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ARGOMENTI DI MEDICINA CLINICA
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Ultimo aggiornamento: 23.12.2013
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Da
circa 40 anni il dosaggio degli enzimi nel sangue rappresenta un mezzo
diagnostico di indiscutibile valore. Lo sviluppo dell'enzimologia clinica inizia
nel 1943 con l'osservazione di Warburg che molti enzimi tessutali sono presenti
nel sangue e che il loro dosaggio può aumentare nel corso di diverse condizioni
patologiche. Nei decenni successivi non solo aumenta il numero di enzimi
dosabili e utilizzabili nella pratica clinica, ma di ciascun enzima si studiano
le caratteristiche fisicochimiche e la localizzazione all'interno delle cellule,
identificando in molti casi diverse forme isoenzimatiche. Anche la terminologia
viene codificata e vengono definite le condizioni ottimali di dosaggio.
Con
il dosaggio degli enzimi sierici l'esperienza clinica si arricchisce di un
modello di valutazione che permette di identificare le lesioni tessutali che
stanno alla base di alcune importanti malattie. Ma accanto alla diagnosi di
localizzazione (di organo, di tessuto, di struttura cellulare) si vengono
delineando sempre meglio gli aspetti funzionali: di molti enzimi oggi infatti
conosciamo non solo la sede di sintesi, ma anche il processo biochimico che ne
determina la produzione e le cause fisiopatologiche che ne provocano l'aumento o
la riduzione nel sangue circolante.
L'analisi
dei processi che condizionano i livelli sierici degli enzimi permette infatti di
interpretare più correttamente i molti dati sperimentali disponibili, sia per
quanto riguarda il significato dei reperti, sia nei confronti della razionalità
dell'esplorazione diagnostica che su essi si basa.
La
voluta delimitazione della trattazione alla pratica clinica porta a trascurare
una larga parte delle conoscenze enzimologiche oggi disponibili, che, se sono
indubbiamente di notevole importanza teorica, hanno tuttavia ricadute pratiche
poco significative. Analogamente, il riferimento ai soli enzimi presenti nel
sangue, utile limitazione in funzione del valore essenzialmente pratico del
lavoro, implica che vengano trascurati aspetti, peraltro importanti, come quelli
riguardanti il dosaggio dell'attività enzimatica in altri materiali biologici
(urine, secrezioni digestive, tessuti ecc.).
Esistono
criteri strettamente biochimici per distinguere gli enzimi in funzione del
substrato o del legame chimico su cui essi agiscono. Questa classificazione è
tuttavia di scarsa utilità pratica; per gli scopi che ci si prefigge è
preferibile una classificazione basata su criteri più empirici, che distingua
gli enzimi plasmatici in relazione alle modalità e alla sede di produzione, o
alla funzione biologica che li caratterizza.
In
relazione alle modalità di produzione gli enzimi presenti nel sangue possono
essere distinti in plasma-specifici, tessutali o cellulari e di secrezione.
Si
definiscono come plasma-specifici quegli enzimi che sono secreti direttamente
nel plasma e che in esso esercitano la loro azione biologica gli esempi più
tipici sono dati dagli enzimi della coagulazione e dalla pseudocolinesterasi,
sintetizzati negli epatociti e usati nella pratica clinica come indicatori
dell'attività biosintetica del fegato.
Gli
enzimi tessutali o cellulari sono la maggioranza e svolgono la loro funzione
all'interno delle cellule dei diversi tessuti. La loro presenza nel sangue, in
cui sono inattivi, è legata alla distribuzione che si realizza tra l'ambiente
cellulare e il sangue che perfonde i tessuti; in questo caso la concentrazione
degli enzimi nel sangue circolante è espressione dell'equilibrio fra i
principali determinanti fisiopatologici (sintesi, biotrasformazione,
eliminazione), ma soprattutto riflette alterazioni di permeabilità della parete
cellulare o indica liberazione in circolo del contenuto enzimatico in rapporto a
necrosi della cellula stessa. Poiché alcuni enzimi di questo gruppo hanno una
localizzazione tessutale specifica o quanto meno ben caratterizzata, essi
possono essere utilizzati per identificare la sede della lesione. Quando invece
è nota anche la localizzazione dell'enzima nelle strutture subcellulari, la
modificazione dell'attività enzimatica nel sangue può essere usata per più
precise valutazioni citologiche o, nel caso di sostanze tossiche, per descrivere
il tipo e l'entità del danno prodotto.
Gli
enzimi di secrezione sono caratterizzati dal fatto di essere prodotti dalle
cellule competenti, per essere più o meno rapidamente secreti dalle stesse in
un liquido biologico (bile, succo intestinale, secrezioni), dove svolgono la
loro attività specifica. Fanno parte di questo gruppo gli enzimi gastrici e
pancreatici e la fosfatasi prostatica. Il loro aumento nel sangue dipende
sostanzialmente dall'alterazione del processo secretorio cellulare o dalla lisi
delle cellule che li producono.
Tutte
le cellule necessitano di un corredo enzimatico per lo svolgimento dei processi
biologici. Tuttavia, se si prescinde da alcune attività fondamentali per le
quali non esistono differenze sostanziali tra i vari tessuti, nella maggior
parte dei casi i tessuti si caratterizzano per la presenza di enzimi specifici o
per una maggiore concentrazione di enzimi non strettamente specifici. Le
differenze esistenti da tessuto a tessuto permettono in molti casi di
riconoscere la sede di provenienza degli enzimi circolanti e rappresentano un
interessante criterio diagnostico differenziale. Ad esempio, un aumento delle
amilasi plasmatiche può ragionevolmente attribuirsi a lesioni pancreatiche; una
ipertransaminasemia è riconosciuta espressione di alterazioni epatiche,
cardiache o muscolari; un aumento delle fosfatasi acide induce a sospettare una
lesione prostatica ecc.
Come
è possibile notare, l'attività enzimatica totale non è sempre riferibile con
certezza a un solo organo: in tal caso può essere utile identificare quale
delle frazioni isoenzimatiche che compongono l'attività totale è aumentata,
migliorando così notevolmente la specificità dell'informazione.
Un'altra
classificazione, più specificamente funzionale, è quella in base alla quale
diversi enzimi liberati nel sangue da una stessa cellula sono distinti in
relazione al meccanismo fisiopatologico che ne determina l'aumentata immissione
in circolo. Questo criterio di classificazione si riferisce essenzialmente al
fegato, i cui enzimi possono essere espressione di colestasi (ALP, LAP, 5NT), di
citolisi (AST, ALT, ICDH), di alterazione della biosintesi (CHE) o di induzione
(GGT). È importante rilevare
come spesso uno stesso enzima possa essere espressione di diverse situazioni
fisiopatologiche: ad esempio, la GGT si innalza in presenza di induzione, ma
anche per alterata permeabilità cellulare e per fenomeni di colestasi.
Esiste
una classificazione internazionale, in base alla quale ogni enzima è
identificato da 4 numeri, che ne definiscono le caratteristiche biochimiche.
Tuttavia, nella pratica clinica e nella stessa letteratura medica, si tende a
preferire i criteri di classificazione precedentemente indicati, certamente più
pratici, e a far uso di simboli ricavati dall'abbreviazione dei nomi correnti.
Nella tab.01
Sia
che derivi dall'increzione di enzimi plasma-specifici, dalla liberazione di
enzimi cellulari o dal reflusso di enzimi di secrezione, la concentrazione degli
enzimi nel plasma si può considerare, come si è detto, il risultato
dell'equilibrio dinamico tra diversi fattori.
Anzitutto
svolge un ruolo importante la sintesi dell'enzima, che dipende dal numero e
dall'attività funzionale delle cellule competenti, dalla produzione di energia
cellulare, dalla presenza di cofattori vitaminici o ionici, dall'ossigenazione
tessutale, dalla presenza di attivatori e di inibitori, da predisposizione
genetica o acquisita ecc.
In
secondo luogo il livello plasmatico dipende dallo stato di integrità delle
membrane cellulari: processi tali da comportare la loro permeabilizzazione o
lisi consentono infatti la fuoriuscita degli enzimi cellulari nel liquido
interstiziale o direttamente nel sangue circolante.
I
fenomeni di distribuzione sono altrettanto importanti: a più elevati volumi di
distribuzione corrispondono infatti minori concentrazioni misurabili.
Per
gli enzimi, come per qualsiasi molecola presente nel sangue, i livelli di
concentrazione sono inoltre dipendenti dalla velocità di eliminazione, che può
svolgersi con diversi meccanismi: escrezione renale o biliare, degradazione
intravascolare (peraltro ritenuta di scarsa importanza), incorporazione e
inattivazione cellulare ecc. Tutti questi processi non solo concorrono a
determinare la concentrazione misurabile, ma influiscono anche sulle sue
variazioni nel tempo. Ad esempio, è noto che mentre l'emivita delle
transaminasi è relativamente breve (rispettivamente di 17 ore per le AST e di
48 ore per le ALT), quella dell'isoenzima LDH-5 supera le 110 ore: ne deriva che
la persistenza di livelli elevati di enzima può essere espressione sia della
persistenza delle cause, sia della lenta eliminazione dell'enzima. Nella fig.01
Dall'insieme
dei fenomeni precedentemente ricordati deriva, in condizioni normali, il valore
(o meglio l'ambito) fisiologico di concentrazione di ciascun enzima.
Dall'insieme degli ambiti fisiologici dei principali enzimi è possibile
costruire quello che è stato definito come profilo enzimatico plasmatico, che
si differenzia, per le ragioni precedenti, dal profilo enzimatico intracellulare
caratteristico dei diversi tessuti. Esso rappresenta un importante parametro di
riferimento per qualsiasi valutazione diagnostica e costituisce lo standard
contro cui valutare le reali situazioni cliniche (fig.02
A
seconda dell'organo alterato e in alcuni casi (tipicamente per il fegato) anche
in relazione con lo specifico aspetto funzionale coinvolto, sarà quindi
possibile ricavare profili d'organo e funzionali ben caratterizzati per le più
tipiche condizioni cliniche, in base ai quali costruire i protocolli diagnostici
(fig.03
Alla
definizione dei profili enzimatici, vere e proprie descrizioni prototipali di
situazioni cliniche specifiche, entrano in gioco sia il tipo di enzimi
coinvolti, sia l'entità della loro alterazione, sia l'evoluzione nel tempo
della stessa. È la
conoscenza di questi profili caratteristici che permette di adeguare la
richiesta di esami al sospetto diagnostico avanzato in base ai dati clinici. Ad
esempio, in presenza di un sospetto di infarto miocardico, il medico accorto sa
che, accanto al dosaggio delle transaminasi, è utile eseguire quello di CPK e
LDH, mentre, se il sospetto è quello di epatite, alle transaminasi saranno
preferibilmente associati GGT, ALP e CHE. Analogamente, quando il quesito
diagnostico fosse la discriminazione tra le possibili cause di un aumentato
livello di GGT, occasionalmente rilevato, la presenza di valori normali di LAP e
5NT (che esclude una colestasi) e di AST e ALT (incompatibile con una necrosi
epatocitaria) permette di avanzare ragionevolmente l'ipotesi di un fenomeno di
induzione enzimatica da alcool o da farmaci.
La
tab.03
L'entità
dell'alterazione non è meno importante: ad esempio, un livello modestamente
elevato e persistente delle transaminasi è più ragionevolmente associato
all'ipotesi di epatite cronica che non a quella di epatite acuta.
Anche
l'evoluzione nel tempo delle alterazioni può fornire dati interessanti. Ad
esempio , le caratteristiche modificazioni del profilo enzimatico nell'infarto
miocardico permettono, come è noto, di ricavare importanti informazioni sulla
fase evolutiva della lesione: l'aumento delle CPK è infatti precoce e fugace,
quello delle LDH tardivo e persistente, quello delle AST intermedio.
Una
modalità di interpretazione dei profili enzimatici è rappresentato dallo
studio dei rapporti tra i livelli sierici di enzimi diversi.
Nelle
epatiti acute sono state descritte tipiche alterazioni del rapporto AST/ALT
(indice di De Ritis), che scende sotto a 1 nella fase acuta della malattia, e
per il rapporto (AST + ALT)/GLD (proposto da Schmidt), che aumenta oltre a 50
nelle stesse condizioni; altri rapporti meno usati sono ALT/ALP e ALT/GGT,
entrambi nettamente aumentati in questa malattia. Nelle epatiti tossiche gravi,
invece, non solo i livelli delle transaminasi possono essere molto più elevati,
ma l'aumento delle AST è particolarmente spiccato, tanto da determinare un
aumento del rapporto AST/ALT (e non una riduzione come nell'epatite virale).
Nell'infarto
miocardico acuto l'aumento delle transaminasi è caratterizzato da un incremento
più rilevante delle AST rispetto alle ALT: in questo caso tuttavia la ragione
risiede nel fatto che il miocardio è caratterizzato da una concentrazione più
elevata di questo enzima rispetto agli altri tessuti.
Nonostante
la fortuna inizialmente incontrata da questo tipo di valutazioni, il loro valore
è stato ridimensionato negli ultimi anni: le migliori conoscenze sulla
localizzazione intracellulare degli enzimi e sulla loro cinetica di liberazione
e di eliminazione hanno infatti permesso di interpretare le variazioni dei
livelli enzimatici alla luce di criteri fisiopatologici, certamente più
razionali. Ad esempio, è noto che negli epatociti, contrariamente alle ALT che
sono solo citoplasmatiche, le AST sono localizzate sia nel citoplasma, sia nei
mitocondri: il più rilevante aumento di queste nelle epatiti tossiche gravi
rispetto alle epatiti virali è quindi interpretabile come conseguenza della
gravità delle alterazioni cellulari, in quanto solo lesioni citolitiche severe
possono mobilizzare la componente mitocondriale.
In
sostanza, la conoscenza del profilo enzimatico fisiologico, delle sue
distorsioni patologiche più caratteristiche e dell'evoluzione di queste nel
tempo rappresenta un elemento fondamentale sia per l'interpretazione dei reperti
che per la programmazione diagnostica.
Nell'ultimo
decennio l'enzimologia clinica si è arricchita notevolmente in rapporto al
riconoscimento dell'esistenza, all'interno di ciascuna specie enzimatica, di
isoenzimi, cioè di forme molecolari diverse, geneticamente determinate, o
quanto meno di molecole ad analoga attività enzimatica, ma separabili,
identificabili e dosabili.
L'importanza
clinica di queste conoscenze è rilevante: essa dipende dal fatto che le diverse
forme isoenzimatiche di una stessa specie enzimatica sono in genere situate in
tessuti diversi o in settori diversi della stessa cellula. Questa specificità,
di tessuto, di organo, cellulare o subcellulare, è alla base dell'utilizzazione
diagnostica del dosaggio degli isoenzimi. Ad esempio, è noto che la LDH è in
realtà una miscela di isoenzimi provenienti da diversi tessuti: mentre la
frazione LDH-1 è prevalentemente localizzata nella cellula miocardica, la
frazione LDH-5 è più largamente rappresentata negli epatociti. La prevalenza
di questa o quella frazione isoenzimatica in presenza di livelli elevati di LDH
totali può permettere di giungere facilmente a una più precisa ipotesi
diagnostica (diagnosi di organo).
Invece,
nel caso delle AST, è noto che esistono due frazioni epatiche, una
citoplasmatica (AST-1), che passa dalla cellula al plasma con relativa facilità
anche per semplici variazioni di permeabilità della membrana plasmatica,
l'altra mitocondriale (AST-2), la cui liberazione avviene solo in presenza di
gravi alterazioni citolitiche. Il frazionamento elettroforetico e il dosaggio
separato dei due isoenzimi possono quindi essere utilmente applicati al
riconoscimento della gravità della lesione citolitica: in senso più
strettamente clinico si è rilevato che all'aumento della frazione mitocondriale
corrisponde una prognosi più severa per il paziente
Diverse
sono le possibilità diagnostiche offerte dall'analisi isoenzimatica delle ALP,
basata sulla combinazione di procedimenti diversi, come l'elettroforesi e
l'inattivazione chimica o al calore. Anche indipendentemente da un aumento delle
ALP totali, un incremento relativo di una delle frazioni fisiologiche (ossea,
intestinale, placentare o epatica) può orientare il clinico verso una specifica
patologia d'organo; inoltre la presenza dell'isoenzima biliare (normalmente
assente) deve fare sospettare una colestasi o un'infiltrazione neoplastica
maligna del fegato, come tipicamente si osserva in un'alta percentuale di
linfomi.
Nella
fig.04
Molti
altri sono gli isoenzimi di cui è possibile ottenere oggi una soddisfacente
separazione: CPK, GGT, MAO, AMI, ARE ecc.
Di
un cenno particolare necessita infine la provata esistenza, nell'ambito di
alcune specie enzimatiche (ALP, GGT, ecc. ), di forme isoenzimatiche atipiche,
che possono rappresentare altrettanti marcatori di neoplasia primitiva o
secondaria. Anche se interessanti, questi reperti non sembrano peraltro
giustificare un tentativo di utilizzazione clinico-diagnostica al di fuori
dell'ambito specialistico e della ricerca.
Una
trattazione approfondita dell'argomento esula dai limiti di questo lavoro, il
cui scopo è essenzialmente quello di fornire una visione sintetica e pratica
dell'enzimologia clinica e delle sue possibili applicazioni. Tuttavia si può
notare che, se la maggior parte dei dosaggi isoenzimatici è di pertinenza solo
dei laboratori più specializzati, le determinazioni di alcune frazioni
enzimatiche altamente specifiche, oggi eseguite su larga scala con metodi
relativamente semplici, sono la conseguenza degli studi precedenti sugli
isoenzimi.
Ad
esempio, il dosaggio delle idrossibutirrato-deidrogenasi (HBD) riflette
soprattutto la presenza in circolo della frazione cardiaca delle LDH (LDH-1),
mentre la determinazione delle CPK-MB è espressione della concentrazione della
frazione cardiaca della CPK (CPK-2) nel siero. Entrambi questi dosaggi sono oggi
alla portata di qualsiasi laboratorio ed è prevedibile che molti altri lo
saranno analogamente nei prossimi anni.
In
questo, come in tutti i campi della biochimica clinica, l'uso dei test dipende
da un lato dal reale contenuto informativo della prova, dall'altro dalla
complessità di esecuzione e infine dal costo.
Ciò
determina la classificazione delle prove disponibili in gruppi di test che
ragionevolmente potrebbero essere resi disponibili ai diversi livelli dei
servizi sanitari. Seguendo questi criteri generali, i dosaggi enzimatici possono
essere distinti in tre gruppi:
1)
dosaggi che, non presentando particolari problemi tecnici, sono eseguibili in
tutti i laboratori e la cui utilità diagnostica è largamente provata;
2)
dosaggi che esulano dalla routine clinica, sono utili per affrontare problemi
clinici specifici, l'esecuzione dei quali è ragionevole solo in laboratori
specializzati;
3)
dosaggi molto specifici, la cui esecuzione deve essere riservata a centri
altamente specializzati.
Questa
classificazione (tab.05
Il
problema di definire criteri di interpretazione univoca assume particolare
importanza per i dosaggi enzimatici, per ciascuno dei quali esistono metodi
diversi di determinazione. Purtroppo, nonostante ripetuti tentativi di
standardizzazione, è tuttora frequente rilevare notevoli diversità dei valori
di riferimento indicati da laboratori diversi. Ciò dipende da diversi fattori,
essenzialmente tecnici: modalità di esecuzione della prova in funzione della
temperatura, della concentrazione di substrato, del pH, della purezza e stabilità
dei reagenti, della presenza di cofattori, del tipo di lettura dei risultati (a
uno o più punti, in continuo). Altre cause di discordanza possono dipendere
dall'adozione di unità di misura diverse e dai diversi criteri utilizzati nel
definire gli ambiti di riferimento in relazione al sesso e all'età del
paziente.
In
attesa che l'auspicata standardizzazione diventi operante, al medico non resta
che leggere criticamente i risultati, prestando particolare attenzione agli
ambiti di riferimento segnalati dal laboratorio. Quando sia richiesto il
controllo dell'evoluzione nel tempo di un quadro clinico, sarà preferibile
riferirsi a dati forniti da uno stesso laboratorio. È utile ricordare che l'uso di fattori di conversione
per il confronto dei risultati ottenuti con metodi diversi non è infatti
pratico, ma soprattutto non è esente da critiche.
Le
malattie epatiche costituiscono uno dei principali capitoli dell'enzimologia
clinica, certamente quello in cui sono state più approfondite le conoscenze
fisiopatologiche in base alle quali i risultati possono essere interpretati. Ciò
fa sì che l'utilizzazione dei dosaggi enzimatici sia particolarmente articolata
in questo settore e tale da permettere di affrontare problemi diagnostici
relativamente complessi.
È fuori di dubbio che l'ipotesi diagnostica di epatite è, salvo rare
eccezioni, un fatto essenzialmente clinico, basato cioè su dati anamnestici e
obiettivi. Ma la sua conferma non può prescindere dal dosaggio delle
transaminasi, che tra l'altro permettono di porre la diagnosi differenziale con
alterazioni primitive delle vie biliari.
L'alterazione
del profilo enzimatico, talora valutata mediante calcolo dell'indice di De Ritis
(AST/ALT) o di altri rapporti significativi tra attività enzimatiche diverse,
è stata a lungo utilizzata per caratterizzare le epatopatie dal punto di vista
diagnostico. Oggi peraltro si tende a dare meno importanza a questo tipo di
valutazione: l'informazione così ottenibile è infatti di valore clinico molto
relativo nel definire l'etiologia (risente di fattori fisiopatologici e tecnici
malamente controllabili) e regge con difficoltà ad una critica approfondita
(sul significato e sul valore dei determinanti dei livelli sierici).
Più
utile è il dosaggio ripetuto nel tempo di singoli enzimi di sicuro significato,
allo scopo di caratterizzare lo stadio evolutivo della malattia e di valutarne
la prognosi. Alterazioni elevate e fugaci delle transaminasi suggeriscono una
forma acuta di epatite a prognosi relativamente favorevole; il protrarsi di
valori meno elevati delle transaminasi e la sua associazione a significative
alterazioni della CHE sono compatibili con un danno parenchimale meno severo ma
con una prognosi meno favorevole, per probabile evoluzione verso una forma di
epatite cronica. L'aumento delle ALP e delle GGT, eventualmente associato ad
elevati livelli di LAP e di 5NT, ma in assenza di ittero, è quasi certamente
espressione di colestasi intraepatica, mentre un fugace e non rilevante aumento
delle transaminasi, associato ad ittero e seguito da un più tardivo aumento
delle ALP è ritenuto caratteristico dalle ostruzioni biliari (fig.06
Anche
se una caratterizzazione etiologica dell'epatopatia in base ai dosaggi
enzimatici è poco accettabile, vi è stato chi ha indicato in un marcato
aumento delle LDH associato a una spiccata alterazione delle AST un segno
abbastanza suggestivo di lesione tossica acuta del fegato. Di fatto, più che
per valutazioni etiologiche, i dosaggi enzimatici sono utili in epatolopatia per
riconoscere stati iniziali e asintomatici di epatopatia, per caratterizzare dal
punto di vista patogenetico la malattia e per quantificare la gravità
dell'alterazione epatocitaria e la sua evoluzione nel tempo.
Ben
più rilevante è il valore che i dosaggi enzimatici assumono quando ad essi si
attribuisce un significato funzionale.
È nozione largamente condivisa che gli enzimi epatobiliari (prodotti
dagli epatociti e/o secreti nella bile) possono essere espressione di situazioni
funzionali diverse. Alla base di questa interpretazione sta un modello
fisiopatologico del fegato che considera l'epatocita come cellula con specifiche
caratteristiche individuali (esistenza di una plasma membrana, corredo
enzimatico specifico), dotata di duplice polarità funzionale (incretoria verso
il sangue, escretoria verso la bile) e con notevoli capacità di adattamento
(fenomeni di induzione enzimatica).
Tenendo
presenti questi presupposti, non è difficile classificare gli enzimi
epatobiliari in relazione al loro significato funzionale (enzimogrammi di
funzione) e utilizzarli corrispondemente nella pratica clinica (tab.06
In
quest'ottica, due aspetti meritano di essere sottolineati: da un lato i livelli
plasmatici degli enzimi sono espressione (isolatamente o in associazioni di
enzimi di significato analogo) di specifiche alterazioni funzionali; dall'altro
le associazioni di enzimi a diverso significato possono dare una dettagliata
descrizione della situazione funzionale del fegato, utile sia per verificare la
congruità delle ipotesi diagnostiche preliminari, emesse in base ai dati
clinici, sia per considerare la possibile esistenza di una epatopatia in carenza
di informazioni cliniche sufficientemente significative.
Ad
esempio, in caso di ittero, mentre l'alterazione isolata degli enzimi di
colestasi è compatibile con una patologia del canalicolo o delle vie biliari,
la sua associazione con un notevole aumento degli enzimi di citolisi è
fortemente suggestiva per un'epatite ad impronta colestatica.
Un
altro aspetto poco valutato nella pratica clinica, ma che potrebbe essere di
notevole interesse concettuale, è quello che riguarda la possibilità di
valutare lo sviluppo di fibrosi epatica in base al dosaggio della frazione
isoenzimatica anodica delle MAO, che si ritiene di derivazione connettivale.
È stata avanzata l'ipotesi che la determinazione degli enzimi plasmatici
possa permettere di identificare la popolazione cellulare prevalentemente, ma
non esclusivamente, interessata nella malattia (enzimogramma tessutale): gli
epatociti sarebbero rappresentati soprattutto da AST e ALT, le cellule duttulari
dalla 5NT, le cellule mesenchimali da una frazione delle GGT, i fibroblasti
dalla frazione anodica delle MAO, le cellule tumorali da particolari isoenzimi
delle ALP ( Regan, Nagao), ecc..
Analogamente
si può presumere che le attività enzimatiche misurate nel siero possano in
qualche modo informare sul tipo di lesione cellulare (enzimogramma cellulare):
modificazioni della permeabilità della membrana plasmatica sarebbero indicate
da un aumento delle ALT o della frazione citoplasmatica AST-1, mentre la
frazione cationica delle stesse (AST-2) indicherebbe una severa alterazione
citolitica, tale da provocare un danno mitocondriale; i fenomeni di induzione a
livello microsomale darebbero un aumento isolato delle GGT; il danno della
membrana canalicolare sarebbe espresso dall'aumento della 5NT e dell'ALP. Questo
approccio non è tuttavia attualmente sufficientemente codificato da poter
essere assunto come adeguato criterio di valutazione in campo clinico.
Da
quanto detto emerge come il potenziale valore diagnostico degli enzimi
epatobiliari sia sostanzialmente legato alla specificità di funzione e di
localizzazione tessutale o cellulare di ciascun enzima. Queste caratteristiche
sono spesso evidenti già nel semplice dosaggio dell'attività enzimatica
totale; più spesso esse sono documentabili solo effettuando la separazione e il
dosaggio degli isoenzimi che concorrono a determinare l'attività totale
plasmatica. Nel caso delle LDH la specificità per il fegato è propria solo di
uno degli isoenzimi (LDH-5); per le AST si conoscono due forme, entrambe
epatiche, anche se non organo-specifiche, rispettivamente citosolica (AST-1) e
mitocondriale (AST-2); per le ALP due sole forme, epatica e biliare, sono di
interesse diretto per l'epatologo. Tuttavia, è importante rilevarlo,
l'utilizzazione clinica del dosaggio degli isoenzimi ha un valore relativamente
limitato in epatologia: ad esso si ricorre in pratica solo per dirimere le
incertezze diagnostiche in casi piuttosto rari, per i quali il dosaggio
dell'attività totale degli enzimi non consente di eliminare i dubbi
interpretativi. Così, ad esempio, in presenza di un elevato valore dell'attività
ALP totale, può essere sufficiente il rilievo contemporaneo di un valore
normale delle LAP e/o delle 5NT per escludere una colestasi, anche senza
ricorrere al frazionamento e al dosaggio degli isoenzimi.
La
determinazione dell'attività delle CPK, delle transaminasi e della LDH
(particolarmente della frazione LDH-1 o delle HBD) fa parte della routine
clinica nella diagnosi differenziale delle sindromi anginose.
È infatti noto che la necrosi della cellula miocardica determina la
liberazione di questi enzimi, con un comportamento del tutto caratteristico (per
questo di notevole valore clinico) quanto a tempo di comparsa e a persistenza di
livelli elevati. Le CPK aumentano precocemente e fugacemente entro poche ore
dalla lesione infartuale. L'aumento delle transaminasi è più tardivo e di
durata più protratta. Le LDH aumentano infine più lentamente e si mantengono
elevate per vari giorni in relazione alla più prolungata emivita.
Poiché
il rapporto AST/ALT è più elevato nel miocardio rispetto al fegato, l'indice
di De Ritis si mantiene elevato nel siero, contrariamente a quanto avviene nelle
epatopatie, pur con le riserve precedentemente avanzate sul reale significato di
questo reperto.
Data
l'importanza di diagnosticare con sicurezza un infarto miocardico, hanno avuto
larga diffusione i dosaggi degli isoenzimi cardiaci CPK-2 e LDH-1, o di alcune
componenti dell'attività enzimatica ad essi corrispondenti, chiamate anche
rispettivamente MB e HBD. Questi dosaggi, effettuabili mediante kits di facile
reperibilità e uso, permettono talora di confermare, o di escludere, con buona
attendibilità la diagnosi di infarto miocardico.
È importante notare come la diagnosi enzimatica delle cardiopatie
ischemiche non si riferisca solo all'esistenza di necrosi miocardica, ma possa
essere utile per valutare , sia pure con molta approssimazione, l'entità
dell'eventuale lesione e la sua evoluzione nel tempo. Tuttavia occorre precisare
che il dosaggio degli enzimi cardiaci non può avere valore prognostico
assoluto, in quanto l'evoluzione dell'infarto non dipende solo dall'estensione
della lesione, ma anche, e molto più significativamente, dalla sua sede e
dall'insorgenza eventuale di complicazioni.
Inoltre
occorre ricordare che, sia pure raramente, possono esistere nell'infartuato
alterazioni epatiche concomitanti, dipendenti dalla stasi circolatoria e/o
dall'ipossia, che possono determinare incrementi delle transaminasi e delle LDH
di origine extracardiaca.
Infine,
in ragione del fatto che le LDH sono in concentrazione relativamente elevata
negli eritrociti, occorre che i campioni di sangue esaminati non siano
emolizzati, ciò che provocherebbe valori falsamente elevati e possibili errori
interpretativi.
Il
sospetto clinico di pancreatite acuta richiede conferma diagnostica, che può
essere effettuata dosando le amilasi (AMI) e le lipasi (TGL) plasmatiche. Un
aumento della concentrazione plasmatica da 3 a 5 volte si ritiene significativo
per una pancreatite acuta: esso si verifica in genere entro 24 ore e si risolve
entro 8-10 giorni dall'esordio della sintomatologia nelle forme a decorso
benigno. Livelli persistenti indicano insorgenza di complicazioni, ma il livello
raggiunto non sembra correlabile alla gravità clinica.
Mentre
elevati livelli di amilasemia non danno in genere adito a dubbi diagnostici,
occorre prestare particolare attenzione all'interpretazione di livelli sierici
solo lievemente aumentati. Il dosaggio dell'enzima nelle urine delle 24 ore può
fornire un utile elemento di giudizio, soprattutto se valutato in termini di
clearance e rapportato ai valori della clearance renale della creatinina:
infatti, l'eliminazione urinaria persiste più a lungo della modificazione
dell'attività plasmatica.
Inoltre,
poiché le amilasi sono in realtà un insieme di isoenzimi, alcuni dei quali
prodotti a livello salivare, intestinale, epatico e mammario, livelli enzimatici
modicamente elevati possono essere di origine extrapancreatica: in tal caso
sarebbe utile il dosaggio degli isoenzimi specifici, per altro non alla portata
di tutti i laboratori.
Molto
meno significativo dal punto di vista diagnostico è il dosaggio delle amilasi e
delle lipasi nelle pancreatiti croniche, soprattutto nelle fasi di quiescenza e
nel sospetto di carcinoma pancreatico.
Già
si è detto come l'attività plasmatica ALP sia formata da vari isoenzimi con
caratteristiche chimico-fisiche diverse. La frazione ossea (ALP-bone) è legata
ai processi di osteogenesi: come tale può assumere significato diagnostico in
tutte le condizioni (adolescenza, iperparatiroidismo, rachitismo, morbo di
Paget, metastasi ossee ad attività osteoblastica ecc. ) in cui si abbia attiva
rigenerazione del tessuto osseo.
Un
valore elevato delle ALP totali è certamente meno indicativo di malattia ossea
di quanto non lo sia un aumento dell'isoenzima specifico.
Il
suo dosaggio non è però di facile esecuzione e non è quindi disponibile
presso tutti i laboratori.
È utile ricordare che, nelle sindromi colestatiche, l'aumento
dell'attività ALP nel siero è costantemente associato a quello delle LAP e/o
delle 5NT. Un aumento isolato dovrebbe sempre indurre il sospetto di alterazioni
ossee e, come tale, comportare ulteriori accertamenti. Tuttavia, il valore delle
ALP sieriche, e in particolare dell'isoenzima osseo, dovrebbero essere sempre
posti in relazione con l'età del paziente: valori fisiologicamente elevati sono
infatti caratteristici della giovane età (in rapporto all'intensa attività
osteoblastica che caratterizza la crescita) e un modesto innalzamento è
possibile anche nell'età avanzata (per effetto di processi di rimaneggiamento
osseo).
Gli
enzimi più significativi in corso di alterazioni muscolari sono CPK, LDH, ALT e
ALD: il loro aumento è ritenuto un indice utile per distinguere precocemente le
forme di distrofia muscolare progressiva di tipo miogeno delle atrofie muscolari
neurogene, nelle prime osservandosi aumenti molto più marcati dell'attività
enzimatica nel siero. Tuttavia occorre ricordare che qualsiasi condizione che
comporti alterazioni del tessuto muscolare striato, sia essa primitiva o
secondaria, può associarsi ad aumenti significativi dell'attività plasmatica.
È questo il caso di lesioni traumatiche, di processi distruttivi
localizzati (ascessi) o diffusi (cachessia), di alterazioni metaboliche
(esercizio fisico, rabdomiolisi in corso di ipopotassiemia): aumenti non
altrimenti spiegabili dei livelli sierici degli enzimi indicati dovrebbero
indurre sempre a considerare anche queste ipotesi. Vale in linea generale il
principio che l'entità dell'aumento dei livelli sierici è correlato alla massa
muscolare effettivamente interessata.
Ovviamente,
per poter interpretare l'aumento dell'attività sierica di questi enzimi come
indice di alterazioni della muscolatura striata è necessario che l'integrità
del fegato e del miocardio siano altrimenti dimostrate, questi tessuti essendo,
come si è detto, particolarmente ricchi degli stessi enzimi (LDH, ALT e
aldolasi nel fegato; LDH, ALT e CPK nel miocardio). Una valida alternativa,
purtroppo non sempre praticabile, è la separazione e il dosaggio degli
isoenzimi specifici. Infatti, nella patologia della muscolatura striata non si
ha coinvolgimento della frazione CPK-MB e, tra le frazioni isoenzimatiche delle
LDH, le frazioni LDH-4 e LDH-5 tendono ad essere prevalenti.
La
concentrazione delle LDH nel siero può essere notevolmente aumentata in
presenza di embolia polmonare, ma il riscontro di valori anormali in presenza di
dolori toracici pone in primo luogo il problema della diagnosi differenziale con
l'infarto miocardico. In quest'ultimo si ha in genere un aumento associato delle
CPK e/o delle transaminasi, almeno nelle fasi più precoci.
Anche
nei processi infiltrativi polmonari (ascesso polmonare, polmonite, neoplasie) si
possono avere alterazioni dei livelli sierici delle LDH.
Va
tuttavia precisato che i dosaggi enzimatici sono in pneumologia poco più di una
curiosità, se si tiene conto delle possibilità diagnostiche oggi offerte da
metodi più rapidi e di maggiore efficacia.
È un fatto ben noto che nell'anemia perniciosa si osserva un
significativo aumento delle LDH, con incrementi che, nelle forme gravi non
trattate, possono talora raggiungere valori 10 volte superiori a quelli normali.
Il ritorno alla norma avviene piuttosto rapidamente in corso di trattamento con
vitamina B12. Questo reperto è stato posto in relazione con l'eritropoiesi
inefficace che caratterizza questa malattia, per la liberazione in circolo degli
enzimi di cui sono ricchi i megaloblasti, che non possono giungere a
maturazione.
Poiché
la concentrazione di LDH negli eritrociti è circa 100 volte più alta che nel
siero e quella delle AST lo è di circa 10 volte, gravi crisi emolitiche possono
associarsi a un significativo aumento di questi enzimi in circolo. Per quanto
concerne le LDH sono soprattutto le frazioni LDH-1 e LDH-2 ad essere aumentate.
Un
aumento dell'attività sierica delle LDH e, meno, delle AST è stato descritto
in casi di policitemia vera dopo trattamento con fosforo radioattivo.
Nelle
trombocitopenie si è rilevato un aumento della ACP plasmatica nelle forme
dipendenti da aumentata distruzione piastrinica, non invece in quelle dovute a
ridotta produzione midollare.
È questo un capitolo particolarmente interessante dell'enzimologia,
anche se l'importanza pratica delle scoperte fino ad ora fatte è clinicamente
di scarso rilievo.
Nei
tumori epatici, primitivi o secondari, l'attività di alcuni enzimi può essere
aumentata nel siero: tra questi AST, ALT, LDH, GGT, 5NT e ALP. Si ritiene che un
aumento molto elevato delle GGT sia fortemente suggestivo per una lesione
neoplastica del fegato, soprattutto in assenza di altri segni di interessamento
epatico. Delle ALP sono particolarmente importanti gli isoenzimi di Regan e di
Nagao, la cui presenza nel siero è stata dimostrata nel 5-10% dei casi di
tumori maligni accertati. Discordanti sono le opinioni sulla reale utilità
clinica di questi reperti per la diagnosi di neoplasia epatica: non sembra
comunque che il loro dosaggio possa differenziare i tumori benigni da quelli
maligni, né i tumori primitivi dalle metastasi; è stato invece segnalato che
l'isoenzima di Regan, quando presente, può avere valore prognostico, poiché il
suo titolo si riduce dopo efficace trattamento chirurgico o chemioterapico.
I
valori elevati di LDH rilevati in alcune forme di leucemia sono stati posti in
relazione con l'aumentato turnover degli elementi cellulari.
È stato anche segnalato che un aumento rilevante delle LDH rappresenta
un indice prognostico sfavorevole in leucemie e linfomi. Il significato
diagnostico di questi reperti è tuttavia risultato di importanza pratica
piuttosto modesta.
In
alcuni pazienti portatori di neoplasie maligne, particolarmente in presenza di
metastasi epatiche, è infine stato segnalato un aumento dell'attività
plasmatica delle aldolasi.
È nota l'importanza che si attribuisce al dosaggio della ACP nelle
neoplasie maligne della prostata. Già l'aumento dell'attività enzimatica
totale può essere espressione di proliferazione extracapsulare o di metastasi
di carcinoma prostatico. Ancora più significativo, soprattutto in presenza di
attività totale non molto elevata, è il dosaggio della cosiddetta frazione
prostatica delle ACP.
Anche
se nell'interpretazione dei risultati occorre tenere presente che aumenti
significativi di attività ACP nel siero si possono rilevare in molte situazioni
fisiopatologiche estranee alla patologia prostatica, il riscontro di valori
abnormemente elevati deve essere considerato come un'utile indicazione per
accertamenti più approfonditi. Peraltro il valore clinico di elevata attività
ACP nel siero sembra consistere più nella possibilità di controllare
l'evoluzione della neoplasia prostatica accertata, che nel metterne precocemente
in evidenza forme iniziali nel corso di prove di screening.
Il
dosaggio dell'attività degli enzimi nel siero ha acquisito negli ultimi anni un
importanza diagnostica non trascurabile. Le conoscenze sempre più approfondite
sulla natura degli enzimi e sui determinanti fisiopatologici delle loro
modificazioni e la possibilità di separarne e dosarne in molti casi le trazioni
isoenzimatiche, permettono attualmente di disporre di informazioni difficilmente
sostituibili. In particolare, l'identificazione di caratteristici profili
enzimatici di struttura e di funzione permette di ottenere dai dosaggi
enzimatici precise informazioni sulla natura, sulla sede e sulla gravità delle
lesioni, fornendo quella che è stata definita, sia pure impropriamente, una
vera e propria "biopsia biochimica".
Su
un piano più speculativo che pratico non può essere escluso che
l'identificazione e il dosaggio di enzimi o isoenzimi a precisa localizzazione
organulare possa permettere quanto prima di caratterizzare meglio le lesioni
epatiche, ad esempio quelle determinate sul fegato da sostanze tossiche. Sarebbe
questa una risposta interessante all'esigenza di una diagnosi non invasiva del
danno epatotossico.
Non
mancano, come si è detto, problemi rilevanti, soprattutto quello di una
migliore standardizzazione dei metodi di determinazione: la loro soluzione
consentirebbe di dare ai dosaggi effettuati un valore pratico molto più
significativo, soprattutto per quanto riguarda la possibilità di confrontare
adeguatamente dati ottenuti in laboratori diversi.
G.
Molino
Titolare
Cattedra di Clinica Medica
Dipartimento
di Biomedicina
Università
di Torino
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