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Ultimo aggiornamento: 23.12.2013
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Dati
epidemiologici di varie comunità mostrano che la mortalità complessiva dovuta
ad Infarto Miocardico, a livello mondiale, nel primo mese è intorno al 50%; e
circa la metà di queste morti avviene nelle prime due ore dall'insorgenza dei
sintomi (OMS - Progetto MONICA) (1).
Questa
alta mortalità complessiva non ha subito notevoli riduzioni negli ultimi 30
anni per quanto riguarda le morti preospedaliere. Invece la mortalità nei
pazienti che arrivano in ospedale si è ridotta significativamente dal 30% (2)
al 13-27% nel primo mese (3).
La
riduzione della mortalità intraospedaliera deve essere attribuita all'insieme
di vari fattori: l'uso dei monitoraggio elettrocardiografico con il conseguente
controllo delle aritmie ventricolari, l'impiego precoce della terapia
antischemica (betabloccanti, acido Acetilsalicilico, nitroderivato) e della
terapia riperfusionale con i farmaci trombolitici.
Negli
ultimi anni le ricerche cliniche e l'esperienza angiografica suggeriscono di
dividere in due categorie i pazienti che arrivano in ospedale con il sospetto di
Infarto Miocardico Acuto (IMA):
-
pazienti con sopralivellamento del tratto ST o blocco di branco di nuova
insorgenza;
-
pazienti con sottolivellamento del tratto ST oppure ECG non diagnostico.
Alla
base di questa distinzione vi è una differenza nel substrato anatomo-patologico,
nell'evoluzione clinica e nel comportamento terapeutico.
I
pazienti con sopralivellamento di ST hanno nel 90% dei casi un trombo occludente
l'arteria coronaria responsabile dell'infarto; mentre nei pazienti con
sottolivellamento di ST tale trombo occludente viene riscontrato incostantemente
(35-75%) ed inoltre è presente spesso un circolo collaterale coronarico (4,5).
Questi dati hanno dato l'impulso al
perfezionamento e alla diffusione della terapia riperfusionale con farmaci
trombolitici e, negli ultimi anni, anche con angioplastica coronarica
In
presenza di sopralivellamento di ST associato al dolore toracico di tipo
ischemico al momento del ricovero l'evoluzione ECGgrafica e clinica è
solitamente verso un IMA con onde Q; invece in presenza di sottolivellamento di
ST o ECG non diagnostico, l'evoluzione clinica ed ECGgrafica è quella di IMA
senza onde Q o di Angina Instabile, e solo in sporadici casi la diagnosi finale
è di IMA con onde Q (fig.01
Solamente
il 50% dei pazienti con diagnosi definitiva di IMA presentano sopralivellamento
di ST al momento del ricovero (6). La diagnosi di IMA è quindi spesso una
diagnosi che può essere confermata solo a posteriori. Oltre al dolore toracico,
per cui il paziente giunge in ospedale, sono necessarie per la diagnosi
variazioni nella sequenza degli ECG e una tipica curva dei marker di citonecrosi
miocardica.
Alcuni
provvedimenti iniziali sono necessari per tutti i pazienti in cui venga posta la
diagnosi di IMA, indipendentemente dal tipo di presentazione ECGgrafica.
Per
l'alta mortalità che si verifica nelle prime ore dell'infarto questi pazienti
necessitano di percorsi preferenziali e accelerati già dall'arrivo nel Pronto
Soccorso di un ospedale. Sarebbe opportuno, quindi, che il personale medico e
infermieristico dei dipartimenti di emergenza utilizzasse schemi chiari e rapidi
per individuare fra tutti i pazienti che arrivano con dolore toracico quelli in
cui è in atto un IMA con potenziale indicazione alla trombolisi (tab.01
Tutti
i pazienti che presentano slivellamento del tratto ST insieme al dolore
toracico, necessitano il ricovero immediato in UTIC. La somministrazione dei
farmaci deve avvenire attraverso incannulamento venoso, evitando la via
intramuscolare. La monitorizzazione della traccia ECGgrafica deve essere scelta
in modo da evidenziare la sede in cui all'ECG di superficie è più spiccata
l'alterazione dell'ST. I parametri vitali (FC, PA, freq. resp.) dovranno essere
rilevati ogni mezz'ora fino al raggiungimento della stabilità emodinamica del
paziente, e poi ogni 4 ore. E' utile anche la monitorizzazione non invasiva
della saturazione arteriosa di ossigeno.
I
pazienti con ECG normale o non diagnostico, in presenza di dolore toracico,
vengono trattenuti nel Dipartimento di Emergenza e qui devono essere valutati
per escludere altre cause di dolore toracico (dissezione aortica, pericardite
acuta, miocardite acuta, pneumotorace spontaneo, embolia polmonare); intanto si
provvederà a monitorizzazione ECGgrafica e si ripeteranno ECG e prelievi dei
marker di citonecrosi miocardica (CPK-MB, Mioglobina, Troponina I e T). In caso
di variazioni ECGgrafiche o aumento dei marker nelle 12 ore successive,
indicativi di infarto miocardico, il paziente verrà ricoverato in UTIC (7).
E'
pratica routinaria somministrarlo in tutti nelle prime 3 ore attraverso
sonda nasale (2 l/min) e diventa indispensabile nei pazienti che presentano
desaturazione arteriosa di ossigeno (Sa 02 < 90%) o segni di congestione
polmonare. Nei quadri di grave scompenso cardiaco o edema polmonare, con marcata
desaturazione arteriosa di 02, è necessaria ventilazione meccanica assistita a
pressione positiva, con mascherina o eventuale intubazione endotracheale (8).
Tutti
i pazienti con sindrome coronarica acuta in cui sia presente ancora il dolore
toracico devono essere trattati con nitroderivato. Nei pazienti con sospetto IMA
e dolore toracico regredito il farmaco va somministrato in presenza di scompenso
cardiaco, esteso infarto anteriore o ipertensione arteriosa. La durata della
somministrazione è di 48 ore, e deve essere continuata se vi è recidiva di
angina o segni di congestione polmonare. E nitroderivato non deve essere
impiegato nei pazienti che presentano ipotensione (PA < 90 mmHg) o
bradicardia severa con FC < 40/min.
Gli
effetti benefici antischemici ed emodinamici sono dovuti alla vasodilatazione
che si esercita in tutti i distretti vascolari. A livello coronarico produce
vasodilatazione sia del vaso interessato dalla placca che dei vasi adiacenti.
Nel distretto venoso e arterioso la vasodilatazione produce riduzione dei
precarico e postcarico, con conseguente riduzione dei lavoro cardiaco e quindi
della richiesta di ossigeno del miocardio.
Fra
i nitroderivati quello più utilizzato è la nitroglicerina, che, per la sua
rapidità d'azione e per la breve emivita (pochi minuti), consente una migliore
maneggevolezza. La via di somministrazione nelle prime 48 ore è endovenosa. E'
sempre consigliabile comunque, già nel Dipartimento di Emergenza, somministrare
la nitroglicerina sublinguale dopo l'esecuzione del primo ECG e, in caso di
pronta regressione dei dolore, verificare l'eventuale normalizzazione dell'ECG
(Angina Variante).
Il
dosaggio della nitroglicerina e.v. è compreso fra 10 e 200 microg/min,
iniziando dal dosaggio più basso e aumentando di 10 microg ogni 10 min. Il
limite è rappresentato dalla riduzione della pressione arteriosa media del 10%,
o del 30% nei pazienti ipertesi, o dall'aumento della FC di più di 15 battiti
al minuto e, comunque, non oltre 110/min. Il raggiungimento dei dosaggi più
alti, in assenza di cefalea da parte del paziente e di significativi effetti
emodinarnici e antischemici, non comporta rischi di tossicità, ma denota la
comparsa di tolleranza al farmaco; dovrebbe quindi essere sospesa la
somministrazione per 12 ore e intanto sostituita con un altro vasodilatatore.
Nei
pazienti nei quali per la presenza di scompenso cardiaco, di esteso infarto
anteriore o di angina ricorrente, la somministrazione di nitroderivato deve
essere continuata oltre le 48 ore, si utilizza poi la via di assunzione orale o
transdermica.
Molta
cautela è richiesta nel caso di IMA coinvolgente il ventricolo dx in cui un
certo precarico è essenziale per ottenere una adeguata gittata sistolica
ventricolare dx (9).
E'
ormai chiaro che ottenere una rapida regressione del dolore toracico di origine
ischemica è fondamentale per ridurre l'ipertono simpatico presente nelle fasi
iniziali dell'IMA. Tale ipertono agisce sfavorevolmente incrementando la
richiesta miocardica di ossigeno, attraverso l'aumento della frequenza cardiaca,
della pressione arteriosa e della contrattilità miocardica; inoltre aumenta la
tendenza a sviluppare aritmie ventricolari. I farmaci antischemici
(nitroglicerina e beta-bloccanti) hanno un sicuro effetto nel ridurre il dolore
dovuto all'ischemia, ma bisogna ugualmente somministrare subito anche la morfina
e.v., a dosi di 4 mg ogni 5 min, fino ad ottenere una adeguata regressione del
dolore (10). Il rischio di depressione respiratoria secondaria alla morfina è
raro nei pazienti con dolore ischemico o con edema polmonare, come anche raro è
il rischio di ipotensione dovuto alla morfina in questi pazienti in posizione
supina; è comunque sufficiente ridurre la eventuale somministrazione di
nitroglicerina per ottenerne il controllo. Nei casi di nausea e vomito
conseguenti alla somministrazione di morfina è necessario l'impiego
dell'atropina.
La
somministrazione di ASA ai pazienti con IMA dovrebbe essere attuata tra i primi
provvedimenti, al dosaggio di 160-325 mg per os, masticata per un più rapido
assorbimento, e continuata indefinitamente con 160 mg/die. Lo studio ISIS-2 ha
dimostrato in oltre 17.000 pazienti che l'ASA riduce la mortalità a 35 giorni
del 23% e in associazione alla streptochinasi la riduzione è del 42% (11).
Molti altri studi hanno dimostrato che l'ASA riduce l'incidenza di riocclusione
coronarica e di recidive ischemiche nei pazienti sottoposti a trombolisi (12).
Anche a lunga distanza è significativa la riduzione di mortalità dovuta all'ASA,
indipendentemente dalla terapia fibrinolitica, e l'efficacia è stata
documentata anche per dosaggi bassi (100 mg/die) (13); mentre gli effetti
indesiderati, soprattutto quelli gastrolesivi, si sono rivelati dose-dipendenti
(14).
L'ASA
agisce attraverso una rapida inibizione della formazione del trombossano A2
nelle piastrine, una sostanza che promuove l'aggregazione piastrinica ed è un
potente vasocostrittore. L'effetto sulle piastrine è immediato e definitivo,
infatti dura per tutta la vita delle piastrine (7-10 giorni). L'assorbimento
dopo somministrazione orale, soprattutto se con masticazione, è rapido, e
l'azione di inibizione del trombossano è già evidente prima che l'ASA sia
presente in circolo (azione a livello del circolo portale) (15).
Nei
pazienti con allergia o intolleranza marcata all'ASA può essere utilizzata la
ticlopidina, la cui efficacia, però, nei pazienti con IMA è meno certa
rispetto a quelli con angina instabile.
La
somministrazione del beta-bloccante nelle prime fasi dell'IMA ha dimostrato una
riduzione di morbidità e di mortalità già dalle prime ore e che si protrae
nelle settimane, nei mesi e negli anni seguenti. Nella fase acuta dell'infarto
il beta-bloccante riduce la richiesta miocardica di ossigeno attraverso la
riduzione della FQ della PA e della contrattilità miocardica; riduce
l'estensione dell'infarto e le sue complicanze nei pazienti non sottoposti a
trombolisi e riduce l'incidenza di reinfarto in quel che sono stati trombolisati
(16). Nello studio ISIS-1 che ha coinvolto più di 16.000 pazienti con IMA, la
somministrazione di atenololo (5-10 mg e.v., seguiti da 100 mg/die per os) ha
ridotto la mortalità a 7 gg. dal 4,6% al 3,9% (17). Nello studio MIAMI la
somministrazione di metoprololo (15 mg e.v. in 3 dosi, seguiti da 200 mg/die per
os, in 4 dosi nei primi 2 gg. e poi in due dosi) ha ridotto la mortalità a 15
gg. dal 4,9 % al 4,3 % (18).
Effetti
indesiderati dovuti al beta-bloccante (blocco atrio-ventricolare, bradicardia
marcata, ipotensione) possono essere prontamente trattati con un beta-agonista
(isoproterenolo 1-5 gg/min.).
E'
da considerare, quindi, indispensabile la somministrazione immediata di uno dei
due beta-bloccanti nei pazienti con IMA che arrivino entro le prime 12 ore, in
assenza di controindicazioni ed indipendentemente dall'eventuale utilizzo di
trombolitici. Oltre le 12 ore è sicuramente indicato nei pazienti con ischemia
ricorrente o episodi tachiaritmici sopraventricolari o ventricolari, e nei
pazienti ad alto rischio (pregresso infarto, IMA anteriore, età avanzata,
disfunzione sistolica del ventricolo sinistro); mentre nei pazienti a basso
rischio gli effetti di riduzione di eventi cardiovascolari sono meno marcati ma
ugualmente presenti. Pertanto l'impiego del beta-bloccante è da consigliare in
tutti i casi, esclusi quelli con chiare controindicazioni, e la somministrazione
deve essere continuata indefinitamente.
Le
controindicazioni all'utilizzo del beta-bloccante sono da considerare relative e
in presenza di una di esse va sempre valutata la possibilità di poterla
contrastare con altri provvedimenti, pur di permettere l'utilizzo dei
beta-bloccante (tab.02
L'ACE-inibitore
è efficace nel ridurre la mortalità nei pazienti con IMA, e soprattutto nei
pazienti che per la presenza di scompenso cardiaco, sede anteriore della
necrosi, tachicardia o pregresso infarto, vengono considerati ad alto rischio.
Studi clinici come l'ISIS-4 (19), con il captopril, e il GISSI-3 (20), con il
lisinopril, hanno documentato i benefici della somministrazione precoce
dell'ACE-inibitore riducendo la mortalità a 5 settimane sia nei pazienti con
sottolivellamento di ST che con sopralivellamento, ed indipendentemente dalla
somministrazione del trombolitico. Una metanalisi di tutti gli studi sugli
ACEinibitori nell'IMA, che ha raccolto più di 100.000 pazienti, ha concluso che
la riduzione di mortalità dovuta al farmaco (7,2% vs. 7,7%) comportava 4,6 vite
salvate ogni 1000 pazienti trattati (21).
La
somministrazione è quindi raccomandata in tutti i pazienti nelle prime ore
dell'IMA, dopo l'eventuale terapia trombolitica e dopo l'inizio della terapia
antischemica, quando la PA è stabilizzata; cominciando con basse dosi, per es.
captopril 6,25 mg, seguito da altri 12,5 mg 2 ore dopo, 25 mg dopo 12 ore e
infine 50 mg due volte al di. Nei pazienti che non abbiano presentato
complicanze emodinamiche durante la degenza e che non abbiano disfunzione
ventricolare sinistra residua (FE >50%) la terapia con ACEinibitore può
essere sospesa dopo 6 settimane; mentre negli altri deve essere continuata. Nei
pazienti che presentano disfunzione ventricolare sinistra e che non siano già
in terapia con ACE-inibitore è utile iniziare tale terapia anche a distanza
dall'episodio infartuale.
Le
controindicazioni alla terapia con ACE-inibitore nell'IMA sono rappresentate
dall'ipotensione (PA<100 mmHg), dall'insufficienza renale, esclusa la
nefropatia diabetica (22) o ipertensiva (23), e dalla stenosi dell'arteria
renale bilaterale.
La
terapia trombolitica attualmente costituisce il presidio fondamentale nella fase
acuta dell'IMA. Dopo gli studi di De Wood dei primi anni '80 (4), che mostravano
la presenza di un trombo occludente la coronaria responsabile nella quasi
totalità degli IMA con sopralivellamento di ST studiati nelle prime 4 ore,
l'interesse si è concentrato sulla possibilità di ricanalizzare
tempestivamente la coronaria occlusa per ottenere benefici sulla sopravvivenza
dei pazienti e sul rimodellamento ventricolare. Numerosi studi sull'impiego di
vari farmaci trombolitici hanno confermato tali aspettative, e da una recente
metanalisi comprendente tutte le ricerche con più di 1000 pazienti (totale
58.600), è emerso che la riduzione della mortalità a cinque settimane dall'IMA
è altamente significativa e corrisponde a 18 vite salvate ogni 1000 pazienti
trattati (24). Gli effetti benefici sulla mortalità sono evidenti anche a
distanza di mesi e anni dal trattamento. Nell'analisi dei sottogruppi la
riduzione di mortalità è maggiore nei pazienti con sopralivellamento di ST o
con blocco di branca, e che siano stati sottoposti a trombolisi entro 6 ore
dall'insorgenza del dolore: 30 vite salvate ogni 1000 pazienti trattati. Nei
pazienti trattati fra la 6a e la 12a ora, le vite salvate erano 20 ogni 1000
pazienti. Oltre la 12,1 ora non è emerso un chiaro vantaggio per la terapia
trombolitica. Rispetto alla sede dell'IMA il vantaggio maggiore è risultato per
gli IMA anteriori rispetto a quelli in sede inferiore, con un numero di vite
salvate di 37 ogni mille pazienti, contro 9 negli IMA inferiori. Il gruppo di
pazienti con sottolivellamento di ST, invece, ha mostrato un incremento della
mortalità dovuta al trombolitico: 14 morti in più ogni 1.000 pazienti trattati
rispetto ai controlli (tab.03
Nei
pazienti con sopralivellamento di ST o blocco di branca, il vantaggio dovuto
alla terapia trombolitica si manifesta in tutte le classi di età,
indipendentemente dal sesso, dalla PA, dalla FC e dalla presenza di pregresso
infarto miocardico o diabete nell'anamnesi. La riduzione relativa di mortalità
è maggiore nelle classi giovani, ma la riduzione assoluta è più alta nei
pazienti più vecchi, a causa del maggiore rischio intrinseco dell'IMA in questa
età. Dai dati della metanalisi, i maggiori benefici sulla sopravvivenza, dovuti
al fibrinolitico, si sono quindi riscontrati nei casi di somministrazione
precoce del trombolitico e negli IMA a più alto rischio: sede anteriore,
presenza di diabete mellito, ipotensione arteriosa "100 mmHg) e tachicardia
sinusale (>100/min). Nei casi di IMA in sede inferiore, i benefici sono
minori, tranne i casi in cui sia coinvolto il ventricolo dx (ST sopralivellato
in VR4), oppure sia associato un diffuso sottolivellamento dei tratto ST nelle
derivazioni precordiali. Benefici minori si ottengono anche quando la PA
sistolica è >175 mmHg, per il relativo incremento del rischio di ictus
emorragico.
I
pazienti con IMA e sottolivellamento di ST non si giovano dell'impiego dei
fibrinolitici e anzi mostrano un aumento della mortalità globale, per l'alta
incidenza di eventi emorragici maggiori, non compensati dalla mancata riduzione
della mortalità cardiaca.
Attenzione,
invece, deve essere posta ai pazienti che presentano sottolivellamento di ST
limitato nelle derivazioni precordiali (V1-V4); infatti tale alterazione può
essere segno di corrente di lesione in regione posteriore (sopralivellamento di
ST in V7-V8) e in questi casi la terapia fibrinolitica è indicata.
La
terapia fibrinolitica comporta un rischio di ictus ed emorragie aumentato.
Questo rischio è soprattutto presente nel primo giorno di terapia. L'incidenza
di stroke, dai dati della metanalisi, è risultata 1,2% nei pazienti
trombolisati, e 0,8% nei controlli; con un eccesso di 4 stroke ogni 1000
pazienti sottoposti a fibrinolisi. L'eziologia nei casi accertati è stata
prevalentemente dovuta ad emorragia cerebrale. Le variabili indicative di
rischio aumentato di emorragia cerebrale sono l'età avanzata (>65 aa.), il
basso peso corporeo <70 kg), l'ipertensione arteriosa e l'impiego di r-TPA
(25).
L'incidenza
di emorragie maggiori, non cerebrali, è risultata 1,1% nei pazienti
trombolisati e 0,4% nei controlli, con un eccesso di 7,3 emorragie maggiori ogni
1000 pazienti trattati (24). Per le emorragie non cerebrali non si sono
riscontrate differenze nei sottogruppi di pazienti trattati.
Le
differenze fra i vari agenti fibrinolitici sono state analizzate in alcune
ricerche specifiche. Nello studio GUSTO l'attivatore tissutale del plasminogeno
(r-TPA) è stato confrontato con la streptochinasi (26). La percentuale di
ricanalizzazione, a 90 min dalla somministrazione del farmaco, è risultata 81%
per l'r-TPA e 56% per la streptochinasi; tale differenza concorda con la diversa
mortalità a 30 giorni nei pazienti trattati con r-TPA (6,3 %) rispetto a quelli
trattati con streptochinasi (7,2%). L'r-TPA però ha causato una più alta
incidenza di ictus emorragico (0,72% vs. 0,49%) e la differenza di mortalità a
vantaggio dell'r-TPA, inoltre, non era più significativa quando i pazienti
venivano trattati oltre la 4a ora.
Da
questo e da altri studi è emerso che l'r-TPA è il farmaco più efficace
nell'ottenere una rapida ricanalizzazione coronarica, con i conseguenti benefici
sulla sopravvivenza, ma esso comporta maggiori rischi di emorragia cerebrale ed
è anche molto costoso. Il rapporto costo-beneficio è quindi favorevole solo
nei pazienti che giungono precocemente in ospedale (<4 ore), che presentano
una estesa area infartuale (es. IMA anteriore) e sono a basso rischio di
emorragia cerebrale.
La
streptochinasi ha, invece, un migliore rapporto costo-beneficio nei pazienti che
giungono oltre la 4a ora dall'inizio dei sintomi, in quelli che presentano una
limitata area infartuale (es. IMA inferiore) e in quelli a rischio di emorragia
cerebrale (età avanzata e ipertensione arteriosa). L'impiego della
streptochinasi provoca la formazione di anticorpi neutralizzanti che ne
impediscono un eventuale riutilizzo almeno nei 2 anni seguenti.
Come
nel protocollo dello studio GUSTO l'r-TPA deve essere somministrato in modalità
"accelerata" in 90': 15 mg e.v. in bolo, seguiti da 0,75 mg/kg in 30'
(max 50 mg), seguiti da 0,50 mg/kg in 60' (max 35 mg); e deve essere associata
subito l'eparina ex. (5.000 U in bolo, seguiti da 1000 U/h). Nel caso di impiego
della streptochinasi il dosaggio è di 1.500.000 U e.v. in 60', seguita dopo 4
ore da eparina sottocutanea 25.000 U in due somministrazioni giornaliere.
Pertanto
la terapia fibrinolitica deve sempre essere attuata in tutti i casi di IMA in
cui siano trascorse < 12 ore dall'inizio del dolore toracico di tipo
ischemico e sia presente sopralivellamento di ST > 0,1 mV in due o più
derivazioni ECGgrafiche contigue, oppure blocco di branca che mascheri le
alterazioni del tratto ST.
Le
controindicazioni all'uso dei trombolitici possono essere di tipo assoluto, come
per es. il sospetto di dissezione aortica o la presenza di tumore intracranico;
oppure di tipo relativo e, in questo caso, costituiscono soprattutto precauzioni
che richiedono una più attenta valutazione del rapporto rischio-beneficio
nell'utilizzo dei fibrinolitico e un più frequente monitoraggio del paziente (tab.04
In
era pretrombolitica e poi in associazione ai farmaci fibrinolitici, l'eparina ha
dimostrato una moderata efficacia nel ridurre la mortalità e il rischio di
reinfarto (27,28).
Nei
pazienti con IMA e non sottoposti a terapia trombolitica, sia che abbiano ECG
con ST sopralivellato o sottolivellato, è indicata la terapia eparinica e.v.
nelle prime 48 ore (si inizia con un bolo di 5000 U a cui segue infusione di
circa 1000 U/h, in modo da mantenere il PTT fra 1,5 e 2 volte il valore basale)
(tab.05
Nei
pazienti sottoposti a trombolisi con r-TPA è indicata la terapia eparinica e.v.
nelle prime 48 ore. Poi anche in questi pazienti, se non esistono elementi di
rischio embolico venoso o sistemico, si continua solo con antiaggregante. Invece
in caso di alto rischio embolico si continua con l'anticoagulante orale. Se è
richiesta solo profilassi della trombosi venosa profonda si utilizza l'eparina
sottocutanea.
Nei
pazienti sottoposti a trombolisi con streptochinasi, o altri agenti trombolitici
non fibrino-specifici (anistreplase; urochinasi), si verifica una vasta
demolizione del sistema di coagulazione con formazione di numerosi prodotti di
degradazione del fibrinogeno, che sono anch'essi anticoagulanti. In questi
pazienti è indicato l'impiego dell'eparina sottocutanea, 12.500 U. due volte al
dì, per 48 ore, da iniziare dopo 4 ore dalla somministrazione della
streptochinasi. Invece se è presente un alto rischio embolico, anche in questi
pazienti trattati con streptochinasi si comincia con eparina e.v. (dopo 4 ore
dalla somministrazione della streptochinasi e previo controllo del PTT), che
deve essere sceso a circa 70 s), senza il bolo iniziale ma direttamente con
l'infusione continua di circa 1.000 U/h, in modo da mantenere il PTT fra 1,5 e 2
volte il basale. Questi pazienti ad alto rischio proseguono dopo 48 ore con
l'anticoagulante orale.
Nei
pazienti con IMA che vengono sottoposti ad angioplastica coronarica primaria o
ad intervento di by-pass aorto-coronarico è indicata l'eparina e.v. Nel caso
dell'angioplastica sono necessarie alte dosi di eparina in modo da mantenere il
Tempo di Coagulazione Attivato fra 300 e 350 s durante la procedura.
Molte
ricerche hanno dimostrato che l'angioplastica coronarica è praticabile nella
fase acuta dell'IMA e i risultati angiografici sono ottimi, con una percentuale
di riapertura dell'arteria occlusa intono al 90% (30); buoni sono anche i
risultati clinici in termini di sopravvivenza e di eventi cardiovascolari (31,
32, 33). Lo studio GUSTO-IIB ha mostrato una riduzione della mortalità a un
mese del 18,6% nei pazienti trattati con angioplastica primaria rispetto a
quelli trattati con r-TPA (5,7% vs. 7%), e la riduzione complessiva degli eventi
primari è stata ancora più significativa, 29,9% in meno di emorragie
intracerebrali, reinfarti e morte nei pazienti sottoposti ad angioplastica
primaria(9,6% vs. 13,7%)(34).
I
risultati favorevoli dall'angioplastica primaria di questo studio, come di altri
precedenti, devono però essere considerati nel contesto delle strutture
ospedaliere in cui si sono svolti; cioè i laboratori e gli operatori coinvolti
erano tutti con una elevata capacità e volume di procedure eseguite (oltre 75
angioplastiche in un anno per ogni operatore e oltre 200 angioplastiche in un
anno per ogni laboratorio); l'attuazione dello studio di confronto fra le due
procedure terapeutiche ha prodotto un percorso preferenziale per i pazienti con
IMA che andavano incontro ad angioplastica primaria, ottenendo, in questo modo,
tempi di ricanalizzazione inferiori ai 60-90 minuti, dal momento della diagnosi
alla riapertura coronarica; e una incidenza di rivascolarizzazione chirurgica di
emergenza <5%, in caso di fallimento o inadeguatezza dell'angioplastica
primaria.
Tali
condizioni ovviamente non sono riproducibili in ogni laboratorio di emodinamica
ed inoltre solo una minoranza delle strutture cardiologiche è fornita di
laboratori di emodinamica e di cardiochirurgia.
Pertanto
l'impiego dell'angioplastica primaria nell'IMA, in alternativa alla terapia
trombolitica, può essere indicato nelle situazioni in cui l'esistenza di un
laboratorio e di operatori, con alta capacità e volume di procedure, permette
di ottenere la riapertura dell'arteria coronarica responsabile dell'IMA entro i
60 minuti dalla diagnosi. L'indicazione all'angioplastica primaria diventa più
evidente nei casi di IMA con qualche controindicazione all'uso del trombolitico.
I
criteri ECGgrafici e clinici per l'impiego dell'angioplastica nella fase acuta
dell'IMA sono gli stessi della terapia trombolitica, sia per il tempo trascorso
dall'inizio del dolore che per la presenza di sopralivellamento di ST o blocco
di branca.
I
pazienti con IMA e sottolivellamento di ST, invece, devono essere sottoposti a
coronarografia e ad eventuale procedura di rivascolarizzazione con angioplastica
o chirurgica, solo se, nonostante la terapia antischemica e vasodilatante messa
in atto, non si ottenga una stabilizzazione clinica ed emodinamica e si instauri
ischemia ricorrente, o insufficienza ventricolare sinistra o uno stato di shock
cardiogeno (35).
In
era pretrombolitica alcuni studi avevano mostrato che l'intervento chirurgico di
by-pass coronarico nella fase acuta dell'IMA e in particolari condizioni, era
praticabile con soddisfacenti risultati (36, 37). Le iniziali esperienze
riguardavano pazienti con IMA complicato da shock e in cui l'anatomia coronarica
era nota per essere adatta a rivascolarizzazione chirurgica.
L'avvento
della terapia trombolitica, con i suoi successi, aveva spento gli interessi
verso la chirurgia "elettiva" nella fase acuta dell'IMA. E suo impiego
era stato limitato alla fase subacuta dell'infarto nei casi in cui la ricorrenza
degli episodi ischemici, o il deterioramento emodinamico, o la comparsa di
complicanze meccaniche, non potevano essere risolti con la terapia farmacologica
(38).
Negli
ultimi anni, con l'utilizzo dell'angioplastica primaria nella fase acuta
dell'IMA, gli interventi chirurgici di rivascolarizzazione coronarica sono
diventati più frequenti, in tutti quei casi in cui il tentativo di
angioplastica primaria risulti fallire o mostri una anatomia coronarica
inadeguata (malattia trivasale o del tronco comune), e quindi più adatta ad un
by-pass (2-5% dei casi).
Si
può dire, quindi, che attualmente l'intervento chirurgico di by-pass coronarico
con carattere di emergenza o urgenza nelle fasi acute dell'IMA è indicato nei
casi di fallimento dell'angioplastica primaria e persistenza di dolore con
estesa area infartuale o instabilità emodinamica.
Nella
fase subacuta dell'infarto il bypass coronarico urgente è indicato nei casi di
ischemia ricorrente e refrattaria alla terapia medica e con anatomia coronarica
più adatta alla chirurgia che all'angioplastica. Lo shock cardiogeno, in
presenza di una anatomia coronarica adatta alla rivascolarizzazione chirurgica,
costituisce anche una indicazione urgente all'intervento.
Nei
casi di intervento chirurgico urgente necessario per la correzione di una
complicanza meccanica dell'infarto (insufficienza mitralica, difetto del setto
interventricolare), se le condizioni cliniche permettono l'esecuzione di
un'angiografia coronarica, è indicato associare anche il by-pass coronarico.
L'azione
vagolitica dell'atropina produce aumento della frequenza sinusale e facilita la
conduzione del nodo atrio-ventricolare. Nelle prime ore dell'IMA l'atropina è
indicata quando si verificano alcune situazioni specifiche:
-
bradicardia sinusale (<50/min) con segni di bassa portata cardiaca ed
ipoperfusione periferica, oppure quando, all'esordio dell'IMA, alla bradicardia
si associano frequenti extrasistoli ventricolari con lungo intervallo di
accoppiamento;
-
negli IMA in sede inferiore, quando la comparsa di blocco a-v di 2°grado tipo I
o di 3°grado si associa a sintomi da ipotensione, dolore toracico o aritmie
ventricolari;
-
bradicardia ed ipotensione secondarie alla somministrazione di nitroderivato.
-
nausea e vomito causati dalla somministrazione di morfina;
-
asistolia ventricolare; in questi casi l'atropina viene somministrata alla dose
di 1 mg e.v. e può essere ripetuta ogni 3-5 min, intanto che proseguono le
manovre rianimatorie.
Nei
casi di bradicardia sinusale (>40/min) asintomatica non è indicato l'uso
dell'atropina, come non è indicato nei casi di blocco a-v di 2°grado tipo II o
di 3°grado con QRS largo di nuova comparsa, in cui per la verosimile sede
sottonodale del blocco l'atropina sarebbe inefficace ed inoltre attraverso
l'aumento della frequenza sinusale potrebbe aggravare la conduzione
atrio-ventricolare.
La
dose consigliata di atropina è 0,5 mg e.v., che può essere ripetuta, se
necessario, ogni 5 minuti fino ad una dose massima di 2,5 mg. Effetti
indesiderati dell'atropina possono essere la ritenzione urinaria e, in caso di
alte dosi, allucinazioni. L'effetto tachicardizzante dell'atropina può
provocare aggravamento dell'ischemia in atto, con ricomparsa del dolore
toracico.
L'infarto
del ventricolo dx si verifica quasi esclusivamente nel quadro di un IMA in sede
inferiore. Il rapporto richiesta-offerta di ossigeno nel ventricolo dx è più
favorevole rispetto al ventricolo sn, a causa della ridotta massa ventricolare
dx, della perfusione coronarica dx che avviene sia in sistole che in diastole, e
dell'ampio circolo collaterale esistente da sn a dx.
Circa
la metà degli IMA inferiori mostrano un interessamento ischemico dei ventricolo
dx (9, 39). Tale danno può variare da una modesta disfunzione contrattile, con
successivo completo recupero da parte del miocardio (stordito), a una più
conclamata compromissione emodinamica, con segni di insufficienza cardiaca, nel
15% dei casi (40). I segni di ischemia del ventricolo dx dovrebbero essere
ricercati in tutti gli IMA inferiori. Il sopralivellamento di ST nella
derivazione precordiale dx (V4R) è il segno più specifico del coinvolgimento
dx, anche se non molto sensibile e, soprattutto, spesso della durata di poche
ore. Nei casi dubbi l'ecocardiogramma può essere dirimente; infatti mostra
dilatazione del ventricolo dx, con asinergie diffuse e anomalie del setto
interventricolare.
I
segni clinici di ipotensione, campi polmonari chiari e aumentata pressione
venosa giugulare, nel quadro di un IMA inferiore, sono molto specifici di una
compromissione ischemica del ventricolo dx. E' tipica dell'IMA del ventricolo dx
una prolungata ed eccessiva ipotensione, conseguente alla somministrazione del
nitroderivato sublinguale, e sproporzionata al danno nel ventricolo sn (41). La
distensione delle vene giugulari può essere non rilevabile in condizioni di
ipovolemia, ed evidenziarsi solo dopo adeguata somministrazione di liquidi al
paziente (42).
La
dilatazione del ventricolo dx causa distensione e tensione del pericardio,
quindi alla disfunzione sistolica del ventricolo dx si aggiunge la riduzione del
volume telediastolico e della gittata sistolica del ventricolo sn (43). Tutti i
fattori che riducono il precarico (ipovolemia, diuretici, nitroderivati), e che
causano perdita della contrazione atriale (FA) o della coordinazione
atrioventricolare (BAV) sono deleteri per il mantenimento di una sufficiente
gittata sistolica del ventricolo dx.
Nei
casi di IMA del ventricolo dx con evidenza di compromissione emodinamica, il
trattamento mira al mantenimento di un adeguato riempimento ventricolare dx,
alla riduzione del postcarico del ventricolo dx, al supporto inotropo e a una
rapida riperfusione coronarica:
-
somministrazione di liquidi (soluzione elettrolitica isotonica e.v.);
-
evitare l'uso di nitroderivati e diuretici;
-
mantenere la coordinazione atrioventricolare (in caso di BAV utilizzare
elettrostimolazione sequenziale), e il sincronismo della contrazione atriale (in
caso di FA procedere subito a cardioversione);
-
supporto inotropo (dobutamina ex. 3-30 microg/kg/min) se la rapida
somministrazione di 1-2 litri di soluzione salina non ha portato al
miglioramento dell'ipotensione e della portata cardiaca;
-
riduzione del postcarico ventricolare dx nel caso di disfunzione sistolica a
carico del ventricolo sn (contropulsatore aortico; nitroprussiato e.v. 0,3-10
microg/kg/min; ACEinibitore);
-
terapia riperfusionale (trombolitico; angioplastica primaria;
rivascolarizzazione chirurgica in caso di malattia coronarica multivasale).
L'insufficienza
ventricolare sn causata da una estesa area infartuale può presentare
alterazioni emodinamiche che riguardano la portata cardiaca, le pressioni di
incuneamento polmonare e la pressione arteriosa sistemica. La relativa
prevalenza di una di queste alterazioni e il suo grado di severità determinano
quadri clinici differenti con diversa prognosi e approccio terapeutico. Si va
dal modesto grado di congestione polmonare con aumento delle pressioni di
incuneamento polmonare, ma senza significativa riduzione della portata cardiaca
o della pressione arteriosa sistemica (>95 mmHg), ai casi di marcata
compromissione emodinamica con PA <80 mmHg, grave riduzione della portata
cardiaca e quadro clinico di shock cardiogeno.
In
queste condizioni è indicata l'inserzione di catetere di Swan-Ganz, per il
monitoraggio invasivo della portata cardiaca, delle pressioni di incuneamento
polmonare e delle pressioni nelle sezioni dx, quando si instaura:
-
grave scompenso cardiaco progressivo o edema polmonare che non risponda subito
alla terapia medica e all'eventuale terapia riperfusionale (trombolisi);
-
shock cardiogeno o progressiva ipotensione;
-
complicanza meccanica dell'IMA (difetto del setto interventricolare; rottura di
muscolo papillare; tamponamento cardiaco);
-
ipotensione da sospetto IMA del ventricolo dx che non risponda alla
somministrazione di liquidi.
Le
decisioni terapeutiche basate sulle informazioni ottenute con il catetere di
Swan-Ganz permettono di raggiungere la più alta portata cardiaca con il minimo
incremento possibile di pressioni di riempimento ventricolare. Per il rischio di
complicanze polmonari nel caso di prolungata inserzione del catetere di
Swan-Ganz, si consiglia di non protrarre la durata oltre 4-5 giorni.
I
casi con aumentate pressioni di incuneamento polmonare, senza ipotensione o
riduzione della portata cardiaca, necessitano di trattamento diuretico
(furosemide ex.) e vasodilatante sul versante arterioso e venoso
(nitroderivato). L'uso dell'ACEinibitore in questi casi è opportuno.
Nei
casi più severi, con bassa portata cardiaca, ipotensione arteriosa (PA <90
mmHg) e aumentate pressioni di incuneamento polmonare, è necessario l'impiego
di farmaci inotropi. La loro scelta dipende dall'effetto richiesto in quel
momento. Se il paziente è gravemente ipoteso e serve subito un effetto
vasocostrittore per raggiungere una PA di almeno 80 mmHg, è indicato un farmaco
alfa-stimolante come noradrenalina o dopamina ad alte dosi. Quando la PA
sistofica è >90 mmHg ed è presente bassa portata cardiaca, è richiesto,
oltre all'effetto inotropo, anche un effetto vasodilatante; è indicato quindi
un farmaco beta1-stimolante come la dobutamina. Quando è richiesto un effetto
tachicardizzante, come nel caso di severa bradicardia con ipotensione e in
attesa di elettrostimolazione d'emergenza, può essere indicato un farmaco beta1
stimolante come l'isoproterenolo. I farmaci inotropi non simpaticomimetici come
amrinone e milrinone (inibitori delle fosfodiesterasi), oltre a un effetto
positivo sulla contrattilità hanno un effetto vasodilatante; ma l'iniziale
speranza che possedessero minore rischio di aritmie, rispetto ai
simpaticomimetici, è andata delusa.
Nei
casi in cui le condizioni lo permettono dovrebbe essere preso in considerazione
l'utilizzo del contropulsatore aortico, quando serve una riduzione del
postcarico o in sostituzione degli inotropi.
I
pazienti con IMA e shock cardiogeno, che abbiano malattia coronarica multivasale
e che non siano adatti a terapia riperfusionale con trombolitico o angioplastica
primatia, possono essere candidati alla rivascolarizzazione chirurgica d'urgenza
(44, 45).
La
dopamina a basse dosi (1-3 microg/kg/min) sembra avere i maggiori effetti
attraverso la stimolazione di specifici recettori dopaminergici renali
producendo una modesta dilatazione vascolare renale; a dosi di 5-10
microg/kg/min prevale la stimolazione dei recettori beta1 provocando aumento
della contrattilità e della frequenza cardiaca; a dosi più alte predomina la
stimolazione sui recettori cc, che produce vasocostrizione. La noradrenalina può
essere utilizzata a dosi di 2-20 microg/kg/min. quando nonostante le alti dosi
di dopamina permane severa ipotensione.
La
dobutamina è indicata nei casi di bassa portata cardiaca in assenza di marcata
ipotensione, con dosaggi compresi fra 3 e 30 microg/kg/min, fino ad ottenere la
risposta desiderata; oltre i 20 microg/kg/min aumenta considerevolmente il
rischio di tachiaritmie.
Gli
inibitori delle fosfodiesterasi possono essere impiegati nei casi di mancata
risposta ai simpaticornimetici: miltinone (dose iniziale 50 microg/kg ev in 10',
seguito da dose di mantenimento 0,25-0,75 microg/kg/min), Amrinone (dose
iniziale 0,75 microg/kg in 3', seguita da dose di mantenimento di 5-10
microg/kg/min).
E'
importante che la durata della somministrazione degli inotropi venga limitata al
minimo indispensabile.
La
comparsa di dolore toracico durante il ricovero può avvenire per recidiva
ischemica oppure per flogosi pericardica. Il dolore dovuto a pericardite
solitamente si verifica dopo la 1a giornata ed ha caratteristiche diverse dal
dolore ischemico; ha la qualità del dolore pleuritico o di tipo posizionale.
La
pericardite postinfartuale è dovuta alla necrosi miocardica che si estende a
tutto spessore fino all'epicardio; infatti è più frequente negli infarti molto
estesi (46). L'incidenza della pericardite era del 7-20% in era pretrombolitica
(47), mentre nelle casistiche di pazienti sottoposti a trombolisi risulta essere
più bassa (5%) (48). Un versamento pericardico rilevabile ecocardiograficamente
è nel 40% dei casi, ma raramente ha importanza emodinamica (49).
La
sindrome di Dressier era una forma di flogosi pericardica di tipo autoimmune, e
sembra essere sostanzialmente scomparsa in era trombolitica (50).
Il
trattamento di scelta della pericardite postinfartuale è l'Acido
acetilsalicilico (ASA), a dosaggi fino a 650 mg per os ogni 4 o 6 ore, che
solitamente porta alla remissione dei sintomi entro 48 ore.
Quando
è in corso la terapia eparinica, la comparsa di segni e sintomi di pericardite
non richiede necessariamente la sospensione dell'eparina, ma obbliga ad una
attenta vigilanza per rilevare subito eventuali segni di versamento o di
compromissione emodinamica.
Solitamente
la ricomparsa di dolore toracico di tipo ischemico nelle prime 12 ore viene
considerata ancora espressione dell'IMA iniziale. L'angina postinfartuale è un
evento frequente soprattutto nei pazienti con IMA non Q, e arriva fino al 37%
dei casi (51, 53, 54); mentre nei pazienti sottoposti a trombolisi occorre nel
20% dei casi (26).
Il
reinfarto si verifica nel 4-7% dei pazienti, senza significative differenze nei
sottogruppi in base alla presenza o assenza di onde Q o all'eventuale terapia
riperfusionale (26, 52). Nello studio MILIS i pazienti con reinfarto
intraospedaliero ebbero una mortalità del 30%, e il 24% di essi sviluppò shock
cardiogeno (52).
La
diagnosi di reinfarto si basa, oltre che sulla durata protratta della
stenocardia, sulla ricomparsa di sopralivellamento di ST e sul rialzo degli
enzimi di citonecrosi miocardica. Se la curva di CPK dell'IMA iniziale non era
ancora normalizzata viene considerato significativo un aumento del 50% rispetto
al valore precedente.
Nei
casi di reinfarto la terapia segue gli stessi principi dell'IMA iniziale e,
oltre alla terapia antischemica, si procede a riperfusione coronarica con
trombolitico o, se disponibile, con angioplastica primaria o con
rivascolarizzazione chirurgica.
L'ischemia
miocardica transitoria può presentarsi con dolore toracico o essere
asintomatica, e può essere spontanea o provocata con test. Nei casi di ischemia
spontanea e recidivante è necessario somministrare terapia antischemica, se non
è già in corso (ASA, nitroderivato ex. e beta-bloccante e.v.), e procedere in
breve tempo ad esame coronarografico per eventuale rivascolarizzazione con
angioplastica o by-pass aorto-coronarico. Quando la terapia medica non riesce ad
ottenere il controllo della situazione anginosa, e in attesa della
coronarografia per una rapida rivascolarizzazione, è indicato l'impiego del
contropulsatore aortico. Nei casi di ischemia provocata o di stabilità
dell'ischemia spontanea la terapia antischemica viene continuata per via orale e
il programma di studio coronarografico con rivascolarizzazione avviene
elettivamente.
L'esame
coronarografico in previsione di rivascolarizzazione con angioplastica o
chirurgica è indicato nel post-IMA nelle seguenti situazioni:
-
pazienti con ischemia miocardica spontanea o provocata da minimi sforzi;
-
in previsione di correzione chirurgica di una complicanza meccanica dell'IMA
(rottura di muscolo papillare, rottura di setto interventricolare, aneurisma o
pseudoaneurisma del ventricolo sn);
-
compromissione emodinamica persistente;
-
funzione ventricolare depressa (F.E. < 40%) e scompenso cardiaco risolto
dalla terapia medica;
-
pregresso intervento di by-pass aortocoronarico;
-
aritmie ventricolari maligne;
-
quando si sospetta un meccanismo diverso dall'occlusione trombotica alla base
dell'IMA (embolia coronarica; disordini ematologici o metabolici; spasmo
coronarico).
L'insufficienza
mitralica acuta da rottura del muscolo papillare, il difetto interventricolare
da rottura del setto, la rottura della parete libera del ventricolo sn e
l'aneurisma del ventricolo sn vengono considerati complicanze meccaniche
dell'IMA e solitamente possono verificarsi nella prima settimana dell'infarto.
La comparsa di queste complicanze può essere improvvisa e la compromissione
emodinamica che ne consegue può essere così rapidamente progressiva da
richiedere urgenti procedure diagnostiche e terapeutiche.
L'esame
ecocardiografico è solitamente sufficiente per la conferma dei sospetto
clinico. Il monitoraggio invasivo con catetere di Swan-Ganz serve ad avere la
conferma, anche quantitativa, dello shunt sinistro-destro, nel caso del difetto
interventricolare, e soprattutto a guidare l'impiego dei farmaci nell'attesa
della correzione chirurgica. L'esame coronarografico, quando clinicamente
possibile, dovrebbe essere eseguito per consentire una eventuale
rivascolarizzazione associata alla correzione chirurgica del difetto, poiché
migliora la sopravvivenza.
Il
quadro clinico spesso evolve verso lo shock cardiogeno, e la terapia di supporto
si basa sull'uso di vasodilatatori (nitroprussiato e.v. 0,3-10 microg/kg/min) o,
più efficacemente, sulla riduzione del postcarico che si ottiene con un
contropulsatore aortico.
La
correzione chirurgica della complicanza è la terapia elettiva, e il grado di
urgenza è imposto dalla progressione del deterioramento emodinamico.
La
rottura del setto interventricolare è lievemente aumentata e più precoce nei
pazienti sottoposti a terapia trombolitica. Nello studio GUSTO l'incidenza era
0,5% (26). Quando si sviluppa edema polmonare o shock cardiogeno l'intervento
chirurgico deve essere eseguito in emergenza. La mortalità complessiva nei
pazienti trattati solo con terapia medica è 90% e si riduce a 50% nei pazienti
operati (54). Nei pazienti in cui la relativa stabilità emodinamica permette di
dilazionare l'intervento chirurgico alla seconda settimana dall'esordio dell'IMA
la mortalità operatoria si riduce da 34% a 11% (55).
L'insufficienza
mitralica acuta da rottura del muscolo papillare nei pazienti trombolisati ha
un'incidenza di 45% (26). La mortalità con terapia medica è 90%, mentre nei
pazienti operati è 55% (54). L'impiego del contropulsatore o di altro sistema
meccanico di supporto circolatorio (emopompa) è utile nell'attesa
dell'intervento di sostituzione valvolare mitralica.
La
rottura della parete libera del ventricolo si verifica nell'1-4% di tutti i
pazienti con IMA (56), e ha due momenti di maggiore frequenza, la prima giornata
e la fine della prima settimana. La complicanza è più frequente negli IMA
anteriori, nei pazienti in età avanzata e in quelli sottoposti a trombolisi
dopo 14 ore dall'esordio (57). Solitamente il quadro clinico è drammaticamente
irreversibile, con rapida dissociazione elettromeccanica. Casi sporadici sono
segnalati di riuscita chiusura chirurgica dei difetto.
Nei
casi in cui la rottura avviene in modo limitato e progressivo può formarsi uno
pseudoaneurisma nello spazio pericardico o arrivare al tamponamento cardiaco. In
entrambi i casi è sempre l'intervento chirurgico la terapia elettiva. Nei
pazienti con tamponamento cardiaco la pericardiocentesi si impone come procedura
salvavita intanto che il paziente venga inviato all'intervento chirurgico.
L'aneurisma
del ventricolo sn può causare scompenso cardiaco, aritmie ventricolari ed
embolie sistemiche. E' indicata la terapia anticoagulante, come pure
l'intervento chirurgico elettivo.
Nella
fase acuta dell'infarto miocardico l'incidenza di fibrillazione atriale è del
4-16% (58,59). Nei pazienti più anziani, negli infarti anteriori e in quelli più
estesi, in presenza di scompenso cardiaco, di pericardite, di aritmie
ventricolari complesse e di blocchi a-v avanzati, l'incidenza di FA è più
alta. Le embolie sistemiche sono più frequenti (1,7%) nei pazienti che
presentano FA rispetto a quelli senza FA (0,6%);e la metà di queste embolie si
verificano nella prima giornata dell'IMA (59).
La
terapia eparinica dovrebbe sempre essere somministrata, se non è già in corso,
ai pazienti con IMA che presentano FA, anche se solitamente l'aritmia è
transitoria.
Se
la FA causa deterioramento emodinamico, a causa dell'alta frequenza ventricolare
o della perdita della contrazione atriale, è necessario procedere subito a
cardioversione elettrica con D.C. shock sincronizzato (energia iniziale 100 j e
se inefficace si aumenta a 200-300-360 J). Se il paziente non mostra
compromissione emodinamica e la frequenza ventricolare è elevata si somministra
beta-bloccante e.v. (atenololo 2,5-5 mg e.v. fino a 10 mg in 15 min; metoprololo
2,5-5 mg e.v. fino a 15 mg in 15 min). Se sono presenti controindicazioni
all'uso del beta-bloccante è indicato l'impiego dell'amiodarone (300 nig e.v.
in 20 min.) o della digossina (0,25-0,5 mg e.v. in bolo, ripetibile dopo 4 ore).
Il
Flutter Atriale e la Tachicardia Sopraventricolare solitamente hanno una
risposta ventricolare elevata e, se determinano compromissione emodinamica
progressiva, è indicata la cardioversione elettrica con D.C. shock, come per la
FA. Se il paziente stabile emodinamicamente può essere indicata l'interruzione
attraverso la stimolazione atriale per via intracavitaria o transesofagea,
oppure si può ottenere la riduzione della frequenza ventricolare con il
beta-bloccante.
Le
aritmie ventricolari sono frequenti nella fase acuta dell'infarto. Le
extrasistoli ventricolari isolate, le coppie, le salve di Tachicardia
Ventricolare non sostenute (<30 sec) e le fasi di Ritmo Idioventricolare
Accelerato non richiedono alcun provvedimento antiaritmico specifico. Inoltre
queste aritmie non costituiscono un marker di rischio di Fibrillazione
Veritricolare. Il Ritmo Idioventricolare Accelerato nei pazienti sottoposti a
trombolisi spesso rappresenta un segno di riperfusione coronarica.
La
Fibrillazione Ventricolare primaria, che si sviluppa nei primi due giorni
dell'IMA e che bisogna distinguere dalla forma secondaria che si verifica in
presenza di scompenso o di shock cardiogeno, ha un'incidenza del 3-5%, con
massima frequenza nelle prime 4 ore (60). La mortalità ospedaliera nei pazienti
che hanno avuto FV primaria è più alta; mentre dopo la dimissione la prognosi
a distanza non è diversa dai pazienti senza FV (61). Gli attuali provvedimenti
volti a limitare le dimensioni dell'area infartuale (terapia riperfusionale,
beta-bloccante) hanno prodotto una riduzione dell'incidenza della FV primaria
(62).
La
terapia della FV è il DC shock non sincronizzato (energia iniziale 200 j e se
inefficace 300-360 j). Nei casi di ripetuta inefficacia del D.C. shock si
iniziano le manovre di rianimazione cardiopolmonare (63) e possono essere
somministrati, con la seguente priorità: adrenalina e.v. 1 mg in bolo;
xilocaina e.v. 1,5 mg/kg in bolo; amiodarone e.v. 150 mg in bolo. La profilassi
delle recidive si basa sulla somministrazione di beta-bloccante e sulla
correzione di eventuale ipopotassiemia o ipomagnesiemia. Può essere impiegata
un'infusione di xilocaina per 6-24 ore (2 mg/min). Invece non è da utilizzare
la xilocaina per la prevenzione del primo episodio di FV per l'aumentato rischio
di asistolia che il farmaco comporta (64).
La
Tachicardia Ventricolare sostenuta(con durata > 30 sec o che causi rapido
deterioramento emodinamico) richiede provvedimenti immediati. Quando la TV è
polimorfa (es. torsione di punta) si procede a D.C. shock non sincronizzato,
come per la FV; nei casi in cui è presente anche Q-T lungo, si somministra
magnesio (1-2 gr e.v. in 5 min, seguito da infusione di 18 g in 24 ore se è
presente ipomagnesiemia). Quando la TV è monomorfa, se sono presenti segni di
compromissione emodinamica o angina, si procede a DC shock sincronizzato, con
energia iniziale di 100 j; se invece non c'è instabilità emodinamica o angina,
e in questi casi solitamente la frequenza è < 150/min, sono opportuni
tentativi di interruzione farmacologica con la seguente priorità: xilocaina 1
mg/kg in bolo, ripetibile dopo 5 min; procainamide 20-30 mg/min per 4', seguiti
da 1-4 mg/min; amiodarone 150 mg e.v. in 10 min. seguiti da infusione di 1
mg/min per 6 ore. In caso di inefficacia dei farmaci è indicato DC shock
sincronizzato con energia iniziale di 50 j, oppure si può tentare
l'interruzione attraverso la sovrastimolazione atriale o ventricolare per via
intracavitaria o, per la stimolazione atriale, anche per via transesofagea. La
profilassi delle recidive di TV segue gli stessi principi della FV.
Gli
episodi tardivi di FV e di TV necessitano di diverse attenzioni. Infatti il
meccanismo eziologico può essere diverso da quello che sta alla base delle
forme precoci (prime 48 ore) e richiede uno studio elettrofisiologico.
La
Bradicardia Sinusale è molto comune nelle prime ore dell'infarto; è
particolarmente frequente negli infarti della parete inferiore e riflette
l'aumentato tono vagale. Nello studio TAM-1 la bradicardia sinusale sostenuta fu
rilevata nel 21% dei pazienti complessivi, ma l'incidenza era doppia se venivano
considerati solo i casi in cui la coronaria responsabile dell'IMA era la dx o la
circonflessa (65). La prognosi non è aggravata dalla comparsa di bradicardia
sinusale e la sua persistenza è indicativa di ischemia o necrosi di miocardio
atriale. Un moderato grado di bradicardia è utile nella fase acuta dell'IMA
perché riduce il consumo miocardico di ossigeno.
La
bradicardia sinusale necessita di trattamento solo nei casi in cui causa
sintomi, e generalmente avviene con frequenze < 50/min a cui si associa
ipotensione o ischemia, o quando alla bradicardia si associano frequenti
extrasistoli ventricolari con lungo intervallo di accoppiamento. La terapia di
prima scelta è l'atropina (0,5 mg ev, che può essere ripetuta, se necessario,
ogni 5 min. fino ad una dose massima di 2,5 mg); e in caso di mancata risposta
all'atropina si somministra isoproterenolo (2-10 microg/min e.v. in infusione
continua) o si procede ad elettrostimolazione temporanea d'emergenza
intracavitaria (atriale o ventricolare) o transesofagea (atriale). Nei casi di
grave bradicardia con marcata ipotensione (FC < 40/min e PA < 80 mmHg),
insensibile alla somministrazione di atropina ed isoproterenolo, e in attesa
dell'immediata elettrostimolazione intracavitaria, può essere indicata la
stimolazione esterna transtoracica.
Nei
casi di Asistolia Ventricolare le manovre di rianimazione cardiopolmonare
richiedono in prima fase la stimolazione esterna transtoracica e la
somministrazione di adrenalina (1 mg e.v., in bolo, da ripetere ogni 3 min.) ed
eventualmente di atropina (1 mg e.v., in bolo, da ripetere ogni 3 min). Se in
pochi minuti non ricompare un'attività elettrica cardiaca spontanea e adeguata
si procede immediatamente all'elettrostimolazione intracavitaria (63).
I
blocchi atrioventricolari e intraventricolari hanno un'incidenza e un
significato variabile secondo la sede e il tipo di IMA. I blocchi a-v sono
frequenti nel contesto di un IMA inferiore e sono espressione di un aumento del
tono vagale o di ischemia, con localizzazione del blocco a livello del nodo
atrio-ventricolare. Alti gradi di blocco a-v fra questi pazienti sono
solitamente asintomatici e ben tollerati. Nello studio TAMI il 13% degli IMA
inferiori mostrarono blocco a-v completo e la maggior parte si verificò nelle
prime 6 ore (66). Questi pazienti ebbero una mortalità ospedaliera più alta,
una funzione ventricolare sn più compromessa e più episodi di FV. La mortalità
non poté essere attribuita al blocco di per sé, perché tutti i pazienti
furono elettrostimolati quando necessario, ma verosimilmente alla più estesa
area infartuale. Dopo la dimissione la mortalità a distanza non fu influenzata
dal verificarsi di blocco a-v durante il ricovero, e ciò è la più forte
evidenza della mancanza di utilità della elettrostimolazione permanente in
questi specifici pazienti. Negli IMA in sede inferiore in cui la comparsa di
blocco a-v di 2°grado tipo I o di 3° grado si associa a sintomi da
ipotensione, dolore toracico o aritmie ventricolari, è indicato l'impiego
dell'atropina (0,5 mg e.v., che può essere ripetuta, se necessario, ogni 5 min
fino ad una dose massima di 2,5 mg).
Nei
pazienti con IMA anteriore, la comparsa di blocco a-v, specialmente se di 2°grado
tipo II o completo, ha un significato più minaccioso perché in questi casi la
sede del blocco è solitamente sottohissiano. In questi pazienti il rischio di
progressione verso blocchi di alto grado è stato analizzato, anche fra i
disturbi di conduzione intraventricolari. I blocchi di branca di nuova
insorgenza e i blocchi fascicolari alternanti sono apparsi i più a rischio di
progressione verso il blocco completo (67).
Nei
pazienti con disturbi di conduzione, pertanto, le indicazioni
all'elettrostimolazione temporanea sono le seguenti:
-
blocco a-v di 2°grado tipo I o completo sintomatico, nel contesto di IMA
inferiore e insensibile all'atropina;
-
blocco a-v completo nel contesto di IMA anteriore;
-
blocco a-v di 2°grado tipo II;
-
blocco di branca bilaterale alternante (alternanza di BBI) e BBS, oppure BBI)
con alternanza di EAS o EPS), di qualunque momento d'insorgenza;
-
blocco bifascicolare di nuova insorgenza o indeterminato (BBD con EAS o EPS,
oppure BBS) con blocco a-v di l°grado.
Altre
situazioni, con minore rischio di progressione dei blocco, in cui è necessario
preparare tutto per l'elettrostimolazione temporanea ma non si procede
(standby), o, se disponibile, si posizionano le piastre per eventuale
elettrostimolazione esterna transtoracica a demand, sono le seguenti:
-
BBD con EAS o EPS, di qualunque insorgenza;
-
BBD con blocco a-v di l°grado;
-
BBS di insorgenza nuova o imprecisata.
A
causa del rischio di incapacità a catturare il ventricolo da parte dello
stimolatore esterno transcutaneo, soprattutto negli infarti anteriori,
bisognerebbe sempre provarlo al momento del posizionamento delle piastre.
In
generale l'elettrostimolazione definitiva nei pazienti con IMA dovrebbe essere
presa in considerazione nei pazienti in cui i sintomi, dovuti al disturbo di
conduzione, siano severi e prolungati, o nei pazienti con blocco di alto grado
(2à grado tipo II o completo) nel contesto di infarto non in sede inferiore. La
persistenza dei blocco a livello nodale nei pazienti con infarto inferiore può
arrivare fino alle 2-3 settimane, e solo dopo tale tempo può essere posta
l'indicazione all'impianto di pace maker (68).
Pertanto
si può concludere che l'indicazione all'impianto di un pace maker definitivo
nei pazienti con IMA esiste nelle seguenti situazioni:
-
blocco a-v di 2°grado tipo II sottohissiano, persistente e con disturbo di
conduzione intraventricolare bilaterale;
-
blocco a-v completo sottobissiano;
-
blocco a-v di alto grado (2°grado tipo II o completo), prolungato ma
transitorio (1-2 settimane), con disturbo di conduzione intraventricolare;
-
blocco a-v a qualunque livello, sintomatico e persistente (>2-3
settimane)(68).
La
trombolisi pre-ospedaliera era stata concepita come il metodo ideale per ridurre
al minimo il tempo trascorso dall'inizio del dolore infartuale al momento della
riperfusione con fibrinolitici.
Gli
studi effettuati non hanno mostrato significativi vantaggi derivanti da tale
metodica quando il tempo di percorrenza, dal domicilio del paziente al presidio
ospedaliero, era contenuto entro i 60 minuti (69). Nelle strutture di pronto
soccorso in cui viene applicato un rapido e codificato metodo di individuazione
dei pazienti con dolore toracico di tipo ischemico, che potrebbero essere
sottoposti a terapia trombolitica, le differenze nel ritardo della
somministrazione del farmaco e nel decorso dei paziente rispetto alla trombolisi
preospedaliera non erano significative (70).
Inoltre
fra tutti i pazienti il cui soccorso a domicilio venga richiesto per dolore
toracico, solo il 5-10% presenta un quadro clinico di IMA con indicazione a
trombosi. Pertanto il rischio di un utilizzo improprio del trombolitico diventa
elevato (70,71).
La
somministrazione supplementare di magnesio in tutti i pazienti con IMA non ha
dimostrato benefici sulla mortalità (19). Solo nei casi in cui è documentata
una ipomagnesiemia, soprattutto nei pazienti che assumevano diuretici, e nei
casi di tachicardia ventricolare tipo torsione di punta associata ad intervallo
QT lungo, è indicata la somministrazione di magnesio (1-2 g e.v. in 5 min,
seguito da infusione di 18 g in 24 ore).
La
riduzione dell'attività fisica e del tono simpatico sono finalizzate al
contenimento del consumo miocardico di ossigeno nella zona di miocardio
danneggiata dall'IMA.
In
epoche passate il riposo a letto veniva prolungato per molti giorni. In seguito
sono emersi gli effetti dannosi derivanti dal decondizionamento muscolare e
dalla riduzione del precarico e del volume plasmatico che si instaurano con il
riposo a letto (72,73).
Pertanto
nei pazienti con IMA nei quali le condizioni emodinamiche sono stabili sembra
opportuno limitare il riposo a letto alle prime 12 ore e poi procedere ad una
graduale mobílizzazione, la cui velocità di progressione è determinata dal
quadro clinico. Inoltre è importante evitare la manovra di Valsalva nei primi
giorni dell'IMA, infatti l'espirazione forzata a glottide chiusa provoca un
aumento della PA sistolica e della FC è indicato l'impiego routinario di
lassativi osmotici in tutti i pazienti e in quelli con condizioni emodinamiche
stabili dovrebbe essere permessa la comoda ed evitato l'impiego della padella da
letto fin dall'inizio.
I
calcioantagonisti non hanno mostrato effetti benefici nei pazienti con IMA, sia
quando sono stati impiegati precocemente che a distanza. In alcune categorie di
pazienti peraltro sono stati evidenziati effetti negativi sulla mortalità (74).
Le diidropiridine (nifedipina) hanno causato numerosi effetti indesiderati,
senza ridurre la mortalità o l'incidenza di reinfarto (75). Il verapamil e il
diltiazem sono più controversi, infatti l'iniziale ipotesi di una possibile
riduzione dell'incidenza di reinfarto nei pazienti con IMA non-Q non è ancora
chiaramente dimostrata (76, 77); invece sono chiari gli effetti dannosi nei
pazienti con disfunzione ventricolare (78). Pertanto le uniche situazioni in cui
il verapamil o il diltiazem possono essere utilizzati nell'IMA sono i pazienti
con buona funzione ventricolare in cui i beta-bloccanti non possono essere
impiegati, o si sono dimostrati inefficaci, per il controllo degli episodi di
ischemia ricorrente o per ridurre la risposta ventricolare durante la
fibrillazione atriale.
Alcuni
farmaci della fase acuta devono essere sicuramente continuati anche a distanza.
L'ASA e il beta-bloccante devono essere assunti indefinitamente in tutti i
pazienti che abbiano avuto un IMA. Il nitroderivato, oltre la 48a ora dall'IMA,
come anche a distanza, viene continuato solo se è presente ischemia miocardica
ricorrente o insufficienza ventricolare sn. L'ACE-inibitore viene somministrato
per 6 settimane in tutti i pazienti con IMA, e poi si continua solo se vi sono
state complicanze emodinamiche durante la degenza o è residuata una disfunzione
ventricolare sn (FE < 50%).
L'anticoagulante
orale va continuato alla dimissione se persiste fibrillazione atriale o gli
episodi di fibrillazione atriale sono ricorrenti; inoltre va continuato, per
almeno tre mesi, nei casi di trombosi intraventricolare e in quelli con vaste
aree miocardiche discinetiche (7).
E'
sottinteso che ogni sforzo deve essere fatto per correggere eventuali fattori di
rischio cardiovascolare presenti. La cessazione del fumo di sigarette è
essenziale nel post-infarto e pur di raggiungere tale obiettivo possono essere
impiegati farmaci contenenti nicotina a basse dosi che attenuano i sintomi da
astinenza nella fase di interruzione.
Una
dieta a basso contenuto di grassi saturi e di colesterolo dovrebbe essere
istituita in tutti i pazienti nel post-infarto; e nei pazienti che, nonostante
la dieta ipolipidica, presentino livelli di coletsterolo LDL >100 mg/dl,
dovrebbe essere associata terapia farmacologica con inibitori dell'enzima HmCoA
reduttasi.
I
pazienti che hanno livelli di colesterolo HDL < 35 mg/dl dovrebbero essere
incoraggiati a svolgere una regolare attività fisica isotonica e ad assumere
modeste quantità di alcol.
Tutte
le donne in post-menopausa che abbiano avuto un infarto dovrebbero essere
trattate con terapia estrogenica sostitutiva.
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