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ARGOMENTI DI MEDICINA CLINICA

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 Ultimo aggiornamento: 23.12.2013

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FATTORI DI RISCHIO, MECCANISMI PATOGENETICI E PREVENZIONE PRIMARIA DELLE MUTAZIONI E DEL CANCRO

 

  Nell'arco degli ultimi 100 anni lo sviluppo tecnologico e in particolare l'approfondimento delle conoscenze scientifiche in campo medico e biologico hanno messo a disposizione mezzi preventivi e terapeutici di tale efficacia da causare una drastica diminuzione della mortalità generale nella popolazione (dal 30 per mille a meno del 10 per mille), legata soprattutto alla riduzione della mortalità infantile, che ha avuto come conseguenza un raddoppiamento della vita media o speranza di vita alla nascita. Vi è stato uno stravolgimento del quadro epidemiologico delle malattie prevalenti e delle cause di morte, accompagnato da profonde trasformazioni demografiche e sociali. Questi fattori hanno cambiato lo stile di vita ed hanno conferito una nuova dimensione al concetto di salute, che non sottintende più solamente l'assenza di malattia ma coinvolge anche lo stato di benessere e l'aspetto qualitativo della vita.

 

 

CONSIDERAZIONI DI EPIDEMIOLOGIA DESCRITTIVA

 

La fig.01x riporta gli indici di mortalità in Italia, dall'inizio del secolo al 1988, per i 6 principali gruppi di malattie. I dati ISTAT sono desunti dalle certificazioni di morte, non sempre affidabili, ma danno comunque un'idea della "rivoluzione epidemiologica" che ha caratterizzato la nostra epoca. Vi è un grosso incrocio intorno alla metà del secolo, con una vertiginosa caduta della mortalità per malattie infettive e per malattie dell'apparato respiratorio e del digerente (anch'esse sovente di natura infettiva). Tale diminuzione è compensata dall'emergere delle patologie cronico-degenerative e in primo luogo delle malattie cardiocircolatorie e dei tumori, che nel loro complesso sono oggigiorno responsabili di oltre il 70% delle morti in Italia.

Tuttavia, come si osserva nella fig.01x, vi è una situazione evolutiva, con una tendenza ben delineata alla flessione della mortalità per malattie cardiovascolari, che è ancora più accentuata in altri Paesi, come gli USA, dove in 40 anni (1950-1990) la mortalità per malattie cardiache è diminuita del 45%. Per contro, gli indici di mortalità per tumori sono tuttora in ascesa, anche se lo stato attuale delle conoscenze sulla eziopatogenesi delle forme neoplastiche fa sperare in una loro contrazione in un futuro non lontano. A questo proposito sono comunque necessarie alcune puntualizzazioni. La prima è che l'incidenza dei tumori cresce in maniera esponenziale con l'età, a partire dai 25-30 anni in poi, pur con un'espressione matematica del fenomeno che varia a seconda del tipo di tumore. E' chiaro pertanto che il continuo allungamento della vita media comporta automaticamente un aumento dell'incidenza dei tumori. Nell'attuale scenario, non potendosi pretendere dalla Medicina una prescrizione di immortalità, risulta arduo contenere oltre certi limiti quelle forme cronico-degenerative, come i tumori, che sono sì associate in maniera determinante all'azione di fattori esogeni, ma la cui patogenesi è legata alla sregolazione di fini meccanismi biochimici e molecolari più che all'azione di agenti microbici controllabili.

Un'altra considerazione riguarda il fatto che i tumori rappresentano un vasto gruppo di malattie diversificate. Già nel II secolo d.C. Galeno descriveva 61 forme di tumore (in senso lato). L'attuale classificazione internazionale delle malattie (ICD-IX) configura ben 92 categorie e 570 sottocategorie di tumori. Alcune forme hanno un andamento stazionario, altre sono in aumento e altre ancora sono in diminuzione. Per queste ultime, di particolare rilievo è stata la riduzione della mortalità per carcinoma della cervice uterina, legata soprattutto alla prevenzione secondaria (diagnosi precoce), e quella per carcinoma gastrico in entrambi i sessi, che rappresenta un esempio di prevenzione primaria involontaria, riconducibile con ogni probabilità a cambiamenti della dieta avvenuti negli ultimi decenni ed alle differenti modalità di conservazione degli alimenti. Fra i tumori in maggior aumento spicca il cancro polmonare, con una curva in ascesa che ha incrociato quella in discesa del carcinoma gastrico intorno al 1950 negli USA e 15 anni più tardi in Italia. L'escalation del cancro polmonare non può essere motivo di disappunto, perché le cause di questo tipo di tumore sono largamente note (all'85% il fumo di tabacco) e quindi in teoria sarebbe realizzabile una valida prevenzione primaria. La controprova viene dal contenimento della mortalità specifica in quei gruppi di popolazione sensibilizzati dalle campagne antifumo, come i medici inglesi e, su vasta scala, la popolazione maschile di razza bianca degli USA. In queste valutazioni va tenuto conto che l'effetto benefico si può manifestare solo a distanza di molti anni, essendo la latenza del cancro polmonare causato dal fumo di sigaretta dell'ordine dei 25-30 anni.

 

 

STRATEGIE DI INTERVENTO CONTRO I TUMORI

 

Le strategie di lotta contro i tumori vanno pertanto diversificate in rapporto allo stato delle conoscenze ed alle attuali capacità tecniche di controllo. La fig.02x presenta possibili strategie di intervento in relazione alle caratteristiche del processo a più stadi della cancerogenesi, che saranno discusse più avanti, ed alle modalità di crescita della massa neoplastica. Considerando che la massa è di origine monoclonale, saranno necessarie 30 divisioni mitotiche perché, partendo da una sola cellula, si arrivi ad un miliardo di cellule. Una massa cellulare di tale entità si aggira, con larga approssimazione e variabilità, su valori ponderali di 1 g. E' normalmente in questa fase che, in rapporto all'accessibilità del tessuto colpito ed ai mezzi diagnostici disponibili, può venire impostata la prevenzione secondaria, che si identifica con la diagnosi precoce e il conseguente intervento tempestivo.

Sono sufficienti soltanto 3,25 ulteriori divisioni perché le cellule raggiungano il numero di 10 miliardi, con una massa neoplastica di circa 10 g. In questo stadio, più facilmente diagnosticabile, l'intervento di elezione è affidato alla terapia medica, chirurgica o radiante che sia. Questa è di norma seguita da interventi di prevenzione terziaria volti ad evitare la ricrescita, in situ o a distanza, di eventuali cloni superstiti. Se l'intervento della medicina curativa viene a mancare, la crescita essendo oramai nella parte più avanzata della curva esponenziale, diventa tumultuosa. In soli altri 6,75 raddoppiamenti si arriva a oltre 1000 miliardi di cellule, pari a circa 1 kg di peso. Tale situazione è in genere incompatibile con la vita. Queste caratteristiche di crescita giustificano le difficoltà di controllo terapeutico del cancro allorquando la malattia diventa clinicamente manifesta e rendono conto dell'importanza della prevenzione secondaria. Tuttavia l'obiettivo più ambizioso è rappresentato dalla prevenzione primaria. Già dall'osservazione della fig.02x è evidente che l'approccio più ovvio è quello di evitare per quanto possibile l'esposizione a fattori di rischio noti, derivanti dall'ambiente e dallo stile di vita. Tuttavia è anche chiaro, come sarà discusso in dettaglio più avanti, che esiste la possibilità di rendere l'organismo più resistente all'azione dei fattori di rischio, nei lunghi anni di latenza della malattia, durante i quali esso è bersagliato, spesso involontariamente ed inevitabilmente, da altri agenti nocivi.

MUTAZIONI, TUMORI E ALTRE MALATTIE CRONICO-DEGENERATIVE

 

Buona parte della presente trattazione è dedicata alla patologia neoplastica. Come si discuterà a proposito di iniziazione del cancro e degli eventi genetici multipli coinvolti nel processo della cancerogenesi, le mutazioni svolgono un ruolo cruciale nella patogenesi dei tumori, anche se la complessità dei fenomeni che saranno descritti nelle prossime pagine sottintende il contributo di altri meccanismi essenziali. Va tuttavia sottolineato che, seppure in via di ipotesi in attesa di consolidamento, mutazioni a carico delle cellule somatiche dell'organismo potrebbero essere associate anche ad altre malattie cronico-degenerative. Le ricerche svolte nel nostro laboratorio dimostrano ad esempio che la reazione di agenti genotossici con il DNA in animali esposti al fumo di sigaretta avviene non solo in tipici organi bersaglio dell'effetto cancerogeno, come i polmoni, ma anche in altri organi (come il cuore) per i quali si può prospettare un'associazione con altre forme degenerative (come le cardiomiopatie).

Di particolare interesse è la possibile relazione tra mutazioni a carico di cellule muscolari lisce delle arterie e genesi delle placche aterosclerotiche, o almeno di una parte di esse, che è confortata da diverse linee di evidenza. Fra queste, la dimostrazione dell'origine monoclonale di una quota rilevante delle placche nell'uomo e la documentata capacità del loro DNA di trasformare cellule di mammifero, che a loro volta provocano l'insorgenza di tumori in animali suscettibili (topi nudi), così come farebbe il DNA di cellule tumorali. E' d'altronde una nozione comune, desunta sia dagli studi epidemiologici sia dalla sperimentazione negli animali, che alcuni fattori di rischio (fumo di sigaretta, componenti della dieta, radiazioni ionizzanti ecc.) possano essere contemporaneamente associati con effetti cancerogeni e aterogeni nello stesso organismo. Un'altra importante associazione delle mutazioni in cellule somatiche è quella con i fenomeni di invecchiamento cellulare e con situazioni patologiche dell'età avanzata. Sono stati chiamati in causa soprattutto i meccanismi di tipo ossidativo ed il loro equilibrio con i sistemi di difesa dell'organismo.

Altre conseguenze patologiche derivano, come è ovvio, dalle mutazioni a carico delle cellule germinali, che potranno portare alla morte il prodotto di concepimento (caratteri dominanti letali) o causare difetti genetici espressi fenotipicamente nella prima generazione (caratteri dominanti non letali) o nelle generazioni successive (caratteri recessivi).

Sulla base di questi presupposti, è evidente che alcune delle considerazioni riguardanti fattori di rischio, meccanismi patogenetici e approcci di prevenzione primaria dei tumori possono essere estese ad altri tipi di patologie associate con mutazioni.

 

 

Fattori di rischio mutageno e cancerogeno

 

Diverse motivazioni, in parte già discusse, giustificano il divergente andamento epidemiologico delle malattie infettive e delle forme cronico-degenerative, soprattutto quali cause di morte. Alla radice vi sono le profonde differenze nell'eziopatogenesi di questi stati morbosi, che si traducono in diverse possibilità di controllo.

Infatti nella patologia infettiva vi è un rapporto causale biunivoco con un agente eziologico, nel quale il microrganismo rappresenta una causa necessaria, anche se il più delle volte non sufficiente nel determinismo della malattia. Proprio grazie alle grandi scoperte dell'era microbiologica, iniziata poco più di 100 anni or sono, il dualismo uomo-ambiente (diade di Ippocrate) si è trasformato in una triade (uomo-ambiente-agente eziologico). Agendo su tutte e tre le componenti di questa triade è stato possibile giungere al controllo preventivo e terapeutico delle malattie infettive, pur entro limiti ben noti e con importanti problematiche, sia tradizionali sia emergenti.

Anche se perfino nel settore della patologia infettiva il principio della causalità tende ad essere sostituito da quello della probabilità, quest'ultimo è emblematico della patologia cronico-degenerativa, per cui vige il modello della multifattorialità. Al singolo agente eziologico si sostituisce una rete di fattori di rischio, spesso interagenti fra di loro, ognuno dei quali non rappresenta una causa né necessaria né tantomeno sufficiente per l'insorgenza di una malattia. In altre parole, ogni fattore di rischio può essere collegato con varie malattie, e ogni malattia è associata con diversi fattori di rischio. La conseguenza ovvia è che l'eliminazione di un singolo fattore di rischio può, a seconda della sua importanza, avere come risultato la diminuzione più o meno marcata di diversi stati morbosi, ma non è possibile prospettarne un'eliminazione completa (eradicazione) così come è successo per diverse forme infettive in certe zone geografiche o addirittura su scala mondiale (vaiolo).

Il concetto di rischio e la mancanza di un automatismo causa-effetto derivano dal fatto che l'organismo ospite possiede dei formidabili mezzi di difesa, che limitano i danni che potrebbero potenzialmente conseguire alle frequenti e ripetute esposizioni a fattori di rischio. Il fenomeno epidemiologico dell'iceberg, che è stato configurato per esprimere l'elevato rapporto tra portatori sani e malati per molte patologie infettive, è esaltato nel caso della patologia cronicodegenerativa. Come illustrato simbolicamente nella fig.03x, nonostante i drammatici indici di morbosità e mortalità per cancro nella popolazione, in termini relativi la malattia conclamata (parte emersa dell'iceberg) costituisce un evento piuttosto raro se rapportato alla frequenza di esposizione ad agenti cancerogeni derivanti dall'ambiente e dallo stile di vita. La malattia rappresenta il bersaglio della terapia, attuata dopo una diagnosi la più precoce possibile. E' quindi evidente che la terapia costituisce un intervento manifesto indirizzato ad un singolo paziente, che deve essere eseguito anche a spese di notevoli effetti collaterali ed i cui risultati possono essere apprezzati anche su scala individuale. Per contro la prevenzione primaria, indirizzata ad una popolazione di individui sani, comporta un'azione sommersa che non deve causare effetti collaterali e che può essere apprezzata solo su scala epidemiologica.

La parte sommersa raffigura gli stadi preclinici e le interazioni fra fattori di rischio e meccanismi di difesa dell'organismo, che si susseguono nella sequenza di tappe patogenetiche della malattia. Vi sono due importanti caratteristiche di tali processi difensivi che saranno sviluppate più avanti. La prima è che vi sono differenze qualitative e quantitative non solo fra specie animali diverse ma anche nell'ambito della stessa specie, ad esempio nell'ambito della popolazione umana, che spiegano la variabilità della risposta individuale anche a parità di livelli espositivi. La seconda caratteristica è che in principio tutte le interazioni possono essere modulate con intervento esogeno, ciò che dischiude la prospettiva ad interventi di chemioprevenzione mirati a proteggere l'organismo ospite.

 

IMPATTO DEI FATTORI DI RISCHIO NELLA POPOLAZIONE

 

Pur con notevoli difficoltà e approssimazioni, sono stati fatti alcuni tentativi di quantificare globalmente il rischio cancerogeno per l'uomo. La fig.04x propone tre esempi molto noti in letteratura, che si riferiscono ai rischi attribuibili in percentuale alla popolazione (RAPP)  per quanto riguarda i casi di malattia o di morte per cancro. I valori attribuiti ai vari fattori di rischio sono abbastanza simili, pur con differenze che riflettono valutazioni personali e, per quanto riguarda i casi e i morti, il diverso grado di letalità delle forme di cancro attribuibili ai fattori di rischio. Nel complesso, emerge in maniera netta l'impatto preponderante dei fattori legati allo stile di vita e alle abitudini voluttuarie, quali la dieta, il fumo di tabacco e la sua associazione con l'alcool. Molto importanti appaiono anche i fattori fisici ambientali, e soprattutto le radiazioni ultraviolette contenute nella luce solare. Più modesta è invece la quota attribuita ai fattori occupazionali ed ai farmaci.

La tab.01ax, tab.01bx propone un tentativo di elencazione di possibili fattori di rischio per tumori a varia localizzazione. Per dare un'idea della dimensione epidemiologica dei diversi tumori e dei corrispondenti fattori di rischio, vengono anche ricordati i dati di mortalità in Italia nei due sessi. Alcuni fattori di rischio indicati, raggruppati per categorie, saranno commentati nelle prossime pagine.

 

 

FATTORI ORMONALI

 

Fattori ormonali sono implicati, specie nella fase di promozione, in una proporzione notevole dei tumori umani, in particolare in quei tessuti il cui grado di proliferazione è sotto il controllo ormonale. Ad esempio il cancro endometriale è messo in relazione ad una esposizione cumulativa ad estrogeni in assenza di progestinici, mentre il cancro della mammella, pur essendo anch'esso associato con l'esposizione ad estrogeni, risente dell'azione potenziante del progesterone. La risposta proliferativa delle cellule mammarie agli estrogeni è infatti ulteriormente aumentata in presenza di progesterone. Questo spiega l'importanza attribuita al menarca precoce ed alla menopausa tardiva quali fattori di rischio per il cancro della mammella (il rischio diminuisce del 10-20% per ogni anno di ritardo del menarca). Il cancro ovarico è messo in relazione alle complesse variazioni ormonali che si verificano durante l'ovulazione. Vi è qualche indicazione che il cancro della prostata sia associato con l'esposizione cumulativa al testosterone od al suo metabolita diidrotestosterone, forse in combinazione con estrogeni. Vi è anche qualche sospetto che l'esposizione prenatale ad estrogeni esogeni od endogeni rappresenti un fattore di rischio per i tumori a cellule germinali del testicolo e dell'ovaio.

E' interessante rilevare che un modesto esercizio fisico, oltre ad essere associato con un diminuito rischio di cancro del colon, soprattutto in quanto favorisce la motilità intestinale, può ritardare il menarca e l'inizio di cicli ovulatori regolari, con un importante effetto protettivo sui tumori della mammella e forse dell'endometrio. Pertanto la prevenzione dell'obesità ed una moderata attività fisica nell'infanzia andrebbero incoraggiate. Per quanto riguarda i contraccettivi orali, gli effetti dipendono dalla composizione e dal dosaggio. In linea di massima si può affermare che, peraltro non frequentemente, essi potrebbero aumentare nelle giovani donne il rischio di tumori epatici, mentre possono ridurre il rischio di tumori endometriali ed ovarici.

 

 

FATTORI TRAUMATICI

 

Anche i fattori traumatici possono avere una certa rilevanza nella promozione dei tumori, soprattutto a causa della proliferazione cellulare che fa seguito al danno ripetuto ed alla irritazione cellulare. Si possono ricordare le associazioni fra traumi cranici e meningiomi, fra esistenza di calcoli biliari e cancro della colecisti, o fra presenza di fibre di asbesto nel mesotelio e mesotelioma.

 

 

INFEZIONI ED INFESTAZIONI

 

Come si discuterà più avanti, tutte le situazioni flogistiche croniche possono innescare meccanismi alla promozione dei tumori. Un ruolo specifico è stato attribuito, in alcune zone geografiche endemiche, ad infestazioni da Trematodi, come lo Schistosoma haematobium per il carcinoma vescicale, o l'Opistorchis viverrini ed il Clonorchis sinensis per i tumori delle vie biliari. Recentemente è stata sospettata anche la responsabilità di infezioni batteriche specifiche, ad esempio quella da Helicobacter pilori per il carcinoma gastrico, presumibilmente a causa della risposta proliferativa che segue al processo gastritico cronico.

Le infezioni più importanti in cancerogenesi sono, come è noto, quelle legate ai virus oncogeni, per le quali si faranno solo alcune considerazioni sintetiche e limitate alla patologia umana. A parte alcuni virus per i quali il ruolo in cancerogenesi umana è ancora scarsamente documentato, come i virus del polioma (BK, JC e LPV), poxvirus (mollusco contagioso) e adenovirus (in particolare i tipi 12 e 18), indicazioni epidemiologiche più convincenti sono disponibili per altri virus, sia a DNA sia a RNA. Tuttavia vi è l'opinione che nessuna di queste infezioni virali sia di per sé sufficiente ad indurre il cancro, ma che siano necessari meccanismi aggiuntivi, fra cui possibili interazioni con agenti fisici e chimici.

Fra i virus oncogeni a RNA (retroviridae), l'HTLV-1 è stato riconosciuto responsabile della leucemia-linfoma a cellule T dell'adulto (ATLL), prevalente in alcune aree geografiche di Giappone, Caraibi ed Africa centrale. Il riconoscimento dell'associazione fra HTLV-1 e ATLL ha portato un notevole contributo all'oncologia da retrovirus - noti da tempo come agenti responsabili di leucemie e sarcomi praticamente in tutte le specie animali ad eccezione dell'uomo - ed ha spianato la strada alla scoperta di altri retrovirus patogeni per l'uomo, come l'HTLV-II e l'HIV. Quest'ultimo è associato con il sarcoma di Kaposi ed altri tumori, presumibilmente a causa dell'immunodepressione. Un altro virus a RNA probabilmente implicato in cancerogenesi umana e il virus dell'epatite C (HCV), forse inquadrabile fra i flavivirus, che causa cronicizzazione dell'epatite con frequenza ancora più elevata rispetto al virus dell'epatite B (HBV) e che potrebbe essere associato con l'insorgenza del carcinoma epatocellulare primitivo.

Un ruolo nella patogenesi di tumori maligni umani viene attribuito a tre famiglie di virus a DNA, e cioè hepadnaviridae, herpesviridae e papovaviridae. Fra questi ultimi, particolare interesse hanno i virus del papilloma umano (HPV), di cui sono stati isolati più di 60 genotipi patogeni per l'uomo. Alcuni sierotipi (soprattutto il 16 e il 18) sono associati con cancro cervicale, vulvare, penieno, perianale e anale; altri (sierotipi 6 e 11) con il carcinoma verrucoso della vulva e del pene e con i tumori di Buschke e Lowenstein; altri ancora (sierotipi 5, 8, 14, 17 e 20) con carcinomi cutanei, in genere in sedi esposte al sole (esempio di interazione fra infezione virale ed agenti fisici) e in pazienti affetti da una rara malattia ereditaria (epidermodysplasia verruciformis). L'effetto dell'HPV sembra essere legato all'azione di oncogeni virali ed al possibile legame delle oncoproteine con geni soppressori implicati nella regolazione del ciclo cellulare, di cui sarà discusso più avanti. Fra le herpesviridae, il virus dell'herpes simplex di tipo 2 (genitalis) è stato messo da molto tempo in relazione, seppure in maniera non conclusiva, con il cancro anogenitale e soprattutto con il carcinoma della cervice uterina. Meglio documentata, anche nei suoi meccanismi (v. il paragrafo sugli oncogeni) è l'associazione fra virus di Epstein-Barr - responsabile nelle nostre zone geografiche della mononucleosi infettiva - e la forma africana di linfoma di Burkitt ed il carcinoma nasofaringeo. Più incerto è il ruolo dell'EBV nel linfoma di Hodgkin in cui una forma clonale di DNA virale è individuabile nel 40% dei pazienti nelle cellule di Reed-Sternberg specifiche per l'Hodgkin e in forme di linfomi a cellule B in individui immunodepressi, soprattutto in trapiantati renali o in corso di AIDS. Numerose e ben fondate linee di evidenza dimostrano che l'infezione cronica da virus dell'epatite B (HBV) rappresenta il principale fattore di rischio per il carcinoma epatocellulare primitivo. Simili associazioni esistono per altre hepadnaviridae patogene per animali, e soprattutto per il virus dell'epatite del woodchuck o Marmota monax (WHV). L'integrazione e la persistenza del DNA di questi virus nel genoma dell'epatocita è critica per il processo della cancerogenesi ma non è ritenuta sufficiente. Sicuramente è importante la rigenerazione epatica postcirrotica, che favorisce l'accumulo di eventi mutazionali ed ha un effetto promuovente. Tuttavia lo stadio della cirrosi non è una tappa costante nell'epatocancerogenesi da HBV e non esiste in quella da WHV. E' probabile un'associazione fra infezione virale ed agenti chimici. Le ricerche svolte nel nostro laboratorio hanno dimostrato che nell'infezione sia da HBV sia da WHV vi è un'esaltata attivazione metabolica ed una diminuzione dei meccanismi di difesa nei confronti di epatocancerogeni chimici, soprattutto di pirolisati di amminoacidi che si formano durante la cottura degli alimenti.

 

Nel complesso, come si può desumere dalla fig.04x, si ritiene che i virus oncogeni siano implicati solo in una minoranza (inferiore al 10-15%) dei tumori umani. In valori assoluti si tratta tuttavia di un apporto molto consistente all'epidemiologia dei tumori. Un aspetto particolarmente stimolante è che per uno dei principali virus citati, l'HBV, è disponibile un efficiente vaccino specifico. La profilassi immunitaria nei neonati figli di portatrici del virus, che costituiscono la categoria a maggior rischio, e la vaccinazione di massa della popolazione infantile contro l'HBV, che è stata resa obbligatoria in Italia agli inizi degli anni '90, rappresentano l'esempio storico di come mezzi di prevenzione di un'importante malattia infettiva come l'epatite B potranno contribuire ad evitare molti casi di carcinoma epatocellulare primitivo.

 

 

FATTORI FISICI E CHIMICI DI ORIGINE AMBIENTALE

 

La maggior parte dei tumori e di altre malattie associate con mutazioni viene ricondotta a fattori ambientali, intendendo per ambiente in senso lato non solo l'ambiente fisico di vita e di lavoro ma anche lo stile di vita, cioè tutto ciò che, non essendo predeterminato geneticamente, è di origine esogena. Il ruolo dei fattori ambientali è comprovato da diverse constatazioni epidemiologiche, quali:

1) la prevalenza di tipi diversi di tumori in zone geografiche diverse, come è evidente non solo dal confronto di aree lontane geograficamente e culturalmente, ma anche dalla mappatura dei tumori nelle varie province dei Paesi della Comunità Europea;

2) la diversa prevalenza dei tumori in gruppi di popolazione caratterizzati, per motivi etnici o religiosi, da diverse abitudini di vita;

3) il fatto che le popolazioni migranti tendano ad acquisire, più o meno rapidamente (1-3 generazioni), i tipi di tumore caratteristici del Paese di immigrazione;

4 ) le variazioni cronologiche nell'incidenza dei tumori come conseguenza di modificazioni ambientali e delle abitudini di vita (ad esempio, variazioni della dieta e della conservazione degli alimenti per il carcinoma gastrico, o aumento del consumo di sigarette per il cancro polmonare);

5) la controprova epidemiologica che documenta una diminuzione del rischio in seguito a rimozione dei fattori sospetti (ad esempio, la flessione dei tumori occupazionali conseguente ai progressi dell'igiene industriale, o la riduzione del cancro polmonare in gruppi di popolazione sensibilizzati dalle campagne antifumo). Le stesse argomentazioni possono essere portate, in senso inverso, per dimostrare l'importanza epidemiologica dei fattori protettivi di origine ambientale. Per quanto alcuni dei fattori di rischio già discussi risentano dell'influenza ambientale - come la diversa distribuzione geografica di virus oncogeni e altri agenti patogeni e le conseguenze dell'alimentazione sullo stato ormonale - in genere i fattori ambientali sono ricondotti ad agenti fisici e chimici.

Fra gli agenti fisici, oltre agli effetti locali delle elevate temperature, che saranno discussi a proposito di promozione dei tumori, si fa soprattutto riferimento a vari tipi di radiazioni. Vi è un'ampia documentazione epidemiologica sulla cancerogenicità dei raggi X, desunta soprattutto dall'uso di queste radiazioni ionizzanti nella ricerca medica e in radiologia in epoca pionieristica, e dei raggi gamma, di cui le esplosioni atomiche di Hiroshima e Nagasaki hanno dato testimonianza. L'uso non controllato dell'energia nucleare può portare alla disseminazione ambientale di isotopi alfa, beta o gamma emittenti, che si inseriscono nel ciclo naturale del corrispondente isotopo non radioattivo o di omologhi chimici. Ad esempio lo 131I viene captato dalla tiroide; lo 90Sr, omologo del Ca, si localizza principalmente nel tessuto osseo; il 137Cs, omologo del K, si distribuisce in sede intracellulare. Esiste anche un problema di radioattività naturale, legata soprattutto alla ricchezza nel sottosuolo di gas radon (222Rn) derivato dall'uranio, di cui sono ben noti gli effetti cancerogeni in minatori e per il quale esistono forti sospetti quale cancerogeno polmonare anche in certe abitazioni in cui le concentrazioni di questo radioisotopo e dei suoi prodotti di decadimento nell'aria sono elevate. Questo può dipendere dalle caratteristiche del sottosuolo, dal materiale da costruzione e dalla scarsa ventilazione degli edifici moderni. Un altro isotopo radioattivo, il polonio (210Po), derivato dal 210Pb e questo a sua volta dal 222Rn che si deposita sulle foglie di tabacco, è responsabile del 99% dell'attività alfa presente nel fumo di sigaretta.

Un altro tipo di radiazione rilevante in cancerogenesi è rappresentato dai raggi ultravioletti (UV) di varia lunghezza d'onda: UV-A (320-400 nm), UV-B (280-320 nm) e UV-C (200-280 nm). Per quanto tutti gli UV-C e la maggior parte degli UV-B emessi dal sole siano bloccati dalla fascia di ozono, si ritiene che la luce del sole porti un importante contributo all'epidemiologia dei tumori umani (v. fig.04x), anche se alcuni aspetti sono tuttora controversi. Le ricerche svolte nel nostro laboratorio hanno dimostrato che certi sistemi moderni di illuminazione, come le lampade alogene di quarzo non schermato, emettono raggi UV lontani dal visibile ed esercitano potenti effetti genotossici in vitro e cancerogeni per la cute degli animali esposti. Al riguardo di altre radiazioni o agenti fisici, come ultrasuoni, microonde, campi magnetici e campi elettrici, che non danneggiano il DNA, l'opinione prevalente è che, alle intensità comunemente impiegate nella vita quotidiana (impianti elettrici, elettrodomestici, schermi televisivi, computer ecc.), non dovrebbero sussistere apprezzabili rischi cancerogeni per l'uomo.

Per quanto riguarda gli agenti chimici, è in corso un acceso dibattito sul contributo relativo di composti naturali e di quelli artificiali. Da un lato vi è preoccupazione per la continua sintesi di molocole (quasi 1000 composti di sintesi entrano quotidianamente nel Chemical Abstract Service dell'American Chemical Society) e per la valutazione, fatta congiuntamente da FDA (Food and Drug Administration) ed EPA (Environmental Protection Agency), che l'uomo potrebbe essere esposto a 63.000 molecole artificiali. Altre opinioni, anche autorevoli, minimizzano la reale importanza dell'inquinamento antropogenico ed enfatizzano la presenza di "pesticidi naturali", cui Bruce Ames attribuisce un contributo superiore addirittura di 10.000 volte rispetto ai "pesticidi artificiali". Questi cancerogeni naturali sono presenti soprattutto nei vegetali, essendo elaborati dalle piante come mezzi di difesa nei confronti degli insetti e dei parassiti. Va comunque rilevato che i pesticidi, sia naturali sia artificiali, vanno a far parte di miscele complesse, che ne possono mascherare l'effetto, e che i vegetali sono particolarmente ricchi di antiossidanti e di altri fattori protettivi.

In questo scenario piuttosto incerto sembra emergere la considerazione che, pur non trascurando fattori di rischio limitati a determinati gruppi di popolazione (come certi farmaci ed esposizioni occupazionali) né quelli che potrebbero effettivamente derivare da fenomeni di inquinamento ambientale di origine antropogenica, gli sforzi maggiori dovrebbero essere concentrati nel controllo dei fattori di rischio epidemiologicamente più rilevanti. Fra questi, come si rileva  chiaramente nella fig.04x,  spiccano le abitudini voluttuarie e soprattutto, almeno nelle nostre zone geografiche, il fumo di tabacco e la sua associazione con alcool, e fattori legati alla dieta ed agli alimenti.

 

E' fuori di dubbio che il fumo di tabacco rappresenta la principale causa di morte evitabile nei Paesi occidentali, essendo ritenuto responsabile del 25% delle morti per malattie cardiovascolari e del 30% dei morti per tumori (fig.04x). Il fumo attivo è chiamato in causa nell'85% dei tumori polmonari ma anche, come si evince dalla tab.01ax, tab.01bx, in tumori di diverse altre sedi, per alcune delle quali esiste un sinergismo con l'assunzione di alcool. Anche per il fumo passivo la maggior parte delle ricerche epidemiologiche documenta un rischio cancerogeno, che è significativo per l'apparato respiratorio. La cancerogenicità del fumo di sigaretta è legata ad un cocktail di oltre 3800 prodotti di combustione finora identificati, che includono, come si discuterà in seguito, sia iniziatori sia promotori, con una componente irritativa cronica che si accompagna alla generazione di specie reattive dell'ossigeno. Per quanto esista una relazione tra numero di sigarette fumate e rischio relativo, vi è una notevole variabilità individuale nella suscettibilità alle componenti cancerogene del fumo di sigaretta, che è documentata anche dalle nostre ricerche sul metabolismo di agenti mutageni in campioni di cellule e tessuti umani (macrofagi alveolari, albero bronchiale e parenchima periferico polmonare) e sulla formazione di addotti cancerogeno-DNA nei macrofagi alveolari di fumatori.

Più complessa e articolata è la valutazione del ruolo della dieta, anche perché diverse sue componenti possono modulare la cancerogenesi sia positivamente sia negativamente. L'apporto calorico ed il contenuto in proteine e in lipidi, specie i acidi grassi saturi, sono importanti nella cancerogenesi del colon, e influenzano lo stato ormonale, favorendo così alcune forme di cancro, tipicamente il carcinoma mammario e forse il carcinoma prostatico. Questi effetti sono contrastati dalla presenza di fibre e di calcio nella dieta. Come si discuterà più avanti, un eccesso di normali componenti, come il cloruro di sodio, porta ad uno stimolo irritativo cronico che promuove il carcinoma gastrico. Alcune derrate alimentari possono essere contaminate da micotossine cancerogene, come le aflatossine. Un rischio potrebbe venire dagli additivi alimentari, ma i mezzi di controllo oggigiorno disponibili rendono improbabile questa eventualità. Al contrario, vengono addizionate vitamine e altre molecole antiossidanti che, oltre a favorire la conservazione degli alimenti, esplicano effetti protettivi in cancerogenesi. Un simile ruolo anticancerogeno è svolto da prodotti naturali, presenti soprattutto in vegetali ricchi di vitamine o di altri composti anticancerogeni, come polifenoli, isotiocianati, indoli, ditioltioni ecc. Notevoli progressi sono stati compiuti con un minor ricorso a metodi di conservazione che comportano l'esposizione a cancerogeni, come la salatura e l'affumicatura. Considerazioni a parte merita il nitrito, che può essere naturalmente presente in alimenti e bevande come tale o come nitrato, ridotto poi a nitrito dalla flora batterica orale, oppure essere utilizzato come conservante, in quanto si lega alla mioglobina degli alimenti carnei ed inibisce la produzione di esotossina botulinica. Esauritesi le discussioni sulla cancerogenicità del nitrito stesso, che ne avrebbe automaticamente precluso per legge l'utilizzazione negli USA, resta accertato, anche se difficilmente quantificabile nell'epidemiologia dei tumori umani, il suo ruolo quale precursore di N-nitroso-composti mutageni e cancerogeni, che si formano in seguito alla reazione del nitrito con ammine e ammidi presenti in certi farmaci e alimenti. Questa reazione avviene prevalentemente nell'ambiente aciclo dello stomaco, e può essere inibita da varie miscele complesse e composti, spesso presenti nella dieta, di cui il prototipo è l'aciclo ascorbico (vitamina C). Infine, alcuni dei maggiori rischi legati all'alimentazione derivano dai metodi di preparazione e cottura degli alimenti, soprattutto per quanto riguarda l'abbrustolimento di certe componenti, che porta alla formazione di pirolisati di amminoacidi e di altri composti carboniosi nocivi. Secondo alcune valutazioni, con diete di tipo occidentale si assumerebbero ogni giorno diversi grammi di residui carboniosi.

 

 

Stadi e meccanismi della cancerogenesi

 

Il processo della cancerogenesi si articola tipicamente in tappe successive (fig.02x). Il doppio stadio iniziazione-promozione, che porta allo sviluppo di un tumore benigno, non sembra essere esclusivo del processo neoplastico ma, secondo alcune ipotesi, potrebbe essere implicato nella patogenesi di altre malattie cronico-degenerative, come certe forme di diabete o di arteriosclerosi. Gli stadi successivi, e cioè progressione, invasione e metastasi, conferiscono un carattere di crescente malignità alla massa neoplastica. Va rilevato preliminarmente che la suddivisione in stadi, che può essere riprodotta e studiata nei suoi meccanismi in particolari modelli di cancerogenesi negli animali, è utile da un punto di vista operativo e didattico. Tuttavia si tratta di uno schema flessibile soprattutto perché eventi di natura simile, in particolare modo quelli legati ad alterazioni genetiche multiple che saranno discusse nel prossimo capitolo, si possono ripetere in diversi stadi senza un ordine prestabilito e rigido.

 

 

BIOTRASFORMAZIONI E INIZIAZIONE

 

Il primo stadio della cancerogenesi, che è di breve durata (giorni o settimane), viene denominato iniziazione. Il processo di iniziazione causato da agenti chimici è preceduto da una serie di eventi critici, legati a complessi processi di farmacocinetica e di biotrasformazione tendenti a modificarne la dose attiva ed a condizionarne l'effetto genotossico. Questi fenomeni sono assai importanti nel determinare il tropismo tissutale, la via di penetrazione efficace ed i livelli dosimetrici. Come si può osservare nella fig.05ax, fig.05bx, si distinguono una dose di esposizione (quantità dello xenobiotico ambientale che penetra nell'organismo), una dose farmacologica (quantità che raggiunge il tessuto bersaglio), una dose cellulare (quantità presente nel citoplasma), una dose bersaglio (quantità che riesce ad afferire al nucleo) ed una dose molecolare (quantità del metabolita che interagisce con il DNA formando l'addotto).

Di cruciale importanza è il metabolismo dei mutageni/cancerogeni, che si compie soprattutto nel citoplasma cellulare e che coinvolge fenomeni di bioattivazione e di detossificazione, in genere articolati in una complessa sequenza di vie metaboliche interconnesse con un delicato equilibrio. Da un lato, composti inerti (promutageni/procancerogeni) tendono ad essere attivati a metaboliti intermedi (prossimali) ed infine a metaboliti terminali, che hanno la caratteristica comune di essere idrosolubili e quindi di poter essere escreti più facilmente dall'organismo, ma anche di essere elettrofilici, cioè avidi di elettroni, e quindi di potersi legare con i siti nucleofilici del DNA. D'altro canto, esistono nella cellula altre molocole con proprietà nucleofiliche, come il glutatione ridotto (GSH), capaci di legare e neutralizzare i metaboliti elettrofilici, che allo stesso tempo sono sottoposti all'azione di enzimi detossificanti e coniuganti. Si distinguono reazioni biochimiche di fase I, che comportano la creazione o modificazione di gruppi funzionali della molecola, e quelle di fase II, che comportano il trasferimento di gruppi reattivi o catalizzano la coniugazione con nucleofili. Fra le prime, particolarmente studiate sono le mono-ossigenasi, o ossidasi a funzione mista, dipendenti dai citocromi P450 localizzati nel reticolo endoplasmico (frazioni microsomiali).

 

Tutti questi processi, come accennato in precedenza, variano qualitativamente e quantitativamente non solo fra diverse specie e ceppi animali ma anche nell'ambito della stessa specie, ad esempio nella popolazione umana. Questo è uno dei fattori determinanti nel condizionare la suscettibilità ad agenti nocivi e giustifica la ricerca di parametri biochimici capaci di discriminare individui a rischio nella popolazione (v. anche la tab.04x). Nella maggior parte dei casi i cancerogeni iniziatori sono genotossici, e cioè interagiscono con il DNA producendo mutazioni a carico delle cellule somatiche dell'organismo (teoria somatica del cancro). Si possono distinguere mutazioni cromosomiche, più grossolane, indotte per lo più da cancerogeni potenti, quali radiazioni e sostanze alchilanti, e mutazioni più fini, definite geniche. Le prime comprendono ad esempio fenomeni di poli/aneuploidia e traslocazioni cromosomiche; le seconde soprattutto mutazioni puntiformi delle basi, delezioni, inserzioni, transversioni, slittamenti del modulo di lettura (errori "frameshift"). In tali casi spesso il cancerogeno resta irreversibilmente legato alla base purinica o pirimidinica formando il cosiddetto addotto nudeotidico.

Ai fenomeni lesivi del DNA fanno riscontro i complessi meccanismi biochimici che tendono a ripararne la struttura non appena questa sia alterata. I sistemi di riparazione del DNA, che sono stati studiati soprattutto nei procarioti, sono molteplici. Nel caso di danni di lieve entità alla doppia elica intervengono attività endonucleasiche di riparazione controllate dai geni uvrA, uvrB ed uvrC. Nella stessa situazione l'intervento può anche essere deputato ad enzimi che agiscono ricombinando e riparando il polimero nucleotidico, la cui attività è determinata dai geni recA, recB e recF.

Nel caso che il danno al DNA sia molto consistente, tanto da bloccare ogni possibilità di replicazione e duplicazione del filamento desossiribonucleotidico, interviene il cosiddetto sistema SOS, al cui controllo presiedono i 3 geni denominati umuA, umuC ed umuD. Questi meccanismi di riparazione non sono però perfetti. Soprattutto il sistema SOS, un po' per la difficoltà intrinseca al suo specifico compito, un po' perché agisce spesso in situazioni cruciali in cui se il DNA non riesce ad essere riparato e duplicato la cellula va incontro alla morte, commette errori. Si può quindi affermare che normalmente un danno lieve al DNA è riparato; un danno grave può invece essere letale oppure sottostare all'azione del sistema SOS. Quando tale riparazione avviene in maniera errata ("misrepair"), il danno stesso determina una mutazione, ma la cellula riesce a sopravvivere. La conseguenza può essere in questo caso l'iniziazione di un processo di cancerogenesi.

L'importanza di tali meccanismi di difesa è suffragata dall'esistenza di alcune sindromi ereditarie (quali lo xeroderma pigmentosum, l'anemia di Fanconi, l'ataxia-teleangectasia, la sindrome di Bloom ecc.), in cui vi sono gravi deficienze nelle capacità riparative del DNA, con conseguente vistoso incremento della suscettibilità agli agenti cancerogeni. Ad esempio, l'esposizione alla luce solare di individui affetti da xeroderma pigmentosum comporta un rischio di ammalarsi di cancro cutaneo migliaia di volte superiore a quello di soggetti con normali capacità riparative. Tutti i quadri clinici in questione si esprimono assai raramente allo stato omozigote, mentre la frequenza dei portatori eterozigoti nella popolazione è tutt'altro che trascurabile essendo, ad esempio, circa dell'1% per l'ataxia-teleangectasia, dello 0,2% per la sindrome di Bloom e dello 0,25% per lo xeroderma pigmentosum. Ciò implica la possibilità di individuare soggetti appartenenti a categorie a rischio per la malattia neoplastica e quindi particolarmente adeguati per interventi mirati di prevenzione primaria.

Non tutti gli iniziatori agiscono comunque con meccanismo genotossico. Vi sono infatti degli iniziatori che estrinsecano la propria azione non mediante un danno al DNA, bensì interagendo con qualche altra struttura della cellula. Da qui la denominazione di "epigenetici". Il loro meccanismo d'azione è ancora piuttosto vago, ed è stata avanzata l'ipotesi che essi non siano da classificare tra gli iniziatori quanto piuttosto fra i promotori, il che, fra l'altro, implicherebbe che l'iniziazione sia costantemente la conseguenza di un danno genotossico. La categoria degli iniziatori epigenetici comprende sostanze anche di grande rilevanza epidemiologica, quali l'asbesto, i pesticidi organoclorurati come il diclorodifeniltricloroetano (DDT), la 2, 3, 7, 8-tetraclorodibenzodiossina (TCDD) e il dietilstilbestrolo (DES).

 

 

PROMOZIONE

 

La seconda fase della cancerogenesi, denominata promozione, dura nell'uomo anni o decenni. Mentre un cancerogeno iniziatore induce il cancro con un meccanismo irreversibile, un cancerogeno promotore provoca effetti reversibili e non è di per sé sufficiente a determinare l'insorgenza della neoplasia. E' invece in grado, specie se somministrato a dosi ripetute, di fissare ed amplificare il danno determinato da un iniziatore. L'iniziazione può perciò essere paragonata al negativo di una fotografia e la promozione alla sua stampa. I meccanismi intimi della promozione non sono stati ancora completamente chiariti. Numerosi indizi fanno ritenere che in questa fase vi sia una modulazione dell'espressione genica delle cellule iniziate, determinata da un'azione sui geni regolanti la crescita e la differenziazione cellulare. Altri possibili meccanismi sono l'aumento del numero delle copie dei geni (dimostrato per le specie reattive dell'ossigeno generate dagli esteri del forbolo), l'attivazione delle proteine chinasi endocellulari (enzimi chiave nel processo di trasduzione dei segnali) e l'inibizione delle comunicazioni intercellulari.

In linea generale si può affermare che il promotore agisce inducendo proliferazione cellulare, con conseguente amplificazione dell'elemento trasformato e selezione clonale della cellula iniziata, conferendole un vantaggio replicativo rispetto alle cellule normali. Vista la complessità dei meccanismi in gioco si tende oggi ad attenuare la distinzione tra iniziatori e promotori. E' infatti difficile che un agente abbia esclusivamente attributi univoci in uno dei due sensi; spesso, invece, possiede entrambe le proprietà, con prevalenza dell'una o dell'altra. I cancerogeni che agiscono sia come iniziatori sia come promotori sono detti "completi". La promozione può essere determinata da sostanze chimiche, da stimoli fisici o meccanici e da eventi biologici.

I promotori chimici possono essere caratterizzati da un organotropismo specifico. Così, ad esempio, il TPA (tetradecanoilforbolo acetato), un estere del forbolo, derivato dall'olio di croton, è correlato con l'insorgenza del cancro cutaneo (ma anche con altri tipi di tumore). Il cloruro di sodio può promuovere, se introdotto in quantità eccessive, le neoplasie gastriche (si consiglia di non superare i 5 g/die). La diminuzione dell'uso del sale da cucina come conservante, grazie all'introduzione della conservazione degli alimenti a basse temperature, ha contribuito a decrementare l'incidenza di queste forme in Occidente. La saccarina, spesso usata in sostituzione del glucoso come dolcificante, riconosce invece come bersaglio l'epitelio vescicale. Anche i sali e gli acidi biliari hanno azione promuovente; è soprattutto l'aciclo litocolico ad agire in questo senso nei confronti della mucosa del colon. La sua azione è fortemente limitata dall'introduzione con gli alimenti di polimeri beta-glugosidici indigeribili. Gli estrogeni manifestano invece organotropismo verso la ghiandola mammaria e i barbiturici nei confronti del fegato.

 

Molte componenti del fumo di tabacco hanno azione promuovente per il cancro del polmone. Se l'azione cancerogena dipendesse esclusivamente da iniziatori, l'irreversibilità del danno non comporterebbe alcuna diminuzione del rischio in coloro i quali abbandonano l'abitudine al fumo. Poiché però questo è una miscela complessa sia di iniziatori sia di promotori, il rischio relativo dell'ex-fumatore diminuisce progressivamente, fino a raggiungere lo stesso valore dei non fumatori, secondo alcune ricerche dopo 10-15 anni.

Uno dei promotori fisici di maggiore importanza è il calore. L'introduzione abituale di bevande od alimenti bollenti costituisce un noto fattore di rischio per l'insorgenza del carcinoma esofageo. Altro esempio è quello del cancro della cute dell'addome conseguente all'uso prolungato dei kangri, uno scaldino usato dai pastori del Kashmir. L'importanza dei promotori meccanici è comprovata dall'insorgenza di forme atipiche sulla mucosa labiale dei fumatori di pipa e dalle eventuali fenomenologie leucoplasiche della mucosa in corrispondenza delle sedi di frizione determinata da protesi odontoiatriche non perfettamente conformi alla loro sede anatomica. E' del resto bene immaginabile come un qualsiasi agente meccanico e fisico, anche blandamente necrotizzante, che agisca su epiteli cambiali (o comunque su popolazioni labili o stabili) provochi, per esigenze riparative, un incremento nell'indice di frequenza mitotica perfettamente in linea con i descritti meccanismi della promozione. D'altronde negli studi sperimentali di epatocancerogenesi a più stadi nei roditori la fase promuovente può essere ottenuta con agenti epatotossici, come il tetracloruro di carbonio, ma anche mediante epatectomia parziale, che stimola la rigenerazione delle cellule epatiche.

Fra le cause biologiche di promozione un ruolo di primo piano è svolto dai processi infiammatori. Spesso nelle sedi colpite da flogosi cronica si osservano eventi di rigenerazione atipica metaplastica o neoplastica, imputabili almeno in parte alla produzione di specie reattive dell'ossigeno. Gli elementi leucocitari, che accorrono in seguito al richiamo chemiotattico proprio delle fasi iniziali del processo, sono grandi produttori di molecole di questo tipo. Anche i macrofagi polmonari di soggetti fumatori producono grandi quantità di radicali liberi dell'ossigeno, con una vera e propria "esplosione ossidativa" nel metabolismo della cellula. L'ossigeno molecolare può, avendo due elettroni spaiati con il medesimo "spin" nei due orbitali esterni, acquisire due elettroni che abbiano "spin" opposto. Quando questo accade, la molecola di ossigeno si trasforma in anione superossido (O2-). L'acquisizione eventuale del secondo elettrone porta all'interazione con 2 protoni, disponibili nel mezzo acquoso, con la conseguente formazione di perossido di idrogeno (H2O2). Da questo può generarsi il radicale idrossilico (OH), considerato come il più fortemente reattivo, tanto che la sua vita media è di circa 10 alla -9 secondi ed il suo raggio d'azione non supera 1 nm. La produzione di specie reattive dell'ossigeno può anche avvenire per effetto fotodinamico. La radiazione solare può infatti eccitare uno dei due elettroni spaiati spostandolo ad un livello energetico più elevato, venendosi così a generare ossigeno singoletto (1O2-). Vi è normalmente un equilibrio dinamico con gli specifici sistemi di difesa costituiti sia da sostanze chimiche sia da enzimi, spesso cooperanti. Un esempio è dato dal glutatione (GSH) e dalla GSH transferasi, la quale diminuisce la specificità del legame del tripeptide con il substrato consentendogli così di ridurre molecole nei confronti delle quali avrebbe di per sé affinità bassissima. La presenza di selenio nelle molecole di alcuni isoenzimi di GSH perossidasi giustifica un eventuale impiego di questo elemento chimico in anticancerogenesi. Altri enzimi, quali la catalasi e la mieloperossidasi, sono invece in grado di inattivare il perossido di idrogeno. L'enzima più efficace nel trasformare l'O2- in H2O2 è la superossidodismutasi, anch'essa presente nella cellula sotto forma di diversi isoenzimi. La rottura di questo equilibrio, spesso causata da fenomeni biologici quali l'infiammazione, può avere gravi conseguenze per la cellula. Le specie reattive intervengono infatti a vari livelli del processo di cancerogenesi, dal metabolismo ossidativo di alcuni cancerogeni al danno genotossico e soprattutto all'azione promuovente. Come è noto, l'importanza delle specie reattive dell'ossigeno non è solo ristretta alla cancerogenesi, essendo queste implicate nella patogenesi di diverse malattie cronico-degenerative quali l'enfisema polmonare, la coronaropatia ischemica e l'ictus cerebrale.

 

 

PROGRESSIONE

 

Lo schema iniziazione-promozione-progressione è utile dal punto di vista didattico e operativo, ma è sempre più evidente che la distinzione fra i vari stadi è sfumata, con meccanismi simili che si possono ripetere in diversi momenti del processo della cancerogenesi. Ad esempio, è chiaro che gli effetti a carico del DNA non sono limitati all'iniziazione del cancro, ma alterazioni genetiche di vario tipo, che coinvolgono geni distinti, si possono susseguire in tutti gli stadi della cancerogenesi, inclusi quelli più avanzati che portano alla malignità, all'invasione e alle metastasi. Ne deriva che il cancro può essere considerato come il risultato dell'accumulo di alterazioni genetiche multiple.

Tentativi di caratterizzazione di questa successione di eventi genetici, che comunque non sembra seguire uno schema rigido, sono stati fatti ad esempio per la cancerogenesi del colon, in cui è possibile raccogliere e studiare anche dal punto di vista genetico materiale bioptico rappresentativo dei vari stadi di sviluppo della malattia, a partire dall'iperplasia dell'epitelio e dai polipi adenomatosi a vario stadio di displasia fino al carcinoma, dapprima non invasivo e successivamente invasivo. Per quanto riguarda la progressione di questo tumore, è possibile che l'inattivazione della proteina p53, che sarà discussa più avanti, possa mediare la transizione da adenoma a carcinoma.

Alcune aberrazioni cromosomiche, come riarrangiamenti strutturali del cromosoma 1 o la fusione presso il centromero dei bracci corti del cromosoma 6, appaiono correlate con gli ultimi stadi della cancerogenesi. E' possibile che un gene localizzato nel cromosoma 1 sia importante per l'acquisizione di un potenziale di crescita più aggressivo in vari tipi di tumore.

 

 

INVASIONE E METASTASI

 

L'acquisizione di proprietà invasive e la conseguente disseminazione metastatica delle cellule maligne, il più delle volte attraverso il sistema vascolare, rappresentano le fasi più avanzate del processo di cancerogenesi, che ne rendono estremamente difficile il controllo terapeutico. L'invasione della membrana basale dei vasi sanguigni che, con alcune eccezioni, è impermeabile alle cellule normali, può realizzarsi attraverso una serie di meccanismi sequenziali. Questi comportano il legame delle cellule maligne a componenti della membrana, e in particolare la loro adesione alla laminina, che a sua volta determina la produzione di collagenasi di tipo IV e di attivatore del plasminogeno. L'attivazione della produzione di enzimi proteolitici ha come conseguenza la digestione della matrice extracellulare e la migrazione nel torrente circolatorio in risposta a stimoli chemiotattici o chemiocinetici, forniti da proteine della matrice extracellulare e da loro frammenti proteolitici, da prodotti delle cellule ematiche, da fattori di crescita e anche da fattori autocrini di motilità elaborati dalle cellule tumorali stesse.

 

Le cellule maligne possono così sfuggire dal tumore primitivo, invadere il torrente circolatorio e metastatizzare a distanza, attraversando con un processo inverso la parete dei capillari di altri organi. Questo avviene attraverso una retrazione dell'endotelio, l'adesione alla membrana basale e la sua digestione mediante proteasi. Le cellule metastatiche penetrano cosi nell'organo bersaglio, dove proliferano sotto lo stimolo di fattori di crescita autocrini e paracrini, fino a formare un tumore secondario.

Va rilevato che, oltre alla possibile ricrescita in situ di un tumore primitivo trattato ed alla disseminazione di tumori secondari metastatici, un'altra evenienza non infrequente è la formazione di un secondo tumore primitivo, cioè di una massa neoplastica cresciuta indipendentemente nello stesso organo oppure in sede controlaterale, presumibilmente in seguito alle stesse cause e secondo gli stessi meccanismi dell'altro tumore primitivo, ma con una latenza maggiore.

 

 

Controllo della differenziazione e proliferazione cellulare

 

Il ciclo cellulare si articola in 5 fasi: G1 (pausa 1), G0 (riposo), S (sintesi del DNA e duplicazione dei cromosomi), G2 (pausa 2) e M (mitosi). Il programma di proliferazione e differenziazione cellulare è regolato da una complessa rete di fattori di crescita e fattori inibenti, interconnessi fra di loro mediante una cascata di segnali biochimici che porta all'attivazione o alla repressione di geni con funzioni antagoniste.

 

 

REGOLAZIONE DELLA CRESCITA CELLULARE

 

La scoperta di fattori di crescita o "growth factors" (GF), come quello di nervi (NGF), epidermide (EGF), epatociti (HGF), derivato dalle piastrine (PDGF), cheratinociti (KGF), fibroblasti (FGF) ecc., ha portato all'identificazione di meccanismi che influenzano la crescita di un gran numero di tipi cellulari. Alcuni fattori di crescita inducono solo proliferazione, mentre altri possono anche promuovere la differenziazione delle cellule progenitrici. L'assenza di stimolazione delle cellule da parte di fattori di crescita può anche portare a fenomeni di senescenza cellulare o di morte cellulare programmata o apoptosi. In certe fasi del ciclo cellulare sono necessari fattori di progressione, come l'"insulin-like growth factor" (IGF-1), mentre gli effetti proliferativi dei fattori di crescita sono contrastati da citochine, quali gli interferon, il "transforming growth factor beta" (TGFBeta) e il fattore di necrosi tumorale (TNF).

Negli organismi pluricellulari esistono inoltre meccanismi coordinati di controllo delle interazioni cellulari. Fattori di crescita prodotti da una cellula possono influenzare la proliferazione di altre cellule (stimolazione paracrina). A questo proposito sono di fondamentale importanza le comunicazioni intercellulari, che garantiscono l'integrità architettonica di tessuto normale e permettono il trasferimento da una cellula all'altra di metaboliti (cooperazione metabolica) e di segnali di crescita, sia positivi sia negativi. Così alcune cellule possono favorire la crescita delle cellule vicine attraverso segnali mitogeni, veicolati dai fattori di crescita polipeptidici precedentemente citati. Molte delle proteine codificate da oncogeni cellulari (oncoproteine) attivano costitutivamente quelle vie di segnalazione intracellulare che sono abitualmente usate dalla cellula normale in risposta a fattori di crescita esogeni. Di conseguenza, la cellula che ospita un oncogene acquisisce autonomia di crescita e non dipende più da stimoli mitogeni che provengono dall'ambiente circostante.

D'altro canto, le cellule sono anche in grado di inibire attivamente la crescita delle cellule vicine tramite una serie di molecole che sono ancora poco caratterizzate. Un tipo di segnale negativo mediato da molecole di superficie finora sconosciute è legato alla cosiddetta inibizione da contatto prodotta da cellule normali che formano un monostrato in coltura. Alcune molecole inibenti a basso peso molecolare, inferiore ai 1000 daltons, sono capaci di passare attraverso i canali delle comunicazioni intercellulari. Un ruolo fondamentale è anche svolto da ormoni e da inibitori di crescita macromolecolari, come il TGF-beta, che trasferendosi da una cellula all'altra possono bloccare una crescita esponenziale e trasformarla in un'altra fase del ciclo di crescita, oppure indurre una differenziazione post-mitotica oppure ancora causare senescenza e apoptosi della cellula.

Sono anche critiche le interazioni tra cellule parenchimali e cellule stromali. Ad esempio, la capacità degli ormoni steroidei di stimolare la proliferazione di cellule epiteliali in tessuti suscettibili agli ormoni sessuali, come quelli della mammella e della prostata, sembra essere mediata in parte da effetti ormonali sulle cellule stromali. A loro volta, le cellule stromali possono influenzare le cellule parenchimali, inducendo la produzione di fattori di crescita e/o diminuendo la produzione di citochine inibenti. Meccanismi simili possono entrare in gioco in seguito a traumatismi ripetuti o infezioni croniche, che favoriscono la selezione clonale di cellule geneticamente alterate, in risposta a fattori di crescita con azione paracrina.Pertanto, le cellule stromali influenzano la crescita delle cellule epiteliali normali e possono favorire un ambiente che porta alla proliferazione, invasione, e perfino alle metastasi di cellule epiteliali tumorali. Un'altra caratteristica di malignità è rappresentata dalla neoangiogenesi, che porta alla vascolarizzazione della massa ed al conseguente apporto di sostanze nutritizie alle cellule tumorali. Le cellule stromali possono essere coinvolte anche in questo processo attraverso la produzione di fattori angiogeni.

A livello genetico il programma proliferativo delle cellule normali avviene sotto la regia armonica di cosiddetti protooncogeni, che hanno la funzione di stimolare la crescita in certi momenti del ciclo cellulare, funzione che è controbilanciata da geni cosiddetti soppressori, i quali tendono a inibire la crescita. Le ricerche svolte negli ultimi due decenni hanno dimostrato che la regolazione fisiologica della crescita cellulare viene inficiata quando i proto-oncogeni sono trasformati in oncogeni, attraverso vari meccanismi di attivazione cui si farà cenno tra breve, oppure quando viene a mancare il freno esercitato dai geni soppressori. Come discusso a proposito di progressione dei tumori, entrambi i tipi di alterazione del genoma cellulare sono coinvolti nella sequenza di eventi genetici multipli caratteristica del processo di cancerogenesi.

 

 

ONCOGENI

 

Gli oncogeni sono geni dominanti inseriti nel genoma di cellule (c-onc) o virus (v-onc), capaci di causare trasformazione di cellule di mammifero in coltura. La natura neoplastica delle cellule trasformate può essere confermata dalla loro proprietà di indurre tumori quando sono inoculate in animali, come topi nudi.

E' quindi fondamentale mettere a fuoco i meccanismi attraverso i quali i protooncogeni possono essere trasformati in oncogeni, perdendo così il ruolo di regolatori fisiologici della crescita cellulare. Questi fenomeni sono stati studiati anche in tumori umani, in un terzo dei quali è stato finora possibile dimostrare l'espressione di oncogeni attivati (tab.02x). Un'ulteriore possibilità consiste nella trasduzione da parte di un virus oncogeno di un v-onc in una cellula dell'organismo, che arricchisce quindi il suo genoma del nuovo gene ad attività trasformante.Fra i meccanismi di attivazione degli oncogeni, particolarmente studiati sono stati quelli di amplificazione genica, di traslocazione cromosomica e di mutazione puntiforme.

 

La dinamica dell'amplificazione genica è stata ad esempio determinata per l'oncogene N-myc. La duplicazione di questo gene non avviene con i normali ritmi della via semiconservativa. Si ha infatti la duplicazione di un nuovo gene sul filamento appena costituito. Ciò accade per un numero di volte n su entrambi i filamenti originari portando così ad un'amplificazione del gene pari a 2 x n volte. Tale fenomeno ha anche un riscontro citogenetico, essendo stata rilevata in doni trasformati una maggiore quantità di DNA rispetto alle cellule normali. E' anche possibile l'acquisizione di una o più copie di un cromosoma o braccio di cromosoma, che influenzerà centinaia o migliaia di geni. La trisomia più frequentemente osservata è quella a carico del cromosoma 8 nella sindrome mielodisplastica, malattia mieloproliferativa, leucemia mieloide acuta e leucemia linfoide acuta.

La traslocazione cromosomica reciproca rappresenta un'alterazione citogenetica caratteristica delle leucemie e dei linfomi. Un classico esempio è fornito dalla traslocazione reciproca tra i cromosomi 9 e 22 [t(9;22)] in corso di leucemia mieloide cronica, con conseguente formazione del cromosoma Philadelphia. Un altro esempio è rappresentato dal linfoma di Burkitt, nel cui caso si ha la traslocazione di un protooncogene dal cromosoma 8 al 14 [t(8;14)]. La traslocazione può avere due conseguenze dal punto di vista molecolare. La prima, caratteristica della t(9;22), consiste in una fusione dei geni, che dà luogo ad una oncoproteina chimerica, la cui capacità trasformante deriva da entrambi i geni. La seconda conseguenza comporta una depressione di oncogeni in seguito alla loro giustapposizione a sequenze di "enhancers" o promotori attivi nel tipo cellulare da cui origina il tumore, come gli "enhancers" delle catene pesanti o delle catene leggere delle immunoglobuline.

Le mutazioni geniche o puntiformi coinvolgono una sola o poche basi nucleotidiche. In seguito a transizione o transversione una base può venire sostituita con un'altra, con conseguente alterazione di una sola tripletta. La conseguenza fenotipica di un simile evento non è univoca. Se risulta un "nonsense", cioè una tripletta non contemplata dal codice genetico, si ha un'interruzione della trascrizione con formazione di una proteina incompleta. Più frequentemente si ha un "missense", cioè il cambiamento della tripletta in un'altra corrispondente ad un amminoacido diverso. Tanto più questo è differente da quello originario, tanto più grave è l'alterazione indotta nel protide sintetizzato. I fenomeni di inserzione o di delezione sono assai più dannosi, poiché determinano uno spostamento globale di tutto il modulo di lettura, con conseguente "missense" non solo della tripletta colpita, ma anche di tutte quelle che ad essa fanno seguito. Anche queste minime alterazioni puntiformi del DNA possono essere di per sé sufficienti ad attivare l'oncogene, come dimostrato sperimentalmente per l'oncogene H-ras-1, che può essere attivato in seguito a mutazioni puntiformi in roditori trattati con cancerogeni chimici.

Gli oncogeni esercitano i loro effetti a diversi livelli della cascata di informazioni che partono da un messaggero al di fuori delle cellule e arrivano fino ai fattori di trascrizione nucleare che programmano lo stadio del ciclo cellulare e il grado di differenziazione.In particolare, a seconda delle proteine codificate, gli oncogeni possono essere classificati in 4 classi. La I classe comprende 2 sottoclassi denominate rispettivamente IA e IB. Gli oncogeni appartenenti alla classe IA codificano per le attività tirosina chinasiche, che tanta importanza hanno nella trasduzione del segnale dal versante endocellulare del recettore al nucleo. La loro attivazione porta ad un'attività tirosina chinasica costitutiva, cioè non più regolata ma continuativa, a cui consegue una perenne presenza degli effetti del segnale extracellulare anche in sua assenza. Gli oncogeni di classe IB presiedono alla sintesi dei recettori di membrana e delle loro componenti. Quelli di classe II codificano per i fattori di crescita precedentemente citati. Le proteine sintetizzate dagli oncogeni della classe III sono in grado di legare il GTP (guanosintrifosfato). E' noto come queste "proteine G" siano necessarie per accoppiare l'attivazione del recettore con quella dell'adenilatociclasi. La classe IV è deputata alla produzione delle fosfoproteine nucleari.

 

 

GENI SOPPRESSORI DEI TUMORI

 

Il secondo tipo di geni tumorali, denominati geni soppressori dei tumori o antioncogeni, o anche emerogeni (cioè geni nascosti), è stato implicato finora quasi esclusivamente in tumori solidi. A differenza degli oncogeni, i geni soppressori contribuiscono alla cancerogenesi attraverso la loro perdita anziché attraverso fenomeni di attivazione. Il loro comportamento è recessivo, per cui entrambe le copie del gene devono essere inattivate per consentire la formazione del tumore. L'inattivazione può avvenire in seguito a vari meccanismi mutazionali submicroscopici, che sono individuabili a livello del DNA, come una perdita di eterozigosità costituzionale. In altri casi si hanno invece alterazioni più grossolane che comportano la perdita di un intero gene, una regione del cromosoma, o addirittura l'intero cromosoma che contiene il gene soppressore. Queste delezioni e perdite sono identificabili con tecniche di citogenetica.

Possono essere distinte due forme di tumori la cui insorgenza è legata alla perdita di un gene soppressore. Nella forma familiare una prima alterazione è ereditata da un genitore affetto geneticamente oppure origina durante la gametogenesi, mentre la seconda mutazione si realizza dopo la nascita come evento somatico. Questa situazione è tipica per rare forme di tumori a diatesi familiare, come il retinoblastoma, il tumore renale di Wilms, la poliposi adenomatosa del colon, la neurofibromatosi e alcune forme neoplastiche pluriendocrine. Nella forma sporadica entrambe le lesioni colpiscono i due geni della stessa coppia allelica dopo la nascita. Il prototipo di queste diverse situazioni è rappresentato dal gene coinvolto nell'insorgenza del retinoblastoma. E' stato visto infatti come la perdita di due specifici alleli posti sul braccio lungo del cromosoma 13 (13ql4) provochi l'insorgenza di questa grave forma. Gli individui con diatesi familiare ereditano uno solo dei due alleli. Sono quindi molto maggiori le possibilità, rispetto alla situazione diploide, che una mutazione a carico di questo locus abbia conseguenze fenotipiche. Si spiega così a livello genetico la frequenza di retinoblastoma familiare (mutazione dell'unico allele presente) rispetto alla sua sporadicità nella popolazione (mutazione di entrambi gli alleli).

Oggigiorno la perdita di geni soppressori è stata documentata, attraverso tecniche di ibridizzazione cellulare, o di trasferimento di cromosomi, o attraverso la dimostrazione di una perdita di eterozigosità di un marcatore cromosomico specifico, in una grande varietà di tumori (tab.03x). I geni soppressori più studiati sono quelli del retinoblastoma (RB), del tumore di Wilms (WT), della neurofibromatosi di von Recklinghausen (NF-1) e del carcinoma del colon (DCC, o gene deleto nel carcinoma del colon; APC, o gene della poliposi adenomatosa del colon). Questi ultimi fanno parte dei geni implicati nella successione di eventi multipli caratteristici della cancerogenesi del colon, cui si è accennato a proposito di progressione dei tumori. Un ruolo particolare è attribuito al gene p53, localizzato nel braccio corto del cromosoma 17 (17pl3), inizialmente classificato come un protoncogene cellulare, ma ora riconosciuto nella sua forma normale come un gene soppressore, che può tuttavia comportarsi come un oncogene in alcune sue forme mutanti. Mutazioni e perdite di alleli del gene p53 sono oggigiorno le lesioni genetiche osservate più frequentemente in tumori umani localizzati in varie sedi, come polmoni, mammella, colon, esofago, fegato, vescica, ovaie, cervello e tessuto ematopoietico. Inoltre il gene p53 è coinvolto in una sindrome familiare caratterizzata da tumori in sedi multiple (sindrome di Li-Fraumeni). I pazienti colpiti da questa sindrome ereditano un gene p53 normale (tipo selvaggio) e un gene mutato, che li predispone allo sviluppo di tumori quando anche l'allele normale viene deleto o mutato. Un altro gene che ha un comportamento simile al p53 è l'erbA, prima considerato come un oncogene ma ora classificato come un gene soppressore, che codifica per il recettore degli ormoni tiroidei.

 

Un aspetto di particolare interesse nello studio dei geni implicati in cancerogenesi è la prospettiva di potere mettere a punto, in un futuro non immediato, dei mezzi di prevenzione e terapia del cancro. E' già dimostrato che diversi agenti chemiopreventivi sono capaci di inibire l'attivazione da proto-oncogeni a oncogeni. La possibilità di reinserimento di geni soppressori deleti è ben documentata da diversi esperimenti di ibridizzazione di cellule somatiche, che hanno portato alla conclusione che la fusione di cellule tumorali con cellule normali genera quasi sistematicamente cellule non tumorali. E' così realizzabile, impiegando idonee tecniche che sono utilizzate anche per studiare la localizzazione cromosomica dei geni soppressori, l'inserimento di un gene soppressore donato da una cellula normale ad una cellula in cui era avvenuta la delezione, sopprimendo così il fenotipo neoplastico. Una strategia alternativa consiste nell'inibizione del fenotipo neoplastico in seguito all'introduzione nella cellula tumorale della proteina codificata dal gene soppressore mancante in quella cellula.

 

 

RUOLO DELLA PROLIFERAZIONE CELLULARE IN CANCEROGENESI

 

E' noto che i tumori si sviluppano poco frequentemente in tessuti a lenta replicazione, mentre d'altro canto importanti fattori di rischio cancerogeno stimolano la divisione cellulare. Questo non significa che quelle cellule che in condizioni fisiologiche replicano attivamente siano necessariamente più suscettibili agli agenti cancerogeni, presumibilmente perché le stesse cellule sono dotate di un apparato difensivo particolarmente efficace. Più pericolosi sono gli stimoli mitogeni, soprattutto quelli che derivano da fenomeni tossici letali per le cellule, che portano ad una risposta proliferativa del tessuto colpito.

Come già discusso, la replicazione cellulare è una componente della cancerogenesi di natura epigenetica e della promozione tumorale, legata ad esempio ad agenti infettivi (virus, batteri, elminti), ormoni, stimoli irritativi, traumi o situazioni infiammatorie croniche ecc. Tuttavia la proliferazione svolge un ruolo importante anche nell'iniziazione del cancro conseguente ad eventi genotossici, perché la riparazione fedele del danno al DNA deve avvenire prima della divisione cellulare. Le cellule in fase proliferativa non hanno il tempo per riparare il danno e rimuovere gli addotti al DNA, e sono quindi maggiormente a rischio per la mutazione. Inoltre la divisione cellulare favorisce certi eventi genetici, come ricombinazione mitotica, conversione genica e non-disgiunzione, che sono particolarmente efficaci a convertire all'emizigosità od omozigosità un gene recessivo, come un gene soppressore dei tumori. Ancora, la divisione cellulare favorisce l'amplificazione genica e può aumentare l'espressione di oncogeni, come il myc e il fos.

Da queste considerazioni è evidente che le misure di vario tipo intese a contrastare gli stimoli mitogeni sopradescritti e gli agenti chemiopreventivi che inibiscono la proliferazione cellulare rivestono una particolare importanza nella prevenzione primaria dei tumori.

 

 

Prevenzione primaria delle mutazioni e del cancro

 

Sulla base delle premesse scientifiche delineate nelle pagine precedenti, è possibile impostare una strategia generale di prevenzione primaria. La fig.06x propone uno schema "a blocchi", valido per la prevenzione primaria del cancro e di altre malattie cronico-degenerative che, come già discusso, presentano analogie con i tumori per quanto riguarda alcuni aspetti patogenetici. Questo schema origina da un blocco di metodologie di vario tipo che possono essere utilizzate sia per il riconoscimento dei fattori di rischio sia per la valutazione dei fattori protettivi, avviando così due canali operativi. Da un lato la valutazione del rischio è il presupposto per la messa in opera di misure di controllo che mirano a ridurre l'esposizione umana tramite disposizioni di legge oppure interventi di educazione sanitaria. D'altro lato la valutazione dei fattori protettivi è indispensabile per attuare interventi di chemioprevenzione intesi a proteggere l'organismo ospite tramite agenti farmacologici o misure dietetiche. E' chiaro che questi due approcci di prevenzione primaria sono da considerare complementari e non alternativi.

 

 

TECNICHE DI VALUTAZIONE DEL RISCHIO E DEI FATTORI PROTETTIVI

 

Esiste un complesso di metodologie utilizzabili per l'identificazione dei fattori di rischio o dei fattori protettivi, così come per la comprensione dei relativi meccanismi d'azione. Le tecniche disponibili studiano una grande varietà di parametri nell'uomo, in modelli animali, in sistemi in vitro e in modelli statistico-matematici.

Le valutazioni di epidemiologia analitica tengono in dovuto conto la lunga latenza dei tumori. Oltre a studi di tipo correlazionale, che mettono in relazione esposizioni su larga scala (consumo di determinati alimenti, vendita di sigarette ecc.) e morbosità o mortalità per tumori, vengono utilizzati soprattutto studi di tipo longitudinale, retrospettivi o prospettivi. I primi sono del tipo caso-controllo e cercano di dirimere anamnesticamente il fattore di rischio che distingue i malati dai controlli. Nello studio prospettivo invece i gruppi (coorti) sono differenziati solo dalla presenza o meno dell'esposizione al fattore di rischio studiato. Dopo molti anni viene valutato il rischio relativo della coorte esposta, evidenziando l'eventuale significatività nell'incidenza della malattia rispetto ai soggetti non esposti. Questo tipo di studio si presta anche ad interventi di epidemiologia sperimentale, i quali prevedono la possibilità di effettuare un intervento attivo, valutando ad esempio l'efficacia di eventuali fattori protettivi (clinical trial).

Il principale vantaggio dell'approccio epidemiologico è quello di fornire dati direttamente applicabili all'uomo, e pertanto non limitati da problemi di translabilità interspecie. Le difficoltà d'altro canto sono numerose e comprendono soprattutto gravi problemi di ordine logistico ed organizzativo. Sovente è molto difficile discriminare tutti i fattori di rischio interagenti con l'uomo, mentre è più agevole stabilire l'esistenza di un possibile rapporto di causa-effetto se il fattore in esame è quantitativamente preponderante rispetto ai confondenti, cioè quando si realizzino esposizioni a dosi molto alte, come accade nei forti fumatori, o nei luoghi di lavoro, o in individui che assumono farmaci per periodi prolungati. La stessa considerazione vale quando la forma istopatologica conseguente è particolarmente rara. Per questo motivo, secondo le valutazioni dell'International Agency for Research on Cancer (IARC), solo alcune decine di agenti chimici o fisici o lavorazioni industriali sono riconosciute come sicuramente cancerogene per l'uomo.

Oltre agli studi di epidemiologia analitica, lo sforzo della ricerca in questi ultimi anni è stato rivolto all'individuazione di marcatori "intermedi", in grado di stimare l'esposizione ad agenti mutageni e cancerogeni e in alcuni casi di rivelare un danno precoce, predittivo dell'effetto cancerogeno. Le tecniche di biomonitoraggio, di cui viene presentata una panoramica nella tab.04x, sono anche utilizzate con l'obiettivo di evidenziare fattori di variabilità individuale e in particolare di riconoscere categorie o individui a rischio nella popolazione, cui dare la priorità nell'applicazione di misure di prevenzione primaria.

 

Un contributo meno diretto ma di vasta portata alla previsione del rischio cancerogeno per l'uomo, pur se limitato da problemi pratici ed economici, è apportato dagli studi di cancerogenicità negli animali. Si può infatti affermare in linea di massima che una sostanza cancerogena per gli animali di laboratorio ha una buona probabilità di estrinsecare una proprietà analoga sull'uomo (e viceversa). Un grave inconveniente deriva dal fatto che le posologie impiegate sono molte elevate, a causa della bassa sensibilità del test in esame e della necessità di utilizzare un numero non eccessivo di animali. Sono in genere somministrate dosi vicine a quella massima tollerata (MTD). E' quindi assai problematico e discutibile estrapolare dati relativi alla reale situazione umana, che generalmente implica un'esposizione a dosi molto più basse per periodi più lunghi. A questo si ricollega il dibattito sulla linearità delle curve dose-risposta, sull'extrapolarità dei risultati da alte a basse dosi e sull'esistenza o meno di soglie e quindi di livelli di accettabilità in cancerogenesi. Secondo la nostra opinione, la mancanza di soglie può essere ipotizzata nel momento in cui un agente fisico o chimico riesce a danneggiare il DNA, ma nella maggior parte dei casi un meccanismo di soglia, pur difficilmente quantificabile, è conferito dai processi di biotrasformazione che si realizzano prima di questo evento e che tendono a variare i livelli dosimetrici dell'agente penetrato nell'organismo (vedi .fig.05x), spesso nel senso della detossificazione, così come dai meccanismi che intervengono dopo il danno al DNA, e cioè la riparazione del danno stesso e successivamente lo stadio di promozione, che è tipicamente reversibile. Un altro argomento di critica e discussione riguarda l'attribuzione di proprietà cancerogene a quei fattori che inducono tumori solo a dosi tossiche, in quanto la necrosi può stimolare la proliferazione riparativa del tessuto colpito, innescando così un processo aspecifico di promozione che non sussisterebbe a dosi più realistiche.

La novità più importante nel campo del "risk assessment", che ha portato nuovo vigore alle ricerche sull'identificazione su larga scala di agenti potenzialmente cancerogeni e sulla comprensione del loro meccanismo d'azione, è venuta dall'impiego dei cosiddetti test a breve termine, che si propongono di evidenziare effetti biologici strettamente correlati con quello cancerogeno, come quello mutogeno, o più generalmente genotossico, o la trasformazione cellulare. Più di un centinaio di test a breve termine è stato sviluppato negli ultimi due decenni. Alcuni dimostrano il danno al DNA nella sua manifestazione fenotipica, rilevando ad esempio l'insorgenza di fenomeni mutazionali in procarioti o eucarioti, di fenomeni trasformativi in cellule di mammifero in vitro, di alterazioni degli attributi somatici di semplici organismi come la Drosophila melanogaster oppure di vegetali. Altri evidenziano in maniera diretta mutazioni cromosomiche o il danno a carico dell'acido nucleico, che può anche essere estratto direttamente dai mammiferi dopo trattamento in vivo. Ai fini della valutazione del rischio i test a breve termine sono utilizzati in batterie composite, ciò che tende ad aumentarne la sensibilità, sovente già di per sé notevole, ma anche inevitabilmente a diminuirne la specificità .

Infine in numerosi laboratori, incluso il nostro, sono in corso tentativi di mettere a punto modelli statistico-matematici desunti dalla dimostrazione di relazioni fra struttura chimica e attività biologica, ad esempio, tossica, mutagena, cancerogena o all'opposto protettiva. Il perfezionamento di metodiche di questo tipo potrà essere di estrema utilità, specie negli studi preliminari per la messa a punto di nuove molecole di uso farmacologico od industriale.

 

 

CONTROLLO DELL'ESPOSIZIONE A FATTORI DI RISCHIO

 

Alla fase di valutazione del rischio (risk assessment) fa seguito la fase di gestione del rischio (risk management) in cui, oltre alle indicazioni di natura scientifica, peraltro non sempre univoche, entrano in gioco anche considerazioni di politica socio-sanitaria e di economia sanitaria, con analisi di costi, rischi e benefici. Per limitare l'esposizione umana a fattori di rischio noti o sospetti, possono essere messi in opera interventi di natura pedagogica (educazione sanitaria) oppure coercitiva (disposizioni di legge).

Poiché oggi la maggior parte dei fattori di rischio implicati in cancerogenesi deriva dallo stile di vita, una corretta e convincente educazione della popolazione sembra essere una delle principali misure pratiche per la prevenzione del cancro. L'educazione sanitaria costituisce la branca applicativa dell'igiene a cui è deputato questo fondamentale compito. L'individuo va pertanto informato o, meglio, formato, affinché possa valutare in maniera critica e conscia le effettive conseguenze della scelta di esporsi a determinati agenti.

Per i fattori di rischio che derivano dall'ambiente di vita e di lavoro, che comportano un'esposizione involontaria, è possibile invece intervenire con regolamenti intesi a controllare le fonti di emissione di agenti nocivi ed a limitare l'esposizione individuale. Entrambi questi provvedimenti sono stati largamente utilizzati nel campo dell'igiene industriale in tutti i Paesi avanzati. In questi ultimi anni vi è stata una maggior sensibilizzazione nei confronti dell'inquinamento ambientale di origine antropogenica. Anche se il fenomeno è di difficile controllo, essendo strettamente collegato a certi benefici della vita moderna che richiedono lo sfruttamento di fonti energetiche, in molti Paesi, compresa l'Italia, sono in vigore leggi per la tutela delle matrici ambientali, dal controllo delle derrate alimentari alla protezione del suolo e delle acque ed alla prevenzione dell'inquinamento atmosferico da traffico motorizzato industriale, impianti di riscaldamento domestico e di incenerimento dei rifiuti, fino all'igiene dell'abitazione per il controllo dell'inquinamento indoor. Molte delle leggi introdotte in Italia in questo campo, applicate su base nazionale o regionale, seguono le direttive della Comunità Europea. Altri esempi riguardano il cosiddetto fumo di tabacco ambientale, la cui restrizione rappresenta un problema di sanità pubblica in quanto comporta l'esposizione passiva, involontaria e indesiderata dei non fumatori. Ancora, esistono leggi che regolamentano la registrazione e l'uso di farmaci, cosmetici e tutti i prodotti di origine industriale che devono essere sottoposti a prove di tossicità, inclusa la valutazione dell'attività in test a breve termine ed eventualmente in test di cancerogenesi negli animali.

 

 

CHEMIOPREVENZIONE

 

Negli ultimi anni la chemioprevenzione è emersa sempre più quale arma di prevenzione primaria del cancro e possibilmente di altre malattie cronico-degenerative. L'importanza di questo approccio deriva dal fatto che, per difficoltà sia nella valutazione sia nel controllo dei fattori di rischio, molte esposizioni ad agenti nocivi sono inevitabili. Inoltre è sempre più evidente che l'epidemiologia di queste malattie è in funzione della disseminazione ambientale sia dei fattori di rischio sia dei fattori protettivi, a volte in equilibrio  fra di loro, per cui è giustificato il tentativo di sbilanciare l'esposizione umana a favore di questi ultimi.

 

Per prospettare in maniera razionale l'utilizzazione di un agente chemiopreventivo è necessario non solo documentarne le proprietà antimutagene e anticancerogene, utilizzando le metodologie precedentemente descritte, ma anche conoscerne il meccanismo d'azione. La tab.05x A tab.05x B dimostra quanti diversi meccanismi possano essere sfruttati per aumentare le difese dell'organismo ospite. Su questa base si possono distinguere vaste categorie di inibitori, e cioè quelli che prevengono gli effetti genotossici in sede extracellulare oppure nelle cellule, e quelli che modulano stadi più avanzati del processo di cancerogenesi. Va segnalato che gli inibitori più efficaci ed a più ampio spettro d'azione sono in genere quelli che agiscono con meccanismi multipli, e che nella cosiddetta "chemioprevenzione combinata" si possono utilizzare associazioni fra diversi inibitori caratterizzati da meccanismi complementari oppure dotati di un diverso tropismo cellulare.

Fino agli inizi degli anni '90 almeno 500 composti sono stati saggiati in vari sistemi sperimentali per verificarne l'efficacia come agenti chemiopreventivi, e composti appartenenti ad oltre 25 classi chimiche si sono dimostrati in grado di esercitare effetti protettivi. Dal punto di vista pratico esistono due possibilità di applicazione della chemioprevenzione nell'uomo, che tengono conto della possibile esistenza di effetti collaterali e del fatto che per tutti gli inibitori l'effetto protettivo è temporaneo, per cui la loro somministrazione dovrebbe essere continuativa. La prima possibilità consiste nell'uso di agenti farmacologici di comprovata efficacia preventiva e di riconosciuta innocuità. Questo tipo di trattamento è per ora indicato solo in individui a rischio, come fumatori, soggetti esposti ad asbesto, o malati di cancro operati nei quali si cerca di evitare non solo la ricrescita in situ e le metastasi del tumore originale ma anche la comparsa di altri tumori primitivi. Sono stati già completati o sono in fase di svolgimento numerosi trial clinici di chemioprevenzione dei tumori in decine di migliaia di individui a rischio. Del gruppo ristretto di agenti chemiopreventivi giunti alla fase di clinical trial fa parte la N-acetilcisteina (NAC), un noto farmaco mucolitico e antitossico studiato nel nostro laboratorio per gli effetti antimutageni e anticancerogeni ed i relativi meccanismi d'azione. Per quanto riguarda invece la popolazione generale, allo stato attuale non è consigliabile il ricorso prolungato a farmaci, pur se innocui, se non per quanto attiene l'uso di prodotti vitaminici e altri integratori della dieta, specie laddove vi siano carenze dietetiche. E' invece possibile intervenire con misure di educazione sanitaria riguardanti l'alimentazione, suggerendo una composizione della dieta ricca di fattori protettivi. D'altronde consigli di questo tipo sono già dati abitualmente alla popolazione nell'ambito della divulgazione di linee guida per la prevenzione dei tumori. Pur essendovi già un'enorme massa di ricerche sull'argomento, è comunque necessario approfondire ulteriormente le basi scientifiche che giustificano certe misure dietetiche.

Gli interventi sull'organismo umano devono soddisfare requisiti di costo e praticità d'uso, ma soprattutto di efficacia e sicurezza. E' evidente che molte volte è necessario accettare compromessi fra efficacia del risultato e tollerabilità del trattamento, privilegiando un requisito oppure l'altro a seconda delle caratteristiche dei soggetti trattati. Così, nell'ambito dei possibili interventi presentati nella tab.06x, si possono prospettare dei gradienti inversi di efficacia e tollerabilità. Ai due estremi vi sono gli interventi terapeutici e gli interventi di sanità pubblica. I primi richiedono il massimo grado di efficacia anche a spese di importanti effetti collaterali. I secondi, proprio per essere applicati su larga scala in soggetti sani, richiedono invece il massimo grado di tollerabilità anche a scapito di benefici meno evidenti, in ogni caso apprezzabili solo sul piano epidemiologico e non nel singolo individuo.

 

 

 

Letture consigliate

 

 

AA.VV.: Special Report on Cancer. Science, 254, 1131-1171, 1991.

De Flora S., Izzotti A.: Studio dei fattori ambientali di rischio e prevenzione primaria del cancro. In: G. Gilli (ed.), “Igiene dell’Ambiente e del Territorio”, C.G. Ed. Med. Scient., Torino, pp. 161-221. 1989.

De Flora S. (ed.): Role and Mechanisms of Inhibitors in Prevention of Mutaion and Cancer. Mutat. Rs. (special issue), 202_ 277-446, 1988.

Doll R., Peto R.: The causes of cancer: quantitative estimates of avoidable risks of cancer in the United State today. J. Natl. Cancer Inst., 66: 1191-1308, 1981.

Hayatsu H. (ed.): Mutagens in Food: Detetion and Prevention. CRC Press, Boca Raton, FL, 286 pp., 1991.

IARC: Monographs on the Evaluation of Carcinogenic Risk to Humans. International Agency for Research on Cancer, Lyon, volumi 1-53, 1972, 1991.

Tomatis L., Aitio a., Day N.E., Heseltine E., Kaldor J., Miller A.B., Parkin D.M., Riboli E. (ed.): Cancer: Causes, Occurrence and Control. IARC Scientific Publication No. 100, International Agency for Research on Cancer, Lyon, 352 pp. 1990.

 

 

S. De Flora

Direttore Istituto di Igiene

e Medicina Preventiva,

Università di Genova

 

 

A. Izzotti

Istituto di Igiene

e Medicina Preventiva,

Università di Genova

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