.
Per
prospettare in maniera razionale l'utilizzazione di un agente chemiopreventivo
è necessario non solo documentarne le proprietà antimutagene e
anticancerogene, utilizzando le metodologie precedentemente descritte, ma anche
conoscerne il meccanismo d'azione. La tab.05
Fino
agli inizi degli anni '90 almeno 500 composti sono stati saggiati in vari
sistemi sperimentali per verificarne l'efficacia come agenti chemiopreventivi, e
composti appartenenti ad oltre 25 classi chimiche si sono dimostrati in grado di
esercitare effetti protettivi. Dal punto di vista pratico esistono due
possibilità di applicazione della chemioprevenzione nell'uomo, che tengono
conto della possibile esistenza di effetti collaterali e del fatto che per tutti
gli inibitori l'effetto protettivo è temporaneo, per cui la loro
somministrazione dovrebbe essere continuativa. La prima possibilità consiste
nell'uso di agenti farmacologici di comprovata efficacia preventiva e di
riconosciuta innocuità. Questo tipo di trattamento è per ora indicato solo in
individui a rischio, come fumatori, soggetti esposti ad asbesto, o malati di
cancro operati nei quali si cerca di evitare non solo la ricrescita in situ e le
metastasi del tumore originale ma anche la comparsa di altri tumori primitivi.
Sono stati già completati o sono in fase di svolgimento numerosi trial clinici
di chemioprevenzione dei tumori in decine di migliaia di individui a rischio.
Del gruppo ristretto di agenti chemiopreventivi giunti alla fase di clinical
trial fa parte la N-acetilcisteina (NAC), un noto farmaco mucolitico e
antitossico studiato nel nostro laboratorio per gli effetti antimutageni e
anticancerogeni ed i relativi meccanismi d'azione. Per quanto riguarda invece la
popolazione generale, allo stato attuale non è consigliabile il ricorso
prolungato a farmaci, pur se innocui, se non per quanto attiene l'uso di
prodotti vitaminici e altri integratori della dieta, specie laddove vi siano
carenze dietetiche. E' invece possibile intervenire con misure di educazione
sanitaria riguardanti l'alimentazione, suggerendo una composizione della dieta
ricca di fattori protettivi. D'altronde consigli di questo tipo sono già dati
abitualmente alla popolazione nell'ambito della divulgazione di linee guida per
la prevenzione dei tumori. Pur essendovi già un'enorme massa di ricerche
sull'argomento, è comunque necessario approfondire ulteriormente le basi
scientifiche che giustificano certe misure dietetiche.
Gli
interventi sull'organismo umano devono soddisfare requisiti di costo e
praticità d'uso, ma soprattutto di efficacia e sicurezza. E' evidente che molte
volte è necessario accettare compromessi fra efficacia del risultato e
tollerabilità del trattamento, privilegiando un requisito oppure l'altro a
seconda delle caratteristiche dei soggetti trattati. Così, nell'ambito dei
possibili interventi presentati nella tab.06
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1990.
S. De Flora
Direttore
Istituto di Igiene
e Medicina
Preventiva,
Università di
Genova
A. Izzotti
Istituto di
Igiene
e Medicina
Preventiva,
Università di Genova
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