Google
 

HOME PAGE CARLOANIBALDI.COM    HOME PAGE ANIBALDI.IT

 

     

 

 

 

  

 

ARGOMENTI DI MEDICINA CLINICA

VAI ALL'INDICE

 Ultimo aggiornamento: 23.06.2008

mail to Webmaster

PRIVACY POLICY

 

 

 

 

TERAPIA DELL'IPERTENSIONE ARTERIOSA

 

Pressione arteriosa e rischio cardiovascolare

 

La pressione arteriosa (PA) rappresenta una delle molteplici caratteristiche biologiche, genetiche e comportamentali la cui presenza ed entità interferisce con il rischio relativo di sviluppare una malattia. La pressione arteriosa, così come gli altri fattori di rischio, non debbono essere per forza presenti per determinarsi una malattia cardiovascolare, ma vi è una forte, consistente, progressiva e indipendente associazione tra la pressione arteriosa e l'incidenza di accidenti vascolari cerebrali e di coronaropatia. Ciò indica che la pressione arteriosa elevata non è una malattia e che nonostante l'incremento del rischio (anche ai livelli più elevati dei valori della pressione arteriosa) non tutti i soggetti svilupperanno un accidente vascolare cerebrale o la coronaropatia. Nello studio di Framingham, durante il periodo di osservazione di 15 anni, circa un terzo dei soggetti che presentava il solo fattore di rischio pressione arteriosa sistolica >195 mmHg (la categoria di soggetti a più elevato rischio per la variabile considerata) ha sviluppato un accidente vascolare cerebrale o una malattia coronarica. Tra i 325.348 soggetti inclusi nello studio Multiple Risk Factor Intervention Trial (MRFIT) venne osservata una prevalenza più elevata di accidenti vascolari e di coronaropatia in quelli che partivano da una pressione arteriosa diastolica >90 mmHg. I valori più elevati di pressione arteriosa si associano a un maggior numero di eventi, e pur non essendovi una soglia che distingue quelli che svilupperanno o meno un evento di malattia cardiovascolare, il rischio relativo per coronaropatia o accidenti vascolari cerebrali aumenta continuamente con l'incrementare della pressione sistolica e diastolica. In particolare, ogni aumento di 7,5 mmHg di pressione arteriosa diastolica si associa con più del 46% di accidenti vascolari cerebrali.

Il trattamento degli elevati valori di pressione arteriosa diastolica, nei vari trial, determina già nel giro di pochi anni di terapia la riduzione significativa (tra il 33 ed il 50%) e la prevenzione degli accidenti vascolari cerebrali fatali e non fatali. Per quanto riguarda il trattamento degli elevati valori di pressione arteriosa diastolica e la coronaropatia, è stato osservato  che l'intervento farmacologico induce una possibilità di prevenzione compresa tra il 4 ed il 22% nei vari trial considerati. Questa ridotta capacità "coronaroprotettiva" del trattamento farmacologico antipertensivo potrebbe imputarsi alla concomitante ma non univoca importanza dell'incremento dell'aumento dei valori di pressione diastolica nella genesi della coronaropatia (altrettanto o, in alcune condizioni, più importanti fattori possono essere rappresentati dal fumo, dall'ipercolesterolemia, dall'ereditarietà). Inoltre alcuni farmaci tradizionalmente impiegati nel trattamento della ipertensione arteriosa potrebbero possedere degli effetti collaterali negativi (emodinamici, metabolici, neuroendocrini) per il cuore in grado di limitare, sia pure di non abolire, la capacità preventiva sulla coronaropatia indotta dal trattamento farmacologico che normalizza la pressione diastolica. I diuretici riducono la potassiemia e ciò, oltre alle aritmie, potrebbe spiegare una modificata sensibilità all'insulina e una ridotta tolleranza glicidica. I diuretici possono indurre un incremento della colesterolemia totale, mentre è noto che la riduzione dell'1% della colesterolemia si accompagna alla riduzione del 2% di coronaropatia nei trial condotti a 5 anni. Complessivamente, il trattamento farmacologico e la riduzione degli elevati livelli di pressione arteriosa diastolica comportano una diminuzione altamente significativa della mortalità per cause vascolari. Dal punto di vista del singolo individuo, il trattamento dell'ipertensione arteriosa lieve e moderata è meno importante del trattamento dell'ipertensione grave, ma in termini di organizzazione della Sanità Pubblica, è più importante il controllo degli ipertesi lievi e moderati che rappresentano la maggioranza della popolazione degli ipertesi esposta al rischio di morte e di gravi eventi vascolari non fatali che si associano all'ipertensione arteriosa. La riduzione di 5-6 mmHg della pressione diastolica per 5 anni, ottenuta con i diuretici, si è dimostrata in grado di ridurre del 42% gli accidenti vascolari cerebrali e del 14% le coronaropatie. Qualora si indichi la compliance alla terapia antipertensiva quale riduzione della pressione arteriosa diastolica di 8-10 mmHg, ciò potrebbe determinare la diminuzione degli accidenti vascolari cerebrali della metà circa e della coronaropatia di un quinto circa nel giro di pochi anni di trattamento.

Dato che la coronaropatia è molto più frequente degli accidenti vascolari cerebrali in molte popolazioni dei Paesi occidentali, si comprende facilmente come anche una riduzione "solo" di un quinto della coronaropatia costituisca un beneficio in termini assoluti, che potrebbe risultare superiore a quello rappresentato dalla prevenzione degli accidenti vascolari cerebrali. L'ipertensione arteriosa non controllata accelera la comparsa prematura delle malattie cardiovascolari. L'ipertensione arteriosa non curata può comportare nel tempo valori pressori sempre più elevati.   È noto che gli organi che sono sottoposti ad un basso regime pressorio sono protetti dai danni d'organo determinati dall'ipertensione, mentre quelli che hanno una pressione più elevata vengono danneggiati. Nell'animale da esperimento è stato osservato che l'ipertensione determina un più rapido sviluppo dell'aterosclerosi rispetto ai normotesi, a parità di colesterolo elevato in conseguenza di un aumento dell'apporto dietetico. Le lesioni determinate dall'ipertensione, incluse l'aterosclerosi accelerata e le modificazioni strutturali del cuore e delle arterie, possono essere prevenute riducendo la pressione arteriosa con una terapia farmacologica adeguata.   È stato inoltre osservato che alcune alterazioni determinate dall'ipertensione arteriosa (ad esempio l'ipertrofia ventricolare sinistra, la retinopatia ipertensiva) possono regredire in seguito alla normalizzazione della PA ottenuta con un adeguato trattamento farmacologico antipertensivo.

 

 

Trial clinici e benefici del trattamento antipertensivo

 

Gli studi della Veterans Administration (USA, 1967, 1970) hanno evidenziato che, in confronto ai non trattati, la riduzione farmacologica della PA negli ipertesi con diastolica compresa tra 115 e 129 mmHg comporta una diminuzione significativa della mortalità, dell'ipertensione accelerata, degli accidenti vascolari cerebrali, dello scompenso cardiaco congestizio e del danno renale già dopo poco più di un anno dall'inizio dell'osservazione epidemiologica. Per valori di PA diastolica compresi tra 90 e 114 mmHg l'evidenza epidemiologica necessita di un'osservazione più prolungata (mediamente sui tre anni) per raggiungere la significatività statistica (placebo, 19 eventi fatali e 37 non fatali; trattamento farmacologico attivo, 8 eventi fatali e 14 non fatali). Lo studio Hypertension Detection and Follow-up Program (USA, 1979) ha confermato l'importanza della terapia farmacologica nel ridurre la mortalità e la morbilità cardiovascolari. Il trial Australiano sull'ipertensione lieve (1980, 1982) ha messo in evidenza una significativa differenza negli obiettivi che si era proposto: mortalità, stroke, scompenso cardiaco congestizio, angina pectoris, aneurisma dissecante, sviluppo di una retinopatia di grado 3 o 4, danno renale con creatininemia superiore a 2 mg/dl, encefalopatia ipertensiva. Questi risultati sono la più convincente dimostrazione del valore del trattamento farmacologico attivo nei pazienti affetti da ipertensione arteriosa con livelli di PA diastolica compresi tra 95 e 109 mmHg. Il Medical Research Council Trial (UK, 1985), condotto su 850 pazienti affetti da ipertensione arteriosa lieve, ha confrontato due differenti trattamenti farmacologici. Nessuno dei due trattamenti è risultato essere migliore; i diuretici, tuttavia, hanno determinato una migliore prevenzione dello stroke, mentre i betabloccanti sono apparsi essere più vantaggiosi per gli eventi coronarici nei pazienti non fumatori.

In pratica, gli studi clinici condotti per valutare l'efficacia del trattamento farmacologico hanno concluso che la terapia dell'ipertensione moderata e grave è in grado di fornire un reale beneficio in termini di riduzione della mortalità e della morbilità cardiovascolari, di prevenzione per lo sviluppo delle malattie cardiovascolari, di regressione dei danni già instaurati in alcuni organi. Per quanto riguarda l'ipertensione arteriosa lieve è stato osservato che il trattamento è in grado di prevenire in modo statisticamente significativo un evento morboso (ad esempio uno stroke), ma per raggiungere tale obiettivo la terapia deve essere attuata in un numero assai elevato di soggetti ipertesi, il cui rischio individuale è in realtà assai modesto. Un altro punto importante nel trattamento dell'ipertensione è quello emerso dallo studio Multiple Risk Factor Intervention Trial (MRFIT, 1982, 1985): un trattamento troppo intenso (intensive care) degli ipertesi con anomalie elettrocardiografiche aggrava anziché migliorare il rischio delle complicanze cardiovascolari. Ciò indicherebbe che un trattamento eccessivamente intenso ed aggressivo non va mai attuato, soprattutto nei pazienti che hanno una sicura insufficienza coronarica, nei quali il flusso e la perfusione coronarica sono a livelli critici basali e possono venir peggiorati da una cospicua riduzione della pressione di perfusione. In pratica, però, quando condotta in maniera assennata, la terapia farmacologica dell'ipertensione lieve, con PA diastolica compresa tra 90 e 104 mmHg, ha avuto numerose dimostrazioni epidemiologiche di un reale beneficio. Lo studio HOT ha mostrato meno eventi cardiovascolari negli ipertesi meglio trattati. Molti degli ipertesi lievi nei quali non è stato osservato un reale vantaggio nei confronti di quelli che non ricevevano alcun trattamento farmacologico, in effetti erano stati erroneamente considerati come ipertesi (reazione di allarme, errore nella misurazione della PA per non corretto impiego o taratura della strumentazione, diagnosi troppo affrettata).

 

 

Misure di carattere non farmacologico e razionale per la terapia antipertensiva

 

Prima di iniziare un trattamento farmacologico, nei pazienti affetti da ipertensione, è sempre necessario mettere prima in atto una serie di misure di carattere non farmacologico (prevalentemente di tipo comportamentale).

  È opportuno ottenere la riduzione del peso corporeo se eccessivo, in quanto l'obesità si associa frequentemente all'ipertensione arteriosa, alla resistenza all'insulina, alla ridotta tolleranza glicidica, alla dislipidemia. La riduzione del peso corporeo, anche modesta, si accompagna, di regola, ad una significativa riduzione della pressione arteriosa. La riduzione del peso corporeo e la normalizzazione della PA dipendono probabilmente oltre che dalla minore introduzione calorica, anche dalla ridotta introduzione di sodio e dall'aumento dell'attività fisica. Dal punto di vista emodinamico in tali pazienti si osserva, di regola, una riduzione della portata cardiaca e del volume ematico totale, associate alla riduzione delle catecolamine circolanti, e dei livelli della renina e dell'aldosterone. La dieta non deve essere troppo stretta, e si deve accompagnare anche ad altre misure di carattere comportamentale.

Altrettanto importante della normalizzazione del peso corporeo, è la riduzione dell'introduzione dietetica di sodio se eccessiva. Il sale non deve essere vietato, ma soltanto moderato. La restrizione sodica rappresenta un vantaggio terapeutico, ma è anche una misura preventiva contro lo sviluppo dell'ipertensione nei pazienti se geneticamente predisposti. Una modica restrizione del sodio nella dieta generalmente riduce la PA di 5-10 mmHg, rispetto a chi consuma, invece, quantità molto elevate di cloruro di sodio. Nei pazienti con ipertensione "volume-dipendente", come ad esempio gli anziani con ipertensione sistolica isolata, la restrizione sodica appare particolarmente vantaggiosa. Non tutti i pazienti che riducono l'apporto alimentare di sale presentano una riduzione della pressione arteriosa elevata, ma quelli con i valori pressori più elevati ottengono le maggiori riduzioni pressorie. Il ridotto apporto di sale comporta, pertanto, una maggiore riduzione pressoria negli ipertesi rispetto ai normotesi, una riduzione significativa della portata cardiaca, una riduzione della massa ventricolare sinistra valutata ecocardiograficamente, una riduzione della risposta pressoria all'esercizio, una riduzione della concentrazione sodica intracellulare. La restrizione sodica favorisce l'effetto anti-ipertensivo di molti farmaci ed è stato consigliato di sostituire una quota del cloruro di sodio somministrando nella dieta  supplementi di cloruro di potassio, i quali favorirebbero la natriuresi e contrasterebbero gli effetti vasocostrittori mediati dalla pompa Na positivo K positivo ATPasi, indotta dagli inibitori ouabaina-simili e dalla noradrenalina. Ciò può contribuire alla prevenzione dell'ipokaliemia e delle sue complicanze nei pazienti trattati con diuretici.

  È importante che i pazienti ipertesi smettano di fumare, se hanno tale abitudine. Acutamente il fumo di sigaretta determina un aumento della pressione arteriosa perché induce un'attivazione adrenergica, ma cronicamente tale effetto tende a ridursi. Permane, però, l'associazione di un fattore di rischio maggiore (il fumo) ad un altro (l'ipertensione) ed è questo il vero motivo per il quale i pazienti ipertesi debbono assolutamente smettere di fumare.

Anche la caffeina, acutamente, determina un aumento della PA, ma ciò è di relativamente scarsa importanza, tranne che nei forti consumatori che ne bevano cronicamente molto di più di 400 mg (4-5 tazze) al giorno per un periodo prolungato (almeno oltre un mese).

Per quanto riguarda il consumo di alcol, è bene raccomandare ai pazienti ipertesi di ridurre il consumo di alcol, assumendone non oltre 50 grammi al giorno, in quanto è stato osservato che la PA risulta elevata nei pazienti che consumano per lunghi periodi oltre 100-120 grammi di alcol al giorno. Sono state osservate riduzioni fino a 8 mmHg per la pressione sistolica e fino a 6 mmHg per la pressione diastolica per differenze nel consumo di alcol da 1 bicchiere di vino a 6 bicchieri di vino al giorno. Gli ipertesi non dovrebbero bere più di due-tre bicchieri di vino al giorno.

Un altro cardine del trattamento non farmacologico dell'ipertensione arteriosa è costituito dall'esercizio fisico.   È dimostrato che l'allenamento fisico regolare di tipo dinamico nei pazienti affetti da ipertensione arteriosa lieve è molte volte efficace come unica misura nel normalizzare la PA, indipendentemente dalla riduzione del peso corporeo. Anche nei pazienti con ipertensione moderata, nei quali l'esercizio non abbia indotto una completa normalizzazione della pressione arteriosa, è sempre una misura vantaggiosa in quanto migliora l'efficacia dei farmaci antipertensivi, i quali vengono pertanto somministrati a minore dosaggio.   È assolutamente necessario ricordare che l'attività fisica consigliata nei pazienti ipertesi è una moderata e costante attività di tipo dinamico, mentre gli sforzi di tipo isometrico sono assolutamente sconsigliabili. Agli ipertesi si consiglia pertanto un'attività fisica regolare (allenamento) non strenua e assolutamente non agonistica, tre-quattro volte alla settimana, mantenendosi sempre rigorosamente nell'ambito aerobico. Sono consigliate le attività quali il nuotare, l'andare in bicicletta, lo jogging, il passeggiare, il camminare, lo sci di fondo.

 

 

 

Trattamento farmacologico dell'ipertensione arteriosa

 

Dopo l'attuazione delle misure non farmacologiche, si procede al trattamento farmacologico dell'ipertensione arteriosa. Le indicazioni dei maggiori studi epidemiologici, come già accennato, hanno evidenziato che vi è un sicuro beneficio che deriva dal trattamento assiduo dei pazienti con ogni grado di ipertensione arteriosa. I medici non devono ritenere che i gradi più lievi, perché asintomatici, possono essere trascurati. L'effetto protettivo dei farmaci è ovviamente più evidente nei pazienti con ipertensione grave nei quali sono più gravi e più frequenti le complicanze cardiovascolari. Anche i pazienti con valori di PA diastolica compresi tra 90 e 104 mmHg traggono un vantaggio da un appropriato trattamento antipertensivo. Anzi, considerando il più elevato numero dei pazienti con ipertensione arteriosa lieve, è proprio il loro trattamento che è in grado di fornire il maggiore impatto sulla morbilità e la mortalità cardiovascolari nella comunità in generale.

La "scaletta" tradizionale della stepped care, indicata alcuni anni fa dall'Organizzazione Mondiale della Sanità, sembra ancora attuabile in base alle assai più ampie esperienze cliniche ed alle indicazioni emerse dal Joint National Committee on Detection, Evaluation and Treatment of High Blood Pressure negli USA (the 1993 report): "Dato che i diuretici e i betabloccanti hanno dimostrato di ridurre la morbilità e la mortalità cardiovascolare nei trial clinici controllati, queste due classi di farmaci vanno preferite per il trattamento iniziale". Anche il VI Report JNC conferma ciò, con maggiore enfasi alla stratificazione del rischio. D'altro canto, il memorandum del 1993 del comitato composto da Organizzazione Mondiale della Sanità e Società Internazionale dell'Ipertensione indica che "la scelta della terapia farmacologica iniziale di un individuo iperteso rappresenta una sfida per il medico e non dovrebbe venire ristretta, in base a valutazioni teoriche o economiche, solo a una o due classi di farmaci che sono state impiegate in passato, per cui al primo gradino del trattamento antipertensivo sono state aggiunte altre classi di farmaci, come i calcioantagonisti e gli ACE-inibitori, ai tradizionali diuretici e beta-bloccanti. Due farmaci appartenenti a tali diverse classi possono essere associati, qualora la monoterapia non sia efficace.   È preferibile associare due agenti antipertensivi con meccanismo d'azione sinergico, somministrandone dosaggi più bassi, e con minore possibilità di insorgenza di effetti collaterali non desiderati, che non insistere aumentando progressivamente il dosaggio e l'effetto iatrogeno sfavorevole di un unico farmaco. Ciò è particolarmente importante, in quanto è stato notato che una delle cause principali della cosiddetta "resistenza" al trattamento antipertensivo è la mancata assunzione della terapia da parte del paziente iperteso, rammentando che l'ipertensione arteriosa di grado lieve o moderato è notoriamente una condizione quasi sempre asintomatica.   È importante pertanto che il paziente sia "motivato" al trattamento, informandolo circa la necessità di eliminare un possibile, importante rischio per lo sviluppo dell'aterosclerosi e delle complicanze vascolari. Ma la compliance del paziente, e cioè la sua aderenza al trattamento, potrà essere buona solo se il medico evita di somministrare farmaci senza un obiettivo preciso ed adeguato. Da parte del medico si deve porre attenzione ad evitare lunghe attese prima della visita in ambulatorio, regimi terapeutici troppo complicati e difficili da attuare, farmaci eccessivamente costosi per il paziente ed anche per la società, se non indispensabili, sostanze con noti e fastidiosi effetti collaterali e la richiesta coercitiva di un troppo brusco cambiamento dello stile di vita del paziente. Altri fattori che possono ridurre la compliance sono intrinseci al paziente, quando completamente asintomatico, o socialmente "isolato", o con una situazione familiare compromessa, o affetto da malattie psichiatriche.

La disponibilità di linee guida aggiornate del Joint National Committee Statunitense (JNC VI) andrà valutata alla luce dei risultati definitivi degli studi di intervento in corso di completamento (in Europa, Asia e America) e della riunione del prossimo Comitato congiunto WHO-ISH le cui linee guida dovrebbero essere disponibili entro i primi mesi del 1999. In generale, le linee guida di un trattamento razionale devono tenere conto delle seguenti indicazioni: 1) adeguata attenzione al problema della compliance all'inizio del trattamento e alla pronta ricognizione dei segni iniziali della mancata aderenza al trattamento; 2) obiettivo della terapia è la riduzione dei valori pressori ai livelli di normotensione senza provocare effetti collaterali significativi; 3) educazione del paziente alla sua malattia ed al suo trattamento; 4) mantenimento dei contatti con il paziente, incoraggiando le visite di controllo, coinvolgendo i familiari sani, richiamando il paziente quando non si presenta al controllo, coinvolgendo, se possibile, anche il farmacista; 5) massima attenzione ad evitare indagini e spese superflue e costose, eseguendo solo inizialmente un adeguato work-up diagnostico il più semplice possibile allo scopo di escludere una causa secondaria e infine valutare lo stato degli organi bersaglio, ricontrollando alcuni esami di laboratorio non prima di un anno (se non sia indicato ravvicinare l'indagine), insegnando al paziente o ad un suo familiare a controllare la PA a domicilio, raccomandando un trattamento non-farmacologico, prescrivendo dosaggi ridotti possibili delle varie sostanze necessarie, usando compresse con associazioni precostituite (se appropriate).   È poi necessario seguire una corretta metodologia farmacologica: aggiungendo un farmaco alla volta; iniziando con dosaggi ridotti, ottenendo riduzioni della PA di 5-10 mmHg ad ogni controllo; prevenendo la ritenzione idrosalina ed il sovraccarico di volume impiegando, se necessario, diuretici ed una restrizione sodica. Un trattamento non efficace va sospeso e si ricorre, invece, ad un differente approccio terapeutico. Gli effetti collaterali debbono essere previsti e la terapia va aggiustata opportunamente per ridurre gli effetti sfavorevoli che non scompaiano spontaneamente. Un terzo farmaco antipertensivo si associa solo dopo il secondo gradino, ad un dosaggio sufficiente ad ottenere l'efficacia antipertensiva desiderata. Il medico può ricorrere anche ad un monitoraggio della compliance terapeutica del proprio paziente iperteso, controllando le presenze agli appuntamenti programmati, valutando la risposta ipotensiva al trattamento, chiedendo ogni volta al paziente se abbia sempre assunto tutti i farmaci prescritti e se la risposta è affermativa chiedendo a che ora i farmaci vengono assunti, contando le compresse residue del flacone prescritto, e (se il sospetto della non assunzione è alto) dosando il farmaco somministrato nel sangue o nelle urine. Naturalmente, il medico non deve mai svolgere tale indagine attraverso una sorta di interrogatorio di terzo grado. Vi sono delle tecniche specifiche ed appropriate che si sono dimostrate di valido aiuto alla soluzione del problema. Il confronto reciproco tra i valori di PA che il paziente misura al proprio domicilio e quelli che il medico riscontra nel proprio ambulatorio è sempre vantaggioso; in secondo luogo è importante individualizzare la terapia di ogni singolo paziente, per quanto possibile, coinvolgendo il paziente nella scelta e nella discussione fornendo sempre indicazioni precise sulle caratteristiche del farmaco somministrato e sulla opportunità di iniziare un certo tipo di trattamento.

 

 

 

Quando iniziare il trattamento farmacologico

 

Il report del Comitato congiunto americano del 1993 indica che "se la pressione arteriosa permane >140/90 mmHg durante un periodo di 3-6 mesi nonostante un vigoroso incoraggiamento alle modificazioni dello stile di vita, il trattamento farmacologico antipertensivo andrebbe iniziato, specialmente negli individui con danno a carico degli organi bersaglio e/o con altri fattori di rischio per le malattie cardiovascolari". Il memorandum del 1993 WHO/ISH appare più conservativo, richiedendo la terapia farmacologica se la pressione arteriosa diastolica è >95 mmHg (ma è indicata anche nei pazienti con PA diastolica tra 90 e 95 mmHg che sono ad alto rischio). In altre parole, entrambi i comitati di esperti rimarcano la necessità di iniziare immediatamente il trattamento in base a livelli pressori ritenuti in passato come "normali", quando sia presente un danno d'organo e/o un ulteriore fattore di rischio cardiovascolare. Nella Tabella 1 vengono riportati gli altri fattori di rischio da considerare nella decisione di trattare un soggetto iperteso. Nella Tabella 2 viene indicata la divisione ad alto ed a basso rischio nei pazienti affetti dallo stesso elevato livello di pressione arteriosa e che richiedono un inizio immediato del trattamento farmacologico antipertensivo o che possono dilazionare nel tempo l'inizio della cura. Nella Tabella 3 sono riportate le malattie cardiovascolari sintomatiche che richiedono il trattamento immediato e adeguato.

 

 

Quale farmaco scegliere

 

Una volta presa la decisione di trattare farmacologicamente il paziente affetto da ipertensione arteriosa, la scelta può essere effettuata in tre grandi gruppi di farmaci che abbiamo a disposizione: i depletori di volume, gli inibitori adrenergici e i vasodilatatori. Nella Tabella 4 vengono indicati molti dei farmaci che sono compresi tra quelli appena indicati. Il medico può scegliere uno di questi per l'inizio del trattamento in monoterapia. L'efficacia dei farmaci a nostra disposizione è simile: lo studio sul trattamento dell'ipertensione lieve (TOMHS, Treatment Of Mild Hypertension Study, 1993) ha valutato accuratamente 902 ipertesi trattati con placebo, clortalidone, acebutololo, doxazosina, enalapril, amlodipina per 48 mesi, ottenendo una riduzione pressoria analoga tra di loro tra i trattamenti attivi e, per tutti, superiore al placebo. D'altra parte, può essere differente la risposta dei farmaci antiipertensivi somministrati in base all'età e alla razza. Nello studio della Veterans Administration (1993) che ha incluso 1200 ipertesi maschi trattati in monoterapia con placebo, diltiazem, idroclorotiazide, clonidina, prazosina, atenololo, captopril è stata evidenziata dopo un anno di trattamento una notevole differenza nella risposta pressoria dello stesso farmaco in base all'età e alla razza. Ad esempio, captopril è risultato il più efficace nei giovani bianchi e il meno efficace negli anziani neri; mentre idroclorotiazide è molto efficace negli anziani neri e poco efficace nei giovani bianchi. Nella scelta del farmaco da impiegare come monoterapia nel trattamento iniziale dell'ipertensione arteriosa è molto importante il suo impatto sulla qualità di vita del paziente, soprattutto riguardo all'eventuale comparsa di effetti avversi. Una metanalisi pubblicata nel 1991 ha evidenziato che nessun farmaco o classe di farmaci è superiore a un'altra, mentre tutti i farmaci somministrati hanno determinato la medesima influenza positiva sulla qualità di vita.

 

 

DEPLETORI DI VOLUME

 

Diuretici

 

I diuretici sono stati i farmaci più ampiamente impiegati nel trattamento dell'ipertensione arteriosa. Essi sono stati indicati come il trattamento di scelta dell'ipertensione e posti al primo gradino dell'intervento terapeutico. Le classi di diuretici utilizzabili nel trattamento dell'ipertensione sono i tiazidici ed i diuretici dell'ansa, non avendo i risparmiatori di potassio reale effetto antipertensivo. Nei pazienti affetti da ipertensione arteriosa si preferisce in genere somministrare un diuretico tiazidico, riservando i diuretici dell'ansa agli ipertesi con insufficienza renale, data la curva dose/risposta di tipo logaritmico.

I tiazidici agiscono inibendo il riassorbimento del sodio e del cloro all'inizio del tubulo distale (nel segmento diluente corticale) favorendo così la natriuresi (e la diuresi). Essi riducono, pertanto, il volume dei liquidi extracellulari e la portata cardiaca. Nel corso del trattamento cronico il volume plasmatico e la portata cardiaca tendono a ritornare ai valori basali, mentre si assiste ad una riduzione significativa delle resistenze vascolari periferiche, che si associa anche ad una diminuita reattività vascolare a vari stimoli pressori quali le catecolamine e l'angiotensina. La ridotta reattività vascolare potrebbe dipendere da una diminuzione del sodio e dell'acqua all'interno delle cellule muscolari lisce vascolari o da una aumentata sensibilità dei barorecettori. Le conseguenze delle iniziali modificazioni emodinamiche possono comportare delle modificazioni umorali, che si riassumono in una attivazione del sistema adrenergico e dell'asse renina-angiotensina-aldosterone.

In genere l'effetto antipertensivo si stabilizza dopo 3-4 settimane di trattamento, determinandosi la normalizzazione pressoria nella metà circa dei pazienti con ipertensione arteriosa di grado lieve-moderato. Se il diuretico da solo non basta a normalizzare la PA, si associa un altro farmaco antipertensivo, a dosaggio adeguato, in quanto il diuretico potenzia l'effetto antipertensivo di molti farmaci, attraverso la contrazione del volume plasmatico e la prevenzione della possibile ritenzione sodica.

I diuretici tiazidici e simili sono numerosi. Un dosaggio giornaliero ridotto nel trattamento dell'ipertensione arteriosa è sempre consigliabile:

12,5-50 mg di idroclorotiazide o

12,5-25 mg di clortalidone.

Quando l'idroclorotiazide viene somministrata in associazione ad un beta-bloccante, la dose giornaliera di 12,5 mg è di regola sufficiente ad ottenere il pieno effetto antipertensivo, mentre dosaggi inferiori (ad es. 6,25 mg) potrebbero essere impiegati in associazione agli ACE-inibitori in quanto risultano altrettanto efficaci dei dosaggi maggiori (ad es. 25 mg). Nei pazienti che rispondono poco ai diuretici bisogna escludere che non assumano quantità eccessiva di cloruro di sodio con la dieta o che sia presente un'insufficienza renale. In quest'ultimo caso è indicata la somministrazione dei diuretici dell'ansa, con possibilità di dosaggio incrementale.

Gli effetti collaterali indotti dai tiazidici dipendono in genere dal dosaggio e dalla durata della terapia diuretica. In particolare seguono tale regola gli effetti collaterali "metabolici" sugli elettroliti, sui lipidi, sui glicidi e sull'acido urico, e le modificazioni umorali in risposta alla deplezione di volume (attivazione dei sistemi adrenergico e renina-angiotensina-aldosterone). L'ipopotassiemia, se cospicua, è uno degli effetti collaterali potenzialmente più dannosi in quanto determina un'alcalosi metabolica, danni renali (tubulopatia kaliopenica con perdita della capacità di concentrare, alterata escrezione dei bicarbonati, raramente una nefrite interstiziale), effetti tossici sul miocardio (aritmie, aumentata sensibilità alla tossicità da digitale, modificazioni ECGrafiche con onda T invertita o appiattita, comparsa di onda U, e sottoslivellamento del tratto S-T), sull'intestino (riduzione della motilità eccezionalmente fino all'ileo paralitico, acloridria), modificazioni metaboliche (ridotta tolleranza glucidica, ridotta secrezione di insulina e di ormone della crescita, aumento di alcune classi lipidiche sieriche) e neuromuscolari (rabdomiolisi e mioglobinuria, astenia fino alla paralisi, crampi e dolori muscolari). Infine è opportuno ricordare che l'ipokaliemia è svantaggiosa anche per gli effetti sulla PA. La sua correzione, difatti, comporta la riduzione media di 5 mmHg circa della PA. La prevenzione dell'ipokaliemia si attua riducendo l'apporto dietetico del cloruro di sodio, ricorrendo ad un dosaggio ridotto di diuretico, ed arricchendo la dieta con cibi ricchi in potassio (in genere carne, verdure e frutta). Se necessario, si può associare al diuretico un agente risparmiatore di potassio (amiloride, triamterene, spironolattone, canrenoato di potassio). L'associazione di un betabloccante o di un ACE inibitore può limitare la perdita di potassio indotta dal diuretico. Se le misure preventive non danno gli effetti desiderati, si possono aggiungere sali di cloruro di potassio (KCl) che sono i soli capaci di correggere l'alcalosi metabolica ed il deficit intracellulare di K positivo. Talora i supplementi orali di KCl sono mal tollerati dal tratto gastro-enterico (gastrite, digiunite, talora emorragia o ulcere gastro-intestinali).

 

Alcune delle complicanze attribuite alla ipokaliemia, ad esempio le aritmie, potrebbero essere riconducibili alla concomitante ipomagnesiemia indotta dai diuretici. La perdita di magnesio può essere limitata dall'impiego di basse dosi di diuretici tiazidici e dall'associazione dell'amiloride.

L'iperuricemia è un altro effetto indotto dai tiazidici, i quali entrano in competizione con l'escrezione dell'acido urico a livello del tubulo prossimale.

I diuretici tiazidici aumentano il riassorbimento tubulare del calcio, ma la ipocalciuria non si associa ad ipercalcemia.

I diuretici tiazidici possono determinare un incremento dei livelli sierici dei trigliceridi e del colesterolo LDL. Tale effetto è stato riscontrato più frequentemente nelle donne in menopausa.

Una ridotta tolleranza ai carboidrati ed un peggioramento del controllo glicemico nei diabetici sono stati descritti in un certo numero di pazienti in terapia diuretica, e sembrano essere in genere correlati al grado dell'ipokaliemia.

L'iperglicemia e l'iperlipemia sono gli effetti collaterali che possono rappresentare un rischio addizionale per lo sviluppo delle malattie cardiovascolari.

 

 

INIBITORI DEL SISTEMA NERVOSO SIMPATICO

 

Alfa-1-bloccanti post-sinaptici

 

Gli alfa-1-bloccanti post-sinaptici (come la prazosina, la doxazosina, la terazosina, l'alfuzosina, la trimazosina, l'urapidil) vengono impiegati nel trattamento dell'ipertensione arteriosa essenziale.

La prazosina è un derivato chinazolinico, con una emivita di circa 3 ore ed un elevato legame alle proteine plasmatiche, metabolizzato nel fegato ed escreto dalle vie biliari. Induce una vasodilatazione periferica secondaria al blocco selettivo degli alfa-1-recettori. Alla riduzione delle resistenze vascolari periferiche non si accompagna una modificazione significativa della portata cardiaca, del flusso renale plasmatico e della filtrazione glomerulare. I livelli di renina plasmatica tendono a ridursi nel corso del trattamento. Pur essendo un vasodilatatore, la prazosina non determina tachicardia riflessa. La vasodilatazione si verifica sia sul versante arterioso, che su quello venoso (e tale intrappolamento del sangue è considerato responsabile dell'"effetto prima dose", con possibilità di sincope ortostatica alle prime somministrazioni del farmaco). La prazosina può determinare una modica sensazione di bocca secca o di lieve sedazione. Può dare anche cefalea e sensazione di stanchezza. L'effetto prima dose non è frequente, ma va prevenuto somministrando all'inizio del trattamento dosi molto basse del farmaco, incrementando successivamente e se necessario il dosaggio.

La doxazosina viene impiegata nei pazienti ipertesi perché determina rilassamento della costrizione concentrica dei vasi arteriolari di resistenza nella circolazione sistemica, senza attivazione simpatica riflessa. Ha una prolungata durata d'azione e sembra in grado di evitare il brusco rialzo pressorio del primo mattino e del tardo mattino, che sono legati all'aumentato tono alfa-adrenergico presente in quelle ore. Nei pazienti anziani non determina modificazioni del flusso ematico encefalico, né della funzione cognitiva e della performance psicomotoria. Può essere somministrata con completa sicurezza nei pazienti con concomitante broncopneumopatia cronica o asma, nei quali anzi è in grado di migliorare il volume forzato espiratorio durante il primo secondo (FEV1). Gli alfabloccanti non sembrano interferire sfavorevolmente con la funzione sessuale maschile, sia per quanto riguarda la libido, che il mantenimento dell'erezione. La doxazosina non interferisce sfavorevolmente con la capacità e la tolleranza allo sforzo fisico dinamico nei pazienti in trattamento cronico. La doxazosina può essere somministrata una sola volta al giorno, mantenendo una riduzione costante dei valori pressori in assenza di effetti collaterali significativi.

L'interesse principale per la classe di farmaci alfa-1-bloccanti è rappresentato dal loro favorevole effetto su alcuni parametri metabolici. In particolare, mentre non interferiscono sfavorevolmente con il metabolismo glicidico, sembrano anche in grado di migliorare il rischio lipidico dei pazienti ipertesi in quanto riducono la colesterolemia totale ed il

colesterolo-LDL, con un migliore rapporto del colesterolo-HDL.

Per prevenire l'eventuale ipotensione iniziale, per la prima volta, si somministrano alla sera prima di coricarsi a basso dosaggio e successivamente si può arrivare fino alla dose standard consigliata. Gli effetti riscontrati durante il trattamento con doxazosina includono vertigini posturali, talora sonnolenza e astenia, ritenzione di liquidi, visione annebbiata e bocca secca.

 

 

Alfa-1-bloccanti e ipertrofia prostatica benigna

 

La funzione e la distribuzione dei recettori adrenergici nelle basse vie urinarie rappresenta il razionale per l'impiego degli alfa-antagonisti nei pazienti affetti da ipertrofia prostatica benigna. Nel maschio il tono della muscolatura liscia dell'area del collo vescicale, dell'uretra prossimale, della capsula prostatica, e del tessuto edematoso è mediato principalmente dagli alfa-1-recettori, e bloccando questi recettori si ottiene una riduzione dei sintomi ostruttivi all'emissione di urina. La doxazosina si è dimostrata efficace per migliorare i sintomi ostruttivi e irritativi dell'ipertrofia prostatica; in questi pazienti vengono utilizzati anche altri alfa-1-bloccanti come alfuzosina e terazosina. La doxazosina non sembra dare eccessiva ipotensione ai pazienti normotesi con ipertrofia prostatica, mentre può essere vantaggiosamente inserita nel regime terapeutico dei pazienti affetti da ipertensione arteriosa e da ipertrofia prostatica.

 

L'urapidil associa all'azione periferica di alfa-1-blocco, anche un'azione centrale forse mediata dai recettori serotoninergici.   È un agente antipertensivo efficace e ben tollerato, che determina una riduzione delle resistenze vascolari periferiche, senza un aumento riflesso della frequenza cardiaca. Questa rimane, difatti, paragonabile a quella basale. Durante l'esercizio fisico è in grado di diminuire significativamente i picchi di pressione arteriosa raggiunti all'acme dell'esercizio ed, in confronto all'idroclorotiazide, è in grado di ridurre significativamente il doppio prodotto PAS x FC durante lo sforzo al cicloergometro.

 

 

Alfa e betabloccanti

 

Il labetalolo, il carvedilolo, il bucindololo ed altre sostanze possiedono la capacità di bloccare sia i recettori alfa- che quelli beta-adrenergici.

Il labetalolo è rapidamente assorbito per via orale ed è sottoposto ad un primo passaggio metabolico epatico, che ne rende biodisponibile oltre il 30% (ma la biodisponibilità aumenta con l'età). Il labetalolo non possiede selettività di beta-1 o beta-2-blocco, mentre, a simiglianza della prazosina, è un alfa-1-bloccante. Le conseguenze emodinamiche della combinazione del blocco dei recettori alfa e beta-adrenergici determinano una riduzione delle resistenze vascolari periferiche e della portata cardiaca (che poi tende a normalizzarsi). La terapia cronica con labetalolo riduce le resistenze vascolari renali e quelle della muscolatura striata degli arti. Acutamente l'attività reninica plasmatica si riduce, mentre le catecolamine plasmatiche aumentano. L'efficacia del labetalolo somministrato per via orale è sovrapponibile a quella dei beta-bloccanti; può essere impiegato nei pazienti con insufficienza renale, e si può associare ad un diuretico. La somministrazione endovenosa è riservata alle emergenze ipertensive ed alle crisi ipertensive da feocromocitoma. Tra gli effetti collaterali, si segnala la possibilità di una ipotensione ortostatica, e la possibile comparsa di parestesie al cuoio capelluto all'inizio del trattamento, soprattutto se somministrato per via endovenosa.

 

Il carvedilolo è dotato di attività betabloccante e alfa-bloccante e ciò lo rende un farmaco particolare in quanto è in grado di associare alle riconosciute azioni favorevoli sul sistema cardiovascolare dei betabloccanti, anche le attività favorevoli emodinamica di vasodilatazione e metabolica di incremento del colesterolo HDL, riduzione dei trigliceridi ed effetto favorevole sui carboidrati legate all'azione antagonista sui recettori alfa-1-adrenergici. Tutto ciò propone un ruolo significativo del carvedilolo nella cura dell'ipertensione arteriosa e di altre malattie cardiovascolari come l'angina pectoris, lo scompenso cardiaco e l'aterosclerosi in generale. Nei pazienti affetti da ipertensione arteriosa di grado lieve e moderato la somministrazione due volte al giorno di 25-50 mg di carvedilolo determina una riduzione significativa della pressione arteriosa sistolica e diastolica che persiste per l'intero arco delle 24 ore, come si può osservare dal monitoraggio dinamico non invasivo della PA. Contemporaneamente si ottiene anche una riduzione della frequenza cardiaca, mentre la frazione di eiezione ventricolare sinistra appare immodificata sia a riposo, sia durante esercizio fisico. L'incremento pressorio del primo mattino viene attenuato dal carvedilolo, che riduce le resistenze vascolari periferiche mantenendo il flusso ematico periferico e senza interferire sfavorevolmente con l'inotropismo. Il carvedilolo si è dimostrato efficace anche nei pazienti con angina pectoris nei quali previene la sintomatologia e migliora la tolleranza allo sforzo e l'ischemia correlata all'esercizio fisico. Il carvedilolo viene impiegato anche nella cura dello scompenso cardiaco. Nello studio Prospective Randomized Evaluation of Carvedilol on Symptoms and Exercise Tolerance in Chronic Heart Failure (PRECISE) il trattamento si associa a un miglioramento della frazione di eiezione ventricolare sinistra

(p = 0,001) e della classe funzionale NYHA, con un minor peggioramento dei sintomi nel tempo e una minore necessità di ricovero in ospedale per cause cardiovascolari incluso lo scompenso cardiaco manifesto (p<0,02). Nel trial Multicentre Oral Carvedilol Heart Failure Assessment (MOCHA) è stato osservato un incremento dose-correlato della frazione di eiezione del ventricolo sinistro, così come una riduzione (dose-correlata) della mortalità e della necessità di ricoveri ospedalieri per scompenso cardiaco. Questo studio ha evidenziato che gli effetti più favorevoli si ottengono in quei pazienti che assumono i dosaggi più elevati (25 mg due volte al giorno). Il trattamento dello scompenso appare come la più interessante delle indicazioni del carvedilolo, che migliora significativamente la funzione ventricolare sinistra e l'eccessiva attivazione del sistema nervoso simpatico, uno dei fattori prognostici di maggior peso nei pazienti con scompenso cardiaco. L'uso concomitante di digitale e carvedilolo provoca un aumento del 15% della concentrazione allo steady-state, per cui bisogna monitorare i livelli di digitalemia quando viene iniziato, modificato o interrotto il trattamento con carvedilolo.

Per i bloccanti alfa e beta recettoriali si segnalano le stesse interazioni farmacologiche evidenziate con i betabloccanti.

 

 

Betabloccanti

 

Essi inibiscono competitivamente i beta-recettori adrenergici e quindi riducono la frequenza cardiaca e la contrattilità miocardica (riducendo la portata cardiaca sino al 15-20%), rallentano il tempo di conduzione atrio-ventricolare e sopprimono l'automatismo ectopico, diminuiscono la concentrazione plasmatica della renina. Acutamente, soprattutto se somministrati endovena, i betabloccanti riducono la portata cardiaca ed aumentano le resistenze vascolari periferiche. Si assiste, in un periodo successivo, progressivamente ad un resetting dei barocettori, con il risultato finale di una riduzione significativa delle resistenze vascolari periferiche e di un ritorno verso la normalità della portata cardiaca. Le maggiori differenze farmacologiche tra i numerosi agenti beta-bloccanti sono rappresentate dalla liposolubilità, dalla cardioselettività e dall'attività simpatico-mimetica intrinseca. Le sostanze più liposolubili sono soggette ad una maggiore captazione ed effetto di primo-passaggio (con degradazione) attraverso il fegato (propranololo, metoprololo, oxprenololo, timololo), mentre quelle più idrosolubili vengono eliminate prevalentemente per via renale ed hanno bisogno di un minor volume di distribuzione in cui equilibrarsi (atenololo, nadololo). Ciò è particolarmente importante dal punto di vista clinico qualora sia necessario somministrare dei beta-bloccanti a dei pazienti che abbiano un'insufficienza, rispettivamente, epatica o renale. La cardioselettività consiste nella capacità di alcuni agenti di avere una maggiore affinità per i recettori beta-1-adrenergici, che sono situati prevalentemente nel cuore e nel rene, mentre i

beta-2-recettori si trovano prevalentemente nei vasi e nei bronchi, nella muscolatura uterina e sono implicati nella liberazione di alcuni ormoni come l'insulina. Da ciò deriva la definizione di cardioselettivi per i

beta-1-bloccanti come l'atenololo ed il metoprololo. Tale selettività, peraltro, si attenua e tende a scomparire quando i dosaggi sono elevati. Teoricamente un betabloccante cardioselettivo somministrato ad un dosaggio basso interferisce meno di un betabloccante non selettivo nella liberazione dell'insulina, o nella provocazione del broncospasmo, o si può somministrare anche ad una ipertesa gravida. Come già sottolineato, l'affinità per i

beta-1-recettori è massima solo per dosaggi bassi, mentre spesso i dosaggi terapeutici richiesti possono farla perdere. Per tale motivo, nei pazienti affetti da diabete mellito o asma bronchiale, qualora sia necessario somministrare un farmaco antipertensivo, è preferibile probabilmente ricorrere ad una classe di farmaci diversa dai betabloccanti. L'attività simpaticomimetica intrinseca descrive la proprietà di alcuni betabloccanti di modulare il loro blocco adrenergico, fornendo anche una lieve stimolazione. Per tale motivo questi farmaci riducono in misura minore la frequenza cardiaca e il flusso ematico periferico.

I betabloccanti sono stati considerati in regime di monoterapia al primo gradino del trattamento dell'ipertensione arteriosa, essendo efficaci nella metà circa degli ipertesi lievi-moderati. I pazienti che rispondono meno favorevolmente ai beta-bloccanti sono gli anziani, i neri, e quelli a bassa renina. Tutti i betabloccanti hanno un'efficacia praticamente simile quando vengano somministrati a dosi equipotenti. Essi sono particolarmente vantaggiosi nei pazienti ipertesi che siano affetti da angina pectoris da sforzo, o che necessitino di un trattamento con vasodilatatori diretti, o che abbiano una circolazione ipercinetica, o che siano ansiosi. Alcuni betabloccanti (atenololo, metoprololo) si sono dimostrati particolarmente efficaci nel fare regredire l'ipertrofia ventricolare sinistra determinata dall'ipertensione arteriosa, ed inoltre sono stati favorevolmente impiegati nella prevenzione secondaria della cardiopatia ischemica (nel reinfarto in particolare). Lo studio MAPHY (1976-1987) sembra far intravedere un loro possibile ruolo anche nella cardioprotezione primaria. Nei trial di prevenzione secondaria della coronaropatia la riduzione della pressione arteriosa diastolica indotta dai betabloccanti è di soli pochi mmHg (1-2 mmHg) mentre la riduzione della recidiva di infarto e di mortalità è di circa un quarto. Ciò sembra indipendente dai livelli basali della pressione arteriosa diastolica (28% per pressione diastolica superiore a 90 mmHg, 26% per pressione diastolica compresa tra 80 e 89 mmHg, 26% per pressione diastolica inferiore a 79 mmHg) e potrebbe indicare altresì qualche altro specifico effetto dei betabloccanti impiegati.

 

Il dosaggio dei betabloccanti è variabile per il propranololo, che ha un elevato primo passaggio metabolico epatico; 100-200 mg in due somministrazioni giornaliere per il metoprololo; 50-100 mg in somministrazione unica al mattino per l'atenololo; 40-80 mg al giorno in unica somministrazione al mattino di nadololo.

I beta-bloccanti interferiscono con il metabolismo epatico degli anticoagulanti cumarinici, della lidocaina e della clorpromazina, potenziano gli effetti collaterali di alcuni farmaci antiaritmici, interferiscono con l'azione degli antinfiammatori non steroidei, possono mascherare una crisi ipoglicemica, possono determinare (quelli senza attività simpaticomimetica intrinseca) un incremento della trigliceridemia ed una riduzione del colesterolo-HDL, possono scatenare una crisi ipertensiva da amine simpaticomimetiche esogene (spray e decongestionanti nasali, prescrizioni galeniche "dietetiche"). I betabloccanti sono controindicati nei pazienti con scompenso cardiaco, asma bronchiale, arteriopatia periferica. Gli effetti collaterali dei betabloccanti includono la bradicardia sintomatica ed una marcata riduzione dell'efficienza fisica, insonnia, sogni vivaci ed incubi notturni, sensazione di freddo alle estremità, fenomeno di Raynaud, impotenza.

I betabloccanti, tranne l'atenololo ed il nadololo, possono determinare anche una riduzione del flusso ematico renale del 20% circa. Essi riducono acutamente la performance all'esercizio fisico, ma sono quelli più efficaci nell'evitare elevazioni pressorie e della frequenza cardiaca all'acme dell'esercizio dinamico ed isometrico.

Sono di seguito riportati alcuni dei betabloccanti disponibili in Italia: acebutololo, atenololo, betaxololo, bisoprololo, carteololo, esmololo, metoprololo, nadololo, penbutololo, pindololo, propranololo, timololo.

I betabloccanti possono presentare interazioni farmacocinetiche con cimetidina (riduce l'effetto di primo passaggio epatico e aumenta la concentrazione plasmatica dei betabloccanti, per cui bisogna ridurre le dosi di betabloccante e cimetidina), clorpromazina (il propranololo ne aumenta la concentrazione ematica, per cui bisogna ridurre la dose di clorpromazina), colestiramina (diminuisce l'assorbimento dei betabloccanti, per cui bisogna assumere il betabloccante un'ora prima o quattro ore dopo la colestiramina), ergotamina (può agire sinergicamente con i betabloccanti nel ridurre la perfusione periferica), fenitoina (induce gli enzimi di biotrasformazione epatica e fa diminuire la concentrazione plasmatica dei betabloccanti con ampio metabolismo epatico, come il propranololo), fenobarbital (vedi fenitoina), lidocaina (la sua clearance può venir diminuita dai betabloccanti, per cui bisogna ridurre la dose di lidocaina), reserpina (l'associazione con i betabloccanti può provocare bradicardia e sincope), rifampicina (vedi fenitoina), sali d'alluminio (possono diminuire l'assorbimento dei betabloccanti), teofillina (i betabloccanti possono aumentare i livelli sierici di teofillina per ridotta eliminazione epatica).

I betabloccanti possono presentare interazioni farmacodinamiche con adrenalina (può provocare rialzi pressori attraverso una vasocostrizione indotta dall'attivazione non contrastata dei recettori alfa), antinfiammatori non steroidei (inibiscono l'azione vasodilatatoria delle prostaglandine, diminuendo l'effetto ipotensivo dei betabloccanti), clonidina (i betabloccanti, in particolare quelli non selettivi, aumentano la reazione ipertensiva che può seguire la brusca sospensione della clonidina, per cui è da evitare tale associazione), chinidina (può aumentare il rischio di ipotensione), digossina (aumento della refrattarietà del nodo atrio-ventricolare che può risultare in un blocco A-V, per cui bisogna monitorare l'elettrocardiogramma), diltiazem (effetto additivo di inibizione sul nodo del seno e sulla giunzione atrio-ventricolare, per cui è preferibile evitare l'associazione e, se necessario, monitorare l'elettrocardiogramma), efedrina (può provocare rialzi pressori attraverso una vasocostrizione indotta dall'attivazione non contrastata dai recettori alfa), fenilpropanolamina (vedi adrenalina), insulina (i betabloccanti, soprattutto i non selettivi, potenziano l'effetto ipoglicemizzante dell'insulina perché bloccano la glicogenolisi e la liberazione di insulina mediata dai recettori beta-2), pseudoefedrina (vedi adrenalina), prazosina (l'ipotensione ortostatica può essere aumentata dal concomitante trattamento con betabloccanti), sulfaniluree (vedi insulina), verapamil (vedi diltiazem).

Il fumo di sigaretta induce gli enzimi di biotrasformazone epatica e fa diminuire la concentrazione plasmatica dei betabloccanti con ampio metabolismo epatico come il propranololo.

 

 

Inibitori centrali ed alfa-2-agonisti

 

La loro attività antipertensiva si manifesta attraverso la riduzione dell'attività simpatica, come evidenziato dai minori livelli di catecolamine circolanti. Dal punto di vista emodinamico riducono le resistenze vascolari periferiche e la portata cardiaca. La capacità di adattamento all'esercizio fisico non è modificata. I livelli periferici di renina plasmatica sono ridotti. Possono determinare, tranne il guanabenz, una modesta ritenzione idrosalina e per tale motivo l'associazione con un diuretico tiazidico è molto appropriata. Essi non modificano il flusso plasmatico renale. L'interferenza a livello del sistema nervoso centrale spiega la comparsa della sedazione, della bocca secca e della riduzione dell'attenzione. La brusca sospensione di tali agenti può determinare una crisi ipertensiva da rimbalzo, per un brusco ritorno dell'attività simpatica e dei livelli di catecolamine circolanti ai livelli pre-trattamento.

L'alfametildopa è stata ampiamente ed efficacemente impiegata nel trattamento dell'ipertensione arteriosa. Il dosaggio è compreso tra 500 e 1000 mg frazionato in due o tre somministrazioni quotidiane. Attualmente viene impiegata meno frequentemente per la presenza degli effetti collaterali rappresentati da sonnolenza, ridotta capacità di risposta mentale, ipotensione posturale, positività del test di Coombs, possibile aumento delle transaminasi. La metildopa può determinare sintomi parkinsoniani per l'inibizione dell'enzima decarbossilasi necessario alla trasformazione della Dopa a Dopamina, ed inoltre i pazienti con morbo di Parkinson che assumono Levodopa possono presentare un più marcato effetto ipotensivo da metildopa (ed un miglior controllo del parkinsonismo).

La clonidina è un derivato dell'imidazolina, con una emivita plasmatica di 6-12 ore. Agisce stimolando gli alfa recettori presinaptici, riducendo quindi il tono simpatico. Essa riduce la frequenza cardiaca e la portata cardiaca, senza interferire con la risposta all'esercizio fisico, mentre le resistenze vascolari periferiche si riducono significativamente. Il dosaggio per via orale è di 0,15 mg ogni 8-12 ore, mentre è molto comoda (anche se non priva di effetti secondari locali cutanei) la preparazione transdermica che libera 0,1 mg di clonidina al giorno per un intervallo di una settimana. L'ipotensione ortostatica è rara. Gli effetti collaterali sono rappresentati dalla sedazione, dalla secchezza delle fauci e dalla sindrome da brusca sospensione.

 

Il guanabenz è molto simile alla clonidina dal punto di vista strutturale e per il meccanismo d'azione. Può essere somministrato al dosaggio di 8-24 mg al dì, in due o tre somministrazioni. L'effetto antipertensivo è simile a quello della metildopa e della clonidina, però sembra determinare una minore sodio-ritenzione. A differenza dei betabloccanti, agisce favorevolmente sul metabolismo lipidico e pertanto può essere somministrato nei pazienti con diabete mellito, oltre che in quelli con asma bronchiale.

 

 

CALCIOANTAGONISTI

 

I calcioantagonisti vengono impiegati nel trattamento dei pazienti con angina pectoris, nella terapia a lungo termine dell'ipertensione arteriosa sistemica, nelle emergenze ipertensive e nell'ipertensione perioperatoria, nel trattamento e nella profilassi delle aritmie sopraventricolari (verapamil, diltiazem), e nella riduzione della morbilità e della mortalità dei pazienti con emorragia subaracnoidea (nimodipina). Vengono inoltre proposti in molte altre situazioni cardiovascolari e non cardiovascolari. Essi hanno un effetto importante sui canali L del calcio (voltage-gated), che presentano attivazione e recupero più lenti rispetto a quelli dei canali veloci sodio-dipendenti. Quando il calcio extracellulare entra nelle cellule, esso si lega alla calmodulina. Il complesso calcio-calmodulina stimola un enzima chiamato chinasi miosina-catene leggere, che determina la fosforilazione della miosina. Questa azione è seguita dall'interazione tra actina e miosina, determinando la contrazione della muscolatura liscia vascolare, bronchiale e intestinale.

I calcioantagonisti sono efficaci nel trattamento dell'ipertensione arteriosa sistemica e delle emergenze ipertensive. Il loro possibile (multiplo) meccanismo di azione include la vasodilatazione periferica, gli effetti antiadrenergici, gli effetti natriuretici e gli effetti inotropi diretti negativi. Essi vengono considerati come farmaci di prima linea nel trattamento dell'ipertensione, essendo capaci di ridurre sia la pressione sistolica, sia la diastolica, con scarsa incidenza di effetti collaterali. Possono essere associati, quando necessario, ad altri farmaci antipertensivi e sono efficaci negli ipertesi indipendentemente dall'età (giovani e anziani) e dalla razza (bianchi e neri), mentre non riducono la pressione nei soggetti normotesi. Nei pazienti ipertesi i calcioantagonisti, oltre a ridurre gli elevati livelli di pressione arteriosa, possiedono numerosi altri effetti benefici nei pazienti con cardiopatia ipertensiva. Essi riducono l'ipertrofia ventricolare sinistra e migliorano le sue sequele, come le aritmie ventricolari e il riempimento e la contrattilità ventricolare sinistra, e la ischemia miocardica. Alcuni calcioantagonisti hanno evidenziato la capacità di ridurre l'incidenza di reinfarto, mentre altri si sono dimostrati efficaci in alcune forme di scompenso cardiaco, mentre tutti sembrano in grado di ridurre lo sviluppo dell'aterosclerosi.

Con una semplificazione massima, i calcioantagonisti impiegati nell'ipertensione arteriosa possono venire suddivisi in due gruppi: diidropiridinici e non-diidropiridinici.

 

 

Calcioantagonisti non-diidropiridinici: verapamil e diltiazem

 

Verapamil esercita il suo effetto principale a livello cellulare bloccando i movimenti transmembrana degli ioni calcio attraverso i canali del calcio che sono sia voltaggio-attivati, sia recettore-attivati. Ciò determina due modificazioni principali: le alterazioni delle proprietà elettrofisiologiche della membrana cellulare e la riduzione della concentrazione intracellulare del calcio. Verapamil e diltiazem hanno un effetto più pronunciato sul nodo seno-atriale e sulla giunzione atrio-ventricolare e pertanto questi due calcioantagonisti riducono la frequenza cardiaca e inoltre hanno un effetto intropo negativo. Il loro effetto sull'influsso del calcio nella muscolatura liscia vascolare determina l'inibizione dei complessi di actina-miosina con conseguente vasodilatazione, di grado diverso nei differenti distretti vascolari.

Verapamil può influenzare l'emodinamica cardiovascolare attraverso tre azioni principali: dilatazione coronarica, effetto inotropo negativo, dilatazione arteriosa periferica. Nei pazienti con normale funzione ventricolare sinistra verapamil non induce modificazioni contrattili significative, mentre nei pazienti con scompenso cardiaco, soprattutto se la frazione di eiezione è <30%, determina un significativo effetto cardiodepressivo con grave peggioramento della performance ventricolare. Verapamil esercita un effetto cronotropo negativo sul nodo seno-atriale e dromotropo negativo sulla giunzione atrio-ventricolare. Tali azioni si possono evidenziare alle dosi impiegate per il trattamento dell'angina pectoris, delle aritmie e dell'ipertensione arteriosa. Ciò rende verapamil particolarmente utile nel trattamento delle aritmie associate con un meccanismo di rientro nel tessuto nodale, come la tachicardia parossistica sopraventricolare e la tachicardia parossistica atriale. Per quanto riguarda l'effetto diretto sulle coronarie, esso è più evidente sulle coronarie sane e, comunque, è meno significativo di quello osservabile con nitroglicerina e dipiridamolo. Gli studi clinici hanno evidenziato che l'entità dell'effetto ipotensivo di verapamil è direttamente correlato all'elevazione della pressione arteriosa pretrattamento. Ciò consente di osservare l'assenza di effetto ipotensivo nei soggetti normotesi. L'effetto ipotensivo nei pazienti ipertesi comincia già a manifestarsi nel corso della prima settimana, ma diventa massimale entro 3-4 settimane. L'efficacia antipertensiva di verapamil è sovrapponibile a quella degli altri calcio-antagonisti e delle altre classi di farmaci antipertensivi, ed è indipendente dall'età, dalla razza e dal consumo di sodio. Bisogna evitare l'associazione di verapamil con i betabloccanti per la comune azione inotropa negativa, mentre associazioni favorevoli sono possibili con i diuretici tiazidici o gli ACE-inibitori.   È opportuno ricordare che i farmaci calcio-antagonisti non perdono il loro effetto ipotensivo quando si somministrino i FANS - farmaci antinfiammatori non steroidei - (che invece viene perso da diuretici, betabloccanti, ACE-inibitori). I due studi DAVIT II (Danish Verapamil Infarction Trial II = riduzione di reinfarto ed eventi maggiori dopo infarto miocardico soprattutto in assenza di scompenso cardiaco) e APSIS (Angina Prognosis Study in Stockolm = nei pazienti con angina pectoris stessa tollerabilità ed efficacia di metoprololo su mortalità, end-points cardiovascolari, e valutazione qualità di vita) attestano il beneficio di verapamil nei pazienti con coronaropatia. Lo studio DAVIT II sembra indicare verapamil (soprattutto negli ipertesi) come farmaco di scelta nei pazienti con post-infarto quando i betabloccanti siano controindicati o non tollerati. Lo studio APSIS sembra evidenziare un miglior comportamento di verapamil rispetto a metoprololo nei pazienti che presentano concomitante ipertensione arteriosa.

 

Diltiazem, un derivato dalle benzotiodiazine, nella sua formulazione sustained-release (somministrata due volte al giorno) venne approvato nel 1989 negli Stati Uniti d'America per il trattamento dell'ipertensione arteriosa, mentre nella formulazione normale era stato approvato nel 1973 per il trattamento dell'angina pectoris e nel 1982 per l'ipertensione arteriosa. L'impiego clinico attuale di diltiazem dipende dai suoi favorevoli effetti antischemici, antipertensivi, antiaritmici. Diltiazem ha evidenziato la stessa efficacia antipertensiva di verapamil e nifedipina (con minori effetti collaterali), idroclorotiazide, reserpina, propranololo, metoprololo, atenololo, captopril, enalapril, isradipina, nicardipina, nitrendipina. L'associazione di diltiazem e idroclorotiazide/triamterene incrementa l'efficacia rispetto alla monoterapia. Diltiazem non esercita effetti sfavorevoli sui lipidi sierici, non determina ipotensione ortostatica, non interferisce con la performance all'esercizio fisico, mentre è grado di far regredire l'ipertrofia ventricolare sinistra e di migliorare la riserva coronarica (ma non ha un effetto significativo sulla funzione sistolica e diastolica del ventricolo sinistro). Studi sugli animali di laboratorio hanno evidenziato un effetto teratogeno sugli embrioni di ratto, per cui sono necessarie precauzioni d'uso nelle donne gravide, che allattano e nei bambini. Cautela anche nei pazienti con disfunzioni renali ed epatiche. Sul foglietto delle avvertenze viene riportata la necessità di particolare cautela nei pazienti con ritardi della conduzione atrio-ventricolare, scompenso cardiaco, ipotensione, danno epatico acuto, pause sinusali transitorie. Controindicazioni assolute sono rappresentate dalla malattia del nodo del seno (tranne se sia già impiantato un pacemaker funzionante), dal blocco atrioventricolare di secondo o terzo grado, dall'ipotensione con pressione sistolica inferiore a 90 mmHg, dall'infarto acuto del miocardio con congestione polmonare. Sono state descritte interazioni farmacocinetiche di diltiazem con digossina, propranololo, teofillina, chinidina, lidocaina, disopiramide, amiodarone, cimetidina, nifedipina, carbamazepina, diaze-pam, gentamicina. I nitrati possono determinare occasionalmente ipotensione quando somministrati contemporaneamente a diltiazem, e interferiscono significativamente con gli anestetici, specie quelli alogenati.

 

 

Calcioantagonisti diidropiridinici

 

Nifedipina, che blocca selettivamente i canali lenti a livello cardiaco e della muscolatura liscia vascolare, è stato il primo farmaco calcioantagonista diidropiridinico impiegato in clinica. Nifedipina venne inizialmente messa sul mercato in capsule da 10 mg con breve emivita e durata d'azione. Due studi caso-controllo sono stati pubblicati come metanalisi nel 1995, evidenzianti che le formulazioni a breve rilascio e durata d'azione, che determinano un'attivazione acuta neuroendocrina riflessa, potrebbero incrementare il rischio di coronaropatia nei pazienti che già basalmente presentano dati compatibili con eventi ischemici. Inoltre, nifedipina dovrebbe essere usata con cautela nelle urgenze ipertensive instabili perché una troppo cospicua vasodilatazione può associarsi a un incremento del consumo di ossigeno che causerebbe peggioramento dell'ischemia miocardica. Ciò sembra confermare quanto già noto in generale per i vasodilatatori diretti a breve durata d'azione: le capsule di nifedipina a breve durata e rapido inizio d'azione potrebbero aumentare il rischio di reinfarto e non dovrebbero essere impiegate in questi pazienti. Attualmente nei pazienti ipertesi vengono impiegate le formulazioni ritardo (GITS = sistema terapeutico gastrointestinale) da 30 e 60 mg che possono essere somministrate una unica volta al giorno e che non determinano incrementi acuti dell'attivazione neuroendocrina riflessa. Vi sono numerose evidenze dimostranti che i calcioantagonisti a lunga durata d'azione possono non determinare gli effetti avversi che sarebbero stati osservati retrospettivamente con quelli a breve durata d'azione. Il problema fondamentale è che al momento attuale non sono completamente disponibili gli studi prospettici randomizzati non solo con i calcioantagonisti, ma anche con gli altri "nuovi farmaci" antipertensivi come gli ACE inibitori e gli alfa-1-bloccanti. In attesa di ciò, l'atteggiamento clinico più conseguente riguardo ai calcioantagonisti nel trattamento dell'ipertensione è quello di evitare le preparazioni a breve durata d'azione e di impiegare le preparazioni a lunga durata d'azione. Al momento sono disponibili i dati dello studio STONE (Shangai Trial Of Nifedipine in the Elderly) che dimostrano quantomeno che l'impiego di nifedipina nell'ipertensione dell'anziano è almeno altrettanto favorevole sugli eventi cardiovascolari maggiori come quelli ottenuti nei trial che hanno impiegato i diuretici e i betabloccanti. Per quanto riguarda il trattamento dell'ipertensione arteriosa in generale, è opportuno ricordare che i farmaci e le preparazioni farmacologiche in grado di controllare gli elevati valori pressori lungo tutto l'arco delle 24 ore sono quelli più importanti per la rimozione del rischio cardiovascolare legato all'ipertensione arteriosa. Difatti, vi sono numerose evidenze dimostranti che i danni a carico degli organi bersaglio si correlano alle misurazioni pressorie delle 24 ore, e che una riduzione dei valori delle misurazioni pressorie delle 24 ore può predire la verosimile riduzione del danno cardiovascolare sugli organi bersaglio. Attualmente milioni di pazienti in tutto il mondo impiegano i calcioantagonisti per il trattamento dell'ipertensione arteriosa e dell'angina pectoris. Nifedipina, come gli altri calcioantagonisti, riduce la pressione arteriosa attraverso la diminuzione del tono della muscolatura liscia vascolare e pertanto delle resistenze vascolari periferiche totali. L'effetto ipotensivo è evidente indipendentemente dall'età, dal genere e dalla razza, e si manifesta anche nei pazienti con malattie concomitanti. La somministrazione di nifedipina di solito non si associa a modificazioni biochimiche-metaboliche, a depressione mentale, a disfunzione sessuale, a sedazione, a disturbi del sonno.

Amlodipina (come felodipina, nicardipina e isradipina) appartiene a una sottoclasse di diidropiridinici che mostra di possedere una minore depressione contrattile miocardica e poche modificazioni sulle vie di conduzione, conservando la capacità di una buona vasodilatazione arteriolare. L'efficacia a lungo termine e la tollerabilità dell'amlodipina sono state valutate nel trial TOMHS (Treatment Of Mild Hypertension Study): l'amlodipina ha ridotto la pressione sistolica di 15,6±0,9 mmHg e la diastolica di 12,9±0,4 mmHg senza comportare modificazioni sfavorevoli sulla qualità di vita e senza modificare lo score degli effetti collaterali rispetto al placebo. Inoltre, i risultati dello studio Amlodipine Cardiovascular Community Trial hanno mostrato che amlodipina è sicura ed efficace quando somministrata una sola volta al giorno perché ha una durata d'azione che copre tutto l'arco delle 24 ore, sia nei maschi che nelle femmine, sia nei giovani che negli anziani.

 

Tutti i farmaci diidropiridinici, in base all'effetto selettivo sulle arteriole, determinano edemi pretibiali, mentre alcuni possono dare, raramente, una gengivite iperplastica. L'effetto favorevole dell'emodinamica intrarenale indotta dai diidropiridinici si associa a un incremento della natriuresi.

La cidipina è tra i nuovi diidropiridinici disponibili per il trattamento dell'ipertensione arteriosa, essendo stata ampiamente valutata nei pazienti con ipertensione lieve e moderata. Il dosaggio standard di 4 mg in unica somministrazione al mattino consente il controllo degli elevati valori pressori per tutto l'arco delle 24 ore in una buona percentuale di pazienti senza compromettere la performance cardiorespiratoria allo sforzo fisico dinamico al cicloergometro. Ha un buon profilo riguardo alla comparsa degli effetti collaterali, ricordando che tutti i diidropiridinici possono dare cefalea, arrossamento e senso di calore al volto, edema pretibiale, vertigini, palpitazioni, affaticamento, dispepsia. La cidipina ha numerose proprietà addizionali, come un pronunciato effetto antiaterogenico nei modelli animali dell'aterosclerosi: sono in corso di completamento studi per determinare le proprietà antiaterogeniche nei pazienti ipertesi.

 

 

ACE-INIBITORI

 

Sono i farmaci che inibiscono l'enzima di conversione. Sono ormai ampiamente raccomandati nel trattamento dell'ipertensione arteriosa di grado lieve e moderato. La riduzione dei valori pressori non deve rappresentare solo l'intervento su un parametro puramente emodinamico, ma deve tenere conto della possibilità di riportare il sistema cardiovascolare alle condizioni preesistenti all'innesco delle modificazioni che hanno condotto al manifestarsi dell'ipertensione arteriosa. Bisogna pertanto che l'agente antipertensivo ideale sia in grado di far regredire e/o prevenire i danni a carico degli organi bersaglio, di migliorare i flussi distrettuali, di non agire sfavorevolmente sul profilo di rischio cardiovascolare (ad esempio lipidi, glicidi, potassio), di agire sui meccanismi che possibilmente iniziano il processo ipertensivante, di non indurre effetti emodinamici sfavorevoli, di non indurre effetti metabolici ed umorali sfavorevoli, di migliorare la qualità della vita onde consentire l'adeguata compliance al trattamento.

I farmaci ACE-inibitori (ACE-I) sono effettivamente in grado di normalizzare la pressione arteriosa in una elevata percentuale di pazienti con ipertensione arteriosa di grado lieve e moderato, di far regredire lo sviluppo e la progressione dell'ipertrofia cardiaca e, più a lungo termine, vascolare, di migliorare il flusso distrettuale coronarico ridotto dall'attivazione del sistema renina-angiotensina indotta dai diuretici drastici, di non modificare l'assetto lipidico e la tolleranza glicidica. L'ipertrofia cardiaca di origine ipertensiva ha gravi conseguenze di detrimento che culminano alla fine nello scompenso cardiaco: in primis la disfunzione sistolica e la disfunzione diastolica (che riflette l'aumentata rigidità diastolica ventricolare), le aritmie che sono in parte facilitate dall'aumento del tono simpatico, e la riduzione della riserva coronarica che si associa generalmente con varie lesioni delle pareti arteriose. Gli ACE-inibitori migliorano la qualità della vita, quando confrontati con altri farmaci antipertensivi, in quanto sono generalmente privi di effetti collaterali sfavorevoli.

Captopril, enalapril, lisinopril, ramipril, quinapril, benazepril, cilazapril, perindopril, trandolapril, moexipril, fosinopril e molti altri sono farmaci in grado di inibire l'enzima che converte l'angiotensina I, inattiva, in angiotensina II, attiva e vasocostrittrice. Tale blocco enzimatico interferisce anche con la chininasi II ed evita pertanto la catabolizzazione della bradichinina, attiva e vasodilatatrice, nei peptidi ed aminoacidi inattivi. L'interferenza con il grado di attivazione del sistema renina-angiotensina è meglio evidenziabile nell'esperienza acuta, mentre è ormai accertato che nel trattamento cronico intervengono anche altri meccanismi. Dal punto di vista emodinamico, nei pazienti responders gli ACE-inibitori determinano una vasodilatazione significativa con riduzione delle resistenze vascolari periferiche, senza una attivazione simpatica riflessa. La portata cardiaca e la frequenza cardiaca, difatti, non risultano modificate rispetto ai valori pretrattamento. Gli ACE-inibitori risultano particolarmente indicati nell'ipertensione arteriosa in quanto si sono dimostrati efficaci nella regressione dei danni instaurati a carico degli organi bersaglio: ad esempio sono in grado di far regredire l'ipertrofia ventricolare sinistra della cardiopatia ipertensiva e le alterazioni strutturali vascolari. La capacità di ridurre l'ipertrofia cardiaca e vascolare è una proprietà intrigante che fornisce una discrepanza favorevole nei pazienti ipertesi che va oltre gli effetti emodinamici degli ACE-inibitori, e cioè i loro effetti sulla troficità. Una possibile interpretazione di questa osservazione indica che in molte circostanze l'angiotensina II agisce più come un fattore trascrizionale genetico che solo come un potente determinante fisiologico della vasomotricità. Inoltre essi non interferiscono con il flusso ematico cerebrale, e migliorano il flusso coronarico ridotto dalla contrazione del volume plasmatico (e successiva attivazione sistema renina-angiotensina) indotta dai diuretici drastici. Sono farmaci particolarmente indicati nei pazienti ipertesi anziani e negli ipertesi con scompenso cardiaco. Il rimodellamento cardiaco è sotto il controllo di numerosi fattori che svolgono un ruolo di complesse interconnessioni. Il ruolo giocato dall'angiotensina II e dall'aldosterone sembra peraltro cruciale. Nei modelli animali, la disfunzione ventricolare sinistra che si manifesta come una dilatazione ventricolare (in seguito a un infarto miocardico) o come ipertrofia (concomitante all'ipertensione arteriosa, al sovraccarico sistolico pressorio) è caratterizzata dall'elevazione dei livelli di aldosterone e di angiotensina II. Gli ACE-inibitori influenzano favorevolmente la funzione miocardica in entrambe le situazioni, modulando la compliance vascolare. Negli studi sugli animali di laboratorio è stato possibile osservare che la capacità degli ACE-inibitori di interferire con la troficità oltre che con la vasomotricità viene confermata dalla possibilità di prevenire o abolire la necrosi fibrinoide (negli animali SHR proni allo stroke) in quasi tutti gli organi bersaglio anche a dosi sub-ipotensive di ACE-inibitori. Nei pazienti affetti da ipertensione vi è uno squilibrio tra le componenti simpatica e parasimpatica del sistema nervoso autonomo. Gli ACE-inibitori sono in grado di riportare verso la norma tale imbalance autonomico, riducendo il drive simpatico e aumentando la componente parasimpatica. Tali caratteristiche autonomiche possono avere un risvolto anche nella pratica clinica in quanto secondo alcuni studi i pazienti che rispondono meglio al trattamento ipotensivo con ACE-inibitori sono caratterizzati da un elevato tono simpatico e un ridotto tono parasimpatico, e da un'iperattivazione simpatica in risposta all'ortostatismo. Gli effetti collaterali sono di regola modesti. Quando confrontati con altri antipertensivi attualmente meno impiegati proprio per alcune caratteristiche collaterali, migliorano la "qualità della vita". Inizialmente gli ACE-inibitori erano stati proposti, ad alti dosaggi, nell'ipertensione grave di genesi nefrovascolare. Attualmente essi vengono largamente ed utilmente impiegati anche nell'ipertensione arteriosa di grado lieve e moderato, determinando la normalizzazione della PA in oltre il 50% dei pazienti trattati.

 

Non bisogna somministrare gli ACE-inibitori agli ipertesi con stenosi bilaterale delle arterie renali, per evitare una insufficienza renale acuta. In una piccola percentuale di soggetti gli ACE-inibitori possono determinare tosse. Nei pazienti con insufficienza renale possono indurre un aumento della potassiemia. Nei pazienti con insufficienza renale nei quali il flusso glomerulare è mantenuto dall'angiotensina II, è controindicato somministrare gli ACE-inibitori, che in questi casi possono causare un peggioramento della funzione renale. Gli ACE-inibitori possono ridurre la proteinuria, indice di danno renale, nei pazienti affetti da diabete mellito e ipertensione arteriosa, anche in quelli in cui non determinano una normalizzazione dei valori pressori, ed anche nei diabetici normotesi.

Negli animali di laboratorio il captopril interferisce con il flusso ematico uterino e determina una riduzione dello sviluppo fetale: pertanto gli ACE-inibitori non debbono venire somministrati in corso di gravidanza. Tra gli effetti collaterali segnalati, ma rari, si ricordano la tosse, le possibili dermatiti ed i rash cutanei talora fotoattivati, l'ageusia, la leucopenia.

Vengono di seguito riportati alcuni degli ACE-inibitori in commercio in Italia: benazepril, captopril, enalapril, fosinopril, lisinopril, moexipril, periprindil, quinapril, ramipril, trandolapril.

Dal versante farmacocinetico, essi possono interagire con gli antiacidi (carbonato di magnesio, idrossido di alluminio e di magnesio, che possono diminuire la biodisponibilità degli ACE-I), mentre sono state riportate le seguenti interazioni farmacodinamiche con: diuretici risparmiatori di potassio (spironolattone, triamterene, amiloride, che aumentano il rischio di iperkaliemia, soprattutto se è presente un'alterata funzionalità renale), supplementi di potassio (vedi risparmiatori di potassio), farmaci antinfiammatori non steroidei compresi l'aspirina, l'ibuprofene e in particolare l'indometacina (possono ridurre l'efficacia degli

ACE-I in seguito all'inibizione della sintesi di prostaglandine vasodilatatorie), farmaci antidiabetici (ipoglicemizzanti orali o insulina mostrano un aumento dell'effetto ipoglicemico soprattutto durante la prima settimana di trattamento e nei pazienti con funzione renale compromessa), litio (può determinarsi un aumento dei livelli ematici con sintomi da intossicazione da litio, per cui la somministrazione contemporanea agli ACE-I va fatta con cautela e la litiemia controllata frequentemente), vasodilatatori (i nitroderivati possono causare un'esagerata risposta ipotensiva), anestetici (vedi vasodilatatori), allopurinolo (può aumentare il rischio di leucopenia), citostatici o agenti immunosoppressori (vedi allopurinolo), corticosteroidi sistemici (vedi allopurinolo), procainamide (vedi allopurinolo), simpaticomimetici (possono ridurre gli effetti antipertensivi degli ACE-I), cloruro di sodio (può attenuare l'azione ipotensiva degli ACE-I), digossina (nei pazienti con scompenso cardiaco le concentrazioni sieriche di digossina possono aumentare di circa il 15-30% quando somministrata contemporaneamente a captopril), probenecid (può aumentare le concentrazioni ematiche di captopril e dei suoi metaboliti, probabilmente attraverso una diminuzione della secrezione tubulare di captopril), tetracicline (il loro assorbimento è ridotto del 28-37% dal quinapril).

 

 

INIBITORI DEI RECETTORI DELL'ANGIOTENSINA II

 

Vi sono due principali classi di recettori dell'angiotensina II: i siti leganti AT1 e AT2. La maggior parte, se non tutti, gli effetti cardiovascolari noti dell'angiotensina II sembrano essere legati all'azione sul recettore AT1, mentre il ruolo dei recettori AT2 al momento attuale non è completamente chiarito. Gli antagonisti dei recettori dell'angiotensina II sono specifici per il sottotipo dei recettori AT1, che sono quelli che mediano i maggiori effetti fisiologici dell'angiotensina II, incluse la vasocostrizione, la stimolazione dell'aldosterone e l'aumentata sensibilità alle catecolamine.

Losartan è il primo antagonista non peptidico dei recettori dell'angiotensina II sviluppato clinicamente. Losartan agisce selettivamente sul recettore AT1 e nei trial clinici si è dimostrato agire come un efficace farmaco antipertensivo. Losartan inibisce in maniera competitiva e molto potente il legame specifico dell'angiotensina II con la muscolatura liscia e con la zona microsomiale della corteccia surrenalica. Possiede una forte affinità di legame per tali recettori, determinando effetti farmacologici ed emodinamici prevedibili, ma vi è una ulteriore azione svolta, con effetti più prolungati e potenti, dal suo principale metabolita attivo (acido 5-carbossilico), che si lega specificamente sui siti recettoriali dell'angiotensina II che si trovano nella corteccia surrenalica. Questo metabolita differisce da losartan perché ha proprietà di antagonismo non competitivo sul recettore AT1: losartan è responsabile dell'effetto antipertensivo iniziale, nelle prime ore dopo la somministrazione, mentre il prolungamento dell'effetto antipertensivo è legato al suo metabolita attivo. Nei pazienti affetti da ipertensione arteriosa essenziale la dose di losartan in grado di normalizzare la pressione elevata è costituita da 50 mg in unica somministrazione al mattino, con un buon rapporto valle/picco. Il monitoraggio dinamico non invasivo della pressione arteriosa per 24 ore ha evidenziato che l'effetto ipotensivo si mantiene nell'arco della giornata senza modificare il profilo circadiano. L'efficacia antipertensiva di losartan è risultata simile a quella ottenuta con la somministrazione di altri farmaci ipotensivi:

ACE-inibitori, betabloccanti, calcioantagonisti, diuretici. L'efficacia antipertensiva di losartan è accresciuta, quando necessario, dall'associazione di un diuretico tiazidico.

L'esperienza clinica ha evidenziato che losartan è ben tollerato, con un profilo di eventi avversi simile a quello dei farmaci ACE-inibitori, ma rispetto a questi ultimi presenta una minore incidenza di tosse. Come gli ACE-inibitori, anche gli inibitori dei recettori dell'angiotensina II mostrano effetti neutri sul metabolismo glicidico e su quello lipidico, mentre riducono i livelli di uricemia. Ciò è particolarmente utile in quei pazienti ipertesi che presentano associate altre "malattie metaboliche" come l'obesità, l'alterata sensibilità all'insulina, la dislipidemia, e nei pazienti ipertesi in trattamento con diuretici tiazidici che, notoriamente, determinano un incremento dell'uricemia.

Si possono avere interazioni farmacodinamiche con i diuretici risparmiatori di potassio, i supplementi di potassio e l'eparina (in tutti e tre i casi aumenta il rischio di iperkaliemia).

Alcuni altri antagonisti dei recettori dell'angiotensina II sono: valsartan, irbesartan, candesartan.

 

 

 

Bibliografia essenziale

Frohilch E.D.: Hypretension. Approach in Specialized Populations. Williams & Wilkins, London, 1997.

Kaplan N.K.: Clinical Hypertension. Seventh Edition, Williams & Wilkins, London, 1997.

 

Messerli F.H.: Cardiovascular Drug Therapy. 2nd edition, WB Saunders Company, Philadelphia, 1996.

Toplo E.J.: Textbook of Cardiovascular Medicine. Lippicott-Reven Publishers, Hagerstown, 1997.

 

 

 

RAFFAELE FARIELLO

Aiuto Corresponsabile 1a Divisione Medica

Ospedali Civili di Brescia;

Professore a Contratto Scuola di Specializzazione in

Medicina Interna dell’Università degli Studi di Brescia

 

MASSIMO CRIPPA

Specializzando in Medicina Interna

dell’Università degli Studi di Brescia

1a Divisione Medica, Ospedali Civili di Brescia

 

GIANPAOLO DAMIANI

Specializzando in Medicina Interna

Dell’Università degli Studi di Brescia

1a Divisione Medica, Ospedali Civili di Brescia

 

RAFFAELLA COSTA

Specializzando in Medicina Interna

Dell’Università degli Studi di Brescia

1a Divisione Medica, Ospedali Civili di Brescia

 

ILARIA NOTARISTEFANO

Specializzando in Medicina Interna

Dell’Università degli Studi di Brescia

1a Divisione Medica, Ospedali Civili di Brescia

 

 

 

DIAGNOSTICA DEGLI STATI IPERTENSIVI

 

R. FARIELLO - M. CRIPPA - I. NOTARISTEFANO - R. COSTA

 

 

INTRODUZIONE

 

La valutazione diagnostica iniziale dei pazienti affetti da ipertensione arteriosa include:

-la misurazione accurata e senza errori della pressione arteriosa;

-la valutazione dello stato del rischio non-ipertensivo;

-l'anamnesi e l'esame obiettivo;

-le indagini di laboratorio di primo livello;

-la stadiazione delle complicanze o delle patologie legate alla malattia cardiovascolare;

-la ricerca delle cause reversibili di ipertensione;

-lo stato medico generale, con particolare riguardo alle alterazioni addizionali, alle allergie, e agli altri fattori pertinenti il singolo paziente iperteso.

Lo scopo delle indagini negli ipertesi, pertanto, deve tendere alla valutazione del danno sugli organi bersaglio, alla identificazione dell'ipertensione secondaria, e alla definizione di altri fattori di rischio per le malattie cardiovascolari. Ciò è molto importante, in quanto la presenza e l'entità del danno a carico degli organi bersaglio determinano la probabilità di eventi cardiovascolari: ad esempio, un paziente iperteso con ipertrofia ventricolare sinistra presenta un aumento del rischio di circa 5 volte per infarto del miocardio, accidente vascolare cerebrale, morte improvvisa, scompenso cardiaco; o un paziente con cardiopatia ischemica già presente è a un più elevato rischio assoluto di un ulteriore evento, e pertanto probabilmente può ottenere un maggiore beneficio assoluto dal trattamento eseguito correttamente e senza indugio.

Il danno grave a carico degli organi bersaglio dipendente dagli elevati valori pressori è rappresentato da:

-encefalopatia;.

-retinopatia (gradi III o IV);

-insufficienza renale;

-aneurisma dissecante dell'aorta;

-scompenso cardiaco.

Il danno a carico degli organi bersaglio dovuto alla reazione dei sistema cardiovascolare all'elevata pressione arteriosa è rappresentato da:

-ipertrofia ventricolare sinistra;

-retinopatia (gradi I e H).

L'ipertensione secondaria, ad esempio l'ipertensione nefrovascolare, può aggravare la disfunzione ventricolare sinistra, in quanto determina vasocostrizione angiotensina-mediata, ed espansione del volume dei liquidi extracellulari.

 

 

DIAGNOSI DI IPERTENSIONE ARTERIOSA E MISURAZIONE DELLA PRESSIONE ARTERIOSA

 

Se determinata correttamente, si può essere certi della definizione di normalità (normotensione) alla misurazione clinica della pressione arteriosa (PA) con lo sfigmomanometro a mercurio per valori inferiori a 130/85 mmHg (sistolica/diastolica). Quando i valori risultano più elevati alla prima misurazione, si può essere prevedibilmente certi di porre la diagnosi di ipertensione arteriosa quando i valori siano già significativamente alti (ad esempio, 180/110 mmHg o di più), mentre è opportuno seguire i pazienti in due o tre determinazioni successive quando vi sia un'ipertensione lieve o una ipertensione di confine (ad esempio, con una PA diastolica compresa tra 90 e 100 mmHg alla prima misurazione).

Le linee di divisione tra la pressione arteriosa normale, la pressione arteriosa ai limiti alti della normalità, e la ipertensione arteriosa lieve sono situate tutte nella parte estrema della porzione discendente della curva di distribuzione della popolazione. E'sufficiente un errore di misurazione anche piccolo (ad esempio, di 5 mmHg) per classificare come ipertesi soggetti che sono normotesi (diagnosi falsapositiva) o al contrario come normotesi pazienti ipertesi (diagnosi falsa-negativa).

Oltre a queste osservazioni di tipo statistico-epidemiologico, vi sono altre fonti di errore attribuibili a chi misura la pressione (ad esempio, medico che sgonfia troppo rapidamente il manicotto dei bracciale) o a una reazione "di allarme" eccessiva da parte del paziente (ad esempio, reazione da "camice bianco").

Pertanto, nei pazienti con valori di PA lievemente elevati, è opportuno ripetere le misurazioni in maniera corretta e adeguata (almeno otto volte in un periodo di sei mesi).

 

 

CLASSIFICAZIONE

 

Secondo le Linee Guida del Comitato dell'Organizzazione Mondiale della Sanità e della Società Internazionale dell'Ipertensione, la classificazione dell'ipertensione sulla base dei livelli pressori indica come:

-normotensione: sistolica < 140 mmHg e diastolica < 90 mmHg;

-ipertensione lieve: sistolica tra 140 e 180 mmHg e/o diastolica tra 90 e 105 mmHg (sottogruppo ipertensione borderline: sistolica tra 140 e 160 mmHg e diastolica tra 90 e 95 mmHg);

-ipertensione moderata e grave: sistolica  uguale o > 160 mmHg c/o diastolica uguale o > 105mmHg;

-ipertensione sistolica isolata: sistolica uguale o > 160mmHg e diastolica < 90 mmHg (sottogruppo ipertensione sistolica isolata borderline: sistolica tra 140 e 160 mmHg e diastolica < 90 mmHg.

Secondo le stesse linee guida, la classificazione dell'ipertensione sulla base del danno d'organo indica come:

-Stadio I: non segni obiettivi di danno;

-StadioII: almeno uno dei seguenti segni di coinvolgimento d'organo: ipertrofia ventricolare sinistra (radiografia, ECG, ecocardiografia); restringimento diffuso o localizzato delle arterie retiniche; proteinuria e/o aumento della creatininemia di modica entità (1,2-2,0 mg/dl); documentazione ecografica o radiologica di placche aterosclerotiche (carotidi, aorta, arterie iliache e femorali);

-Stadio III. sono presenti sintomi e segni di danno d'organo, che comprendono: cuore (angina pectoris, infarto del miocardio, insufficienza cardiaca); cervello (attacco ischemico transitorio, ictus, encefalopatia ipertensiva); retina (fundus oculi: emorragie retiniche ed essudati con o senza edema papillare); reni (creatininemia > 2,0 mg/dl, insufficienza renale); arterie (aneurisma dissecante, arteriopatia ostruttiva sintomatica).

 

 

MISURAZIONE DELLA PRESSIONE ARTERIOSA

 

Quando si utilizza il metodo indiretto impiegando lo sfigmomanometro a mercurio, vi sono alcune norme che vanno attentamente seguite. Quando si determina la PA in posizione seduta, il paziente deve restare seduto su una sedia con uno schienale comodo per diversi minuti in un ambiente tranquillo, con l'avambraccio appoggiato mantenendo la fossa antecubitale a livello del cuore e con i muscoli rilassati. Il bracciale impiegato deve essere di misura adeguata a essere avvolto direttamente sulla cute dell'arto superiore. Le dimensioni ottimali del bracciale negli adulti sono di 13-15 cm di altezza e di 30-35 cm di lunghezza. Negli obesi sono necessari bracciali più grandi, mentre nei bambini bracciali più piccoli. Il bracciale viene rapidamente gonfiato fino a superare di circa 30 mmHg la scomparsa del polso, e viene sgonfiato lentamente di circa 2 mmHg al secondo. Il fonendoscopio posto sull'arteria brachiale fa ascoltare i toni di Korotkoff. La pressione sistolica corrisponde alla comparsa dei toni (fase I) e la diastolica alla scomparsa dei toni (fase V). La pressione va determinata almeno due volte a distanza di 3 minuti circa. Alla prima visita la PA si determina in entrambi gli arti. La pressione viene determinata anche in piedi, soprattutto nei pazienti anziani e in quelli in cui si sospetti un'ipotensione ortostatica.

 

Come già detto, nei pazienti con ipertensione lieve, sono necessari ripetuti controlli (da 5 a 8) nel tempo (un periodo di 6 mesi) prima di poter porre con certezza la diagnosi. Difatti il 20% circa dei pazienti con ipertensione lieve può presentare durante tale periodo di osservazione una normalizzazione dei valori pressori all'inizio lievemente elevati.

 

 

MONITORAGGIO DINAMICO DELLA PRESSIONE ARTERIOSA

 

Il monitoraggio dinamico della pressione arteriosa si esegue impiegando una apparecchiatura portatile automatica (pressurometro) in grado di registrare la PA per un periodo prolungato (24 ore) con il paziente libero di svolgere le abituali occupazioni quotidiane. Le situazioni nelle quali il monitoraggio dinamico della PA può risultare utile sono le seguenti:

-ipertensione borderline (PA in posizione seduta, dopo 2-3 visite in ambulatorio, di 135-150/85-100);

-ipertensione refrattaria al trattamento;

-verosimile sindrome da camice bianco, quando vi è una sproporzione tra i valori pressori elevati riscontrati in ambulatorio (pressione clinica o casuale) e l'assoluta normalità dello stato clinico del paziente;

-sospetto di ipertensione sul posto di lavoro, legato a una occupazione con elevato stato di "tensione";

-alcune forme di ipertensione secondaria (feocromocitoma, sindrome di Cushing);

-sospetto di sindrome che altera il normale ritmo pressorio circadiano.

La misurazione dinamica della PA per 24 ore e la automisurazione domiciliare della PA non possono venire paragonate alla PA determinata dal medico in ambulatorio, e pertanto, in assenza di dati prognostici su larga scala, rappresentano un complemento ai dati pressori misurati dal medico.

 

 

DETERMINAZIONE DEI FATTORI DI RISCHIO PRESENTI OLTRE E/O NON LEGATI ALL'IPERTENSIONE ARTERIOSA

 

PESO CORPOREO E ST1LE DI VITA

 

Il peso e l'altezza vanno misurati in tutti i pazienti alla visita iniziale (tab.01x). Il peso corporeo va ricontrollato a ogni visita successiva. L'indice di massa corporea (BMI) si calcola in base al peso (chili) e all'altezza (metri quadri). Nell'uomo il BMI desiderabile è di 25 o meno (limite superiore del 10%, 27,5), mentre nella donna è 24 (limite superiore del 10%, 26,4). Nella tabella sono riportati il peso desiderabile e il limite superiore "consentito" del 10% in base all'altezza nell'uomo e nella donna. Il sovrappeso e l'obesità sono direttamente correlate all'aumento della pressione arteriosa. L'eccesso di adipe nella parte superiore dei corpo (tronco o addome), determinante un aumento del rapporto vita-fianchi superiore a 0,95 nell'uomo e a 0,85 nella donna, si correla con la presenza di ipertensione arteriosa, dislipidemia, diabete mellito e incrementata mortalità da coronaropatia. Al contrario, la normalizzazione del peso corporeo si accompagna alla riduzione della pressione arteriosa e/o al miglioramento dell'effetto antipertensivo dei farmaci somministrati. Il consumo di alcol, se eccessivo, può determinare un incremento dei valori di PA e causare la resistenza al trattamento farmacologico antipertensivo. Il consumo di alcol etilico non deve eccedere i 30 g/die (240 g/die di vino o 720 g/die di birra).

L'introduzione dietetica del sodio non dovrebbe eccedere 6 g/die di cloruro di sodio (2,3 g/die di sodio).

L'attività fisica di tipo aerobico regolare, che comporta un allenamento costante, oltre a dare un benessere psico-fisico da "buona forma fisica", è in grado di ridurre i valori pressori se lievemente elevati e può prevenire la comparsa di ipertensione nei soggetti che si mantengono attivi per tutta la vita, rispetto a quelli che diventano sedentari.

 

 

RIDOTTA TOLLERANZA AI CARBOIDRATI, RESISTENZA INSULINICA E DIABETE MELLITO

 

E' di osservazione clinica frequente l'associazione tra ipertensione arteriosa, sovrappeso e diabete mellito non insulino - dipendente.

In molti studi è stata riscontrata la prevalenza dei 6-7% di diabete mellito nella popolazione dei pazienti affetti da ipertensione arteriosa. Inoltre, se si considera la determinazione della glicemia post-prandiale o il test del carico di glucosio nei pazienti ipertesi che non sono francamente diabetici (con una glicemia a digiuno che non è superiore a 140 mg/dl), la prevalenza di una ridotta tolleranza glicidica è del 10-15% circa. La resistenza insulinica e la ridotta tolleranza glicidica possono pertanto rappresentare un fattore di rischio aggiuntivo nei pazienti ipertesi.

 

 

IPERCOLESTEROLEMIA

 

Un livello plasmatico elevato di colesterolo veicolato alle lipoproteine a bassa densità (LDL) costituisce un fattore di rischio significativo per lo sviluppo delle malattie cardiovascolari. Inoltre in alcune popolazioni di pazienti ipertesi sono stati descritti anche bassi livelli di colesterolo HDL in combinazione con obesità, diabete mellito non insulino-dipendente e ipertrigliceridemia. Tale sindrome metabolica (definita sindrome X) sembra dipendere da una particolare anomala aggregazione genetica.

 

 

ANAMNESI ED ESAME OBIETTIVO

 

La diagnosi di ipertensione arteriosa si basa innanzitutto sull'esecuzione di una anamnesi dettagliata e di un esame fisico accurato.

               

 

ANAMNESI

 

In tutti i pazienti è utile indagare sulla durata dell'ipertensione (informandosi degli ultimi valori sicuramente normali), sull'eventuale terapia in atto, sul dosaggio e sugli effetti collaterali degli eventuali farmaci assunti, sull'impiego di farmaci che possano indurre aumento della pressione arteriosa (pillola contraccettiva, amine simpaticomimetiche, corticosteroidi, anoressizzanti e anfetamine, ciclosporina, antinfiammatori non-steroidei, inibitori delle monoaminossidasi, decongestionanti nasali). E' importante l'anamnesi familiare alla ricerca di ipertensione, morbilità e mortalità per cause cardiovascolari, malattie eredo-familiari (diabete mellito, gotta), casi di malattie renali, casi di feocromocitoma (nella variante "malattia endocrina multipla").E' altresì necessario ricercare i sintomi causati dalle forme di ipertensione arteriosa secondaria (ad esempio, astenia muscolare, o episodi di tremori, sudorazione e cardiopalmo), ma anche i sintomi che indicano la presenza di un danno a carico degli organi bersaglio (ad esempio, cefalea, amaurosi transitoria, riduzione dell'acuità visiva, dolore toracico, dispnea, claudicatio intermittens). E' infine, necessario conoscere le condizioni psico-sociali del paziente (situazione familiare e lavorativa), e informarsi sul grado di comprensione e consapevolezza circa la presenza dell'ipertensione, e sulla disponibilità a modificare lo stile di vita e ad assumere la terapia indicata (tab.02x).

 

 

VISITA MEDICA

 

L'esame obiettivo viene indirizzato alla ricerca dei danni a carico degli organi bersaglio e dei segni di ipertensione secondaria. Innanzitutto bisogna eseguire una accurata misurazione della pressione arteriosa (come già indicato in precedenza).

E' altresì indispensabile annotare accuratamente la frequenza cardiaca in posizione seduta (o supina) e in posizione  eretta. Il riscontro di tachicardia sinusale può dipendere da una reazione di allarme (in tal caso, la frequenza cardiaca si normalizza nel corso della visita), o da ipertiroidismo, anemia, ipersensibilità adrenergica, impiego di farmaci vasodilatatori o attivatori adrenergici, eccessiva deplezione di volume (impiego improprio dei diuretici). L'esame obiettivo include l'ascoltazione cardiaca alla ricerca di soffi e/o toni aggiunti, l'esame del fondo oculare, la palpazione e l'ascoltazione delle carotidi, la palpazione e l'ascoltazione della tiroide, l'ascoltazione del torace alla ricerca di ronchi e/o rantoli, la palpazione e l'ascoltazione dell'addome alla ricerca di masse renali, l'ascoltazione dell'addome alla ricerca di soffi lungo l'aorta e/o le arterie renali, la palpazione dei polsi femorali e dei polsi periferici (tab.03x).

 

 

 

INDAGINI DIAGNOSTICHE DI PRIMO LIVELLO

 

I pazienti con ipertensione arteriosa lieve o moderata necessitano soltanto di indagini semplici, soprattutto quando vi sia un'anamnesi positiva per accidente vascolare cerebrale o ipertensione arteriosa nei familiari di primo grado: ciò fa, difatti, propendere verso una forma di ipertensione primitiva, che ha una elevata prevalenza familiare e pertanto, accertati gli elevati valori pressori, si può iniziare rapidamente il trattamento antipertensivo (non farmacologico e, se necessario, farmacologico).

Le indagini da eseguire sono necessarie a caratterizzare il profilo degli altri fattori di rischio cardiovascolare e a ricercare il danno a carico degli organi bersaglio. Le indagini più dettagliate vanno riservate a gruppi speciali di pazienti (ad esempio: con vasculopatia periferica; con funzione renale alterata; con proteinuria significativa; con ipopotassiemia; in età giovanile).

L'ipertensione grave, a qualsiasi età (soprattutto se vi è un'anamnesi familiare negativa), merita una considerazione particolare, così come la resistenza al trattamento antipertensivo, spesso dovuta a cause secondarie sottostanti (ma anche all'uso di FANS, o all'abuso di alcol, o alla mancata aderenza al trattamento prescritto).

Le indagini basali di primo livello devono essere "minime" per evitare procedure inutili, rischiose e costose (per il paziente e per la società).

 

 

ESAME DELLE URINE

 

L'esame delle urine e quello del sedimento urinario sono di semplice esecuzione e sono in grado di fornire indicazioni molto precise. Può essere utile misurare la diuresi giornaliera.La poliuria può svelare un'alterazione della funzione tubulare o, se osmotica, svelare un coesistente diabete mellito.Il pH urinario può evidenziare una eccessiva perdita di idrogenioni (come avviene nell'iperaldosteronismo) o una ridotta escrezione di bicarbonati (come nei pazienti con insufficienza renale). La densità (peso specifico) fornisce un'ulteriore informazione sulla capacità di concentrazione del tubulo renale.La presenza di proteinuria può essere indicativa dello stadio dell'ipertensione. Le urine molto concentrate o molto alcaline possono dare una falsa positività se si usa una striscia reattiva per la ricerca della proteinuria. Circa il 10% degli ipertesi ha una positività per la proteinuria impiegando una striscia reattiva (quando fortemente positiva, necessita della conferma e della quantificazione della proteinuria nelle urine raccolte per 24 ore, esprimendo il risultato in relazione alla creatinina). La presenza di albuminuria negli ipertesi può riflettere la disfunzione sistemica dell'endotelio vascolare. Circa il 25% dei pazienti di età media affetti da ipertensione arteriosa può presentare microalbuminuria (albumina urinaria nel range tra 30-300 mg/24 ore, ma con striscia reattiva per la proteinuria negativa o solo debolmente positiva). La microalbuminuria si può correlare con il danno d'organo. La stazione eretta e l'esercizio fisico incrementano l'albuminuria (nei normotesi e negli ipertesi). Negli ipertesi con ridotta funzione renale secondaria a nefrosclerosi ipertensiva, si può riscontrare una proteinuria, che peraltro non supera i 2 g/die, mentre i pazienti con malattia nefrovascolare monolaterale non trattata, possono presentare una proteinuria più cospicua, anche nel range della sindrome nefrosica (>3,5 g/24 ore). La positività per ematuria della striscia reattiva con ortotoluidina ha una elevata sensibilità (tra il 91 e il 100%, maggiore che con la microscopia ordinaria con camera contaglobuli e vetrino coprioggetto) e oltre il 98% di specificità. Comunque, il test positivo con la striscia reattiva richiede l'accurato esame del sedimento urinario dopo centrifugazione. La presenza di cilindri di eritrociti o la concomitanza di proteinuria significativa indica che l'anomalia è a carico del parenchima renale e non del tratto urinario. La glomerulopatia proliferativa di tipo IgA è la causa più frequente di positività per ematuria alla striscia reattiva negli uomini giovani, e di ipertensione arteriosa negli uomini giovani con persistente positività al test per l'ematuria con striscia reattiva. L'attività della malattia è proporzionale al numero di eritrociti escreti nelle urine. L'ematuria microscopica si riscontra altresì nei pazienti con rene policistico e con carcinoma renale, e nei pazienti con ipertensione arteriosa accelerata e ipertensione maligna.

 

 

EMATOCRITO

 

Si correla inversamente con il volume plasmatico. E' pertanto aumentato nei pazienti con feocromocitoma e ridotto in quelli con iperaldosteronismo primitivo. La riduzione dell'ematocrito può indicare una discreta anemia, responsabile di una ipertensione prevalentemente sistolica.

 

 

ELETTROLITI SIERICI

 

La determinazione della potassiemia rappresenta un semplice test di screening per l'iperaldosteronismo primitivo (peraltro, falsi negativi si riscontrano in oltre il 20% dei pazienti), ma anche per le altre più rare forme di ipertensione da mineralcorticoidi, oltre che nei soggetti con ingestione in eccesso di carbenoxolone e liquirizia. Il trattamento farmacologico con i diuretici tiazidici e dell'ansa determina ipopotassiemia. L'ipopotassiemia si associa all'alcalosi metabolica, mentre l'iperpotassiemia si associa all'acidosi metabolica nei pazienti con insufficienza renale. L'associazione degli ACE-inibitori agli agenti risparmiatori di potassio può indurre iperpotassiemia.

 

 

CREATININEMIA

 

E' un indice molto accurato della funzione renale, in quanto, a differenza dell'azotemia, non risente dell'entità dell'apporto proteico esogeno o di modeste modificazioni dell'idratazione. La creatinina è un prodotto del metabolismo azotato endogeno e viene quasi esclusivamente eliminata, quando la funzione renale è normale, attraverso il glomerulo, tanto che la sua clearance rappresenta abbastanza fedelmente l'entità del filtrato glomerulare. La creatininernia va corretta per l'età e per il peso corporeo.

La clearance della creatinina come indice del volume del filtrato glomerulare va determinata solo se la creatininemia è sicuramente elevata. L'incremento progressivo della creatininemia durante il trattamento con gli ACE-inibitori può indicare la presenza di una stenosi bilaterale delle arterie renali.

 

 

GLICEMIA

 

Contribuisce a definire il profilo di rischio cardiovascolare (ipertensione e diabete), ma può risultare elevata in alcune forme di ipertensione secondaria (sindome di Cushing, feocromocitoma) e nel corso dei trattamento con i diuretici tiazidici. Inoltre vi è una stretta correlazione tra ridotta tolleranza ai carboidrati, modificata sensibilità all'insulina, obesità, dislipidemia, e ipertensione arteriosa, con possibilità di manifestazione di una sindrome metabolica multipla in grado di amplificare il rischio cardiovascolare nei pazienti che ne sono affetti.

 

 

ENZIMI EPATICI

 

Vi è una correlazione tra l'elevato introito di alcol, l'ipertensione arteriosa e l'aumento dei valori degli enzimi epatici. Inoltre alcuni farmaci antipertensivi, ormai datati, ma altresì dotati di buona efficacia clinica e utili nella prevenzione degli eventi cardiovascolari legati al controllo dei valori pressori, possono dare modificazioni delle transaminasi nel corso del trattamento (ad esempio, alfa-metildopa).

 

 

 

COLESTEROLEMIA

 

Evidenzia la presenza aggiuntiva di un fattore di rischio maggiore. L'assetto lipidico completo è indicato solo quando la colesterolemia è persistentemente elevata. Il suo controllo riveste un ruolo fondamentale sia nel versante della prevenzione primaria delle malattie cardiovascolari, che di ulteriori eventi vascolari nella prevenzione secondaria.

 

 

URICEMIA

 

Rappresenta un fattore condizionante il trattamento e la scelta dei farmaci da somministrare (ad esempio, i diuretici tiazidici determinano iperuricemia).

 

 

STADIAZIONE DELL'IPERTENSIONE ARTERIOSA, DELLE SUE COMPLICANZE E DELLE PATOLOGIE LEGATE ALLA MALATTIA CARDIOVASCOLARE

 

 

RADIOGRAFIA DEL TORACE

 

L'uso di routine è di valore limitato. L'evidenza radiologica di un ingrandimento del cuore rappresenta la dilatazione della camera cardiaca, piuttosto che l'ispessimento della parete del ventricolo sinistro. E' più utile la sua esecuzione nei pazienti sopra i 70 anni, che presentano più di frequente ingrandimento cardiaco o scompenso cardiaco. Le incisure del margine inferiore delle coste causate dai vasi collaterali e l'assenza del bottone aortico possono indicare una coartazione aortica.

 

 

ELETTROCARDIOGRAMMA

 

E' più sensibile della radiografia del torace per diagnosticare l'ipertrofia ventricolare sinistra, ma meno sensibile e meno specifico dell'ecocardiogramma. Il criterio del punteggio di Romhill-Estes per la diagnosi elettrocardiografica dell'ipertrofia ventricolare sinistra (ipertrofia ventricolare sinistra probabile con 4 o 5 punti, e certa più di 5 punti) presenta una sensibilità del 50% (la sensibilità si riduce ulteriormente nei pazienti con coronaropatia) e una specificità del 95%. Se l'ipertrofia ventricolare sinistra diagnosticata all'ECG si accompagna a modificazioni dei tratto S-T e dell'onda T nelle derivazioni che indagano il ventricolo sinistro, il paziente è a rischio elevato. L'elettrocardiogramma è pertanto in grado di evidenziare la presenza di un danno già instaurato (ipertrofia ventricolare sinistra; sovraccarico; ischemia), ma può anche svelare un'alterazione metabolica (onda U; allungamento intervallo Q-T) (tab.04x). E', opportuno ricordare che voltaggi elevati da soli si possono riscontrare anche nei soggetti allenati, o nei giovani con parete toracica sottile. L'ECG da sforzo è indicato se vi è una sintomatologia suggestiva di angina pectoris. L'elettrocardiogramma è altresì utile per identificare le aritmie.

L'ipertrofia ventricolare sinistra permette l'adattamento cardiaco all'incrementato after load imposto dagli elevati valori pressori, ma rappresenta il maggiore fattore di rischio indipendente per la mortalità cardiaca, l'infarto del miocardio, e altri eventi morbosi, cosi che il controllo degli elevati valori pressori deve tendere alla prevenzione dell'ipertrofia ventricolare sinistra.

 

 

ECOCARDIOGRAMMA

 

E' una indagine non invasiva accurata e affidabile, che permette la diagnosi precoce e precisa di ipertrofia ventricolare sinistra. Evidenzia altresì lo stato contrattile e funzionale del cuore e le dimensioni delle sue cavità. Nei pazienti ipertesi si possono evidenziare un prolungamento del rilassamento diastolico e del riempimento ventricolare sinistro, un incremento degli indici della fase di eiezione, e una funzione subnormale in risposta all'esercizio fisico. Il suo impiego può essere limitato dai costi.

E', utile per osservare l'eventuale regressione dell'ipertrofia ventricolare sinistra indotta dai farmaci antipertensivi.

 

 

FUNDUS OCULI

 

L'esame del fondo dell'occhio evidenzia lo stato dei piccoli vasi sanguigni della retina, richiedendo solo la dilatazione preventiva della pupilla. I danni dei vasi retinici prodotti dall'ipertensione arteriosa sono stati indicati in gradi, secondo la classificazione di Keith-Wagener-Barker. Nei pazienti con ipertensione lieve o moderata (retinopatia ipertensiva di grado I e Il) si osservano modificazioni del riflesso alla luce, del calibro e della tortuosità dei vasi, e incroci artero-venosi, che indicano l'ispessimento delle pareti delle arteriole retiniche che comprimono i vasi venosi. La sclerosi e il restringimento delle arteriole sembrano dipendere maggiormente dall'età, che dalle modificazioni ipertensive.Nei pazienti con ipertensione arteriosa grave si osservano sulla retina emorragie a fiamma e essudati a fiocco di cotone (retinopatia di grado III), e nell'ipertensione maligna può essere presente edema della papilla (retinopatia di grado IV).

 

 

RICERCA DELLE CAUSE REVERSIBILI DI IPERTENSIONE

 

La prevalenza dell'ipertensione arteriosa secondaria nella popolazione generale è rappresentata da una non elevata percentuale dei casi (dall'uno al cinque per cento). Solo quando l'anamnesi, l'esame obiettivo e le indagini di laboratorio di primo livello pongano il sospetto di una ipertensione arteriosa secondaria, è opportuno approfondire la valutazione diagnostica, passando progressivamente e assennatamente dalle tecniche più semplici a quelle più sofisticate, dagli esami non invasivi a quelli, se necessario, invasivi, e dalle indagini meno costose a quelle più costose. Nella tabella 5 sono riportate le cause secondarie di ipertensione arteriosa.

 

 

Ipertensione nefrovascolare

 

L'ipertensione dovuta al restringimento di una o più arterie renali può rappresentare la forma più comune di ipertensione secondaria reversibile. La tecnica ottimale per lo screening iniziale dei pazienti con ipertensione nefrovascolare è controversa data la differenza delle indagini a disposizione in sensibilità, e rischio. Nella tabella 6 vengono riportati alcuni test che possono venire impiegati all'inizio degli accertamenti tesi a svelare una ipertensione nefrovascolare da stenosi dell'arteria renale.

La determinazione della attività reninica plasmatica (PRA) basale ha una scarsa accuratezza in quanto l'eventuale riscontro di valori elevati può dipendere da numerosi fattori (attività fisica, posizione eretta, bassa introduzione dietetica di sodio). Per tale motivo è preferibile, nei pazienti in cui si sospetti l'ipertensione nefrovascolare, eseguire il dosaggio della PRA dopo somministrazione di un ACE inibitore.

Dopo aver eseguito un prelievo basale della PRA, si somministrano 50 mg di captopril, sciogliendo la compressa in acqua per migliorarne l'assorbimento. Si misura la PA ogni 10-15 minuti fino a 1 ora dopo la somministrazione del captopril, quando si esegue nuovamente il prelievo di sangue venoso per la determinazione della PRA dopo lo stimolo rappresentato dall'ACE inibizione. Tale test con una dose singola di captopril va eseguito dopo una sospensione per un periodo adeguato di ogni trattamento antipertensivo.

Dato che possono verificarsi sia falsi positivi, sia falsi negativi, bisogna effettuare ulteriori indagini per ottenere la certezza diagnostica. Si può, altresì, manifestare una ipotensione eccessiva dopo test al captopril in alcuni pazienti anziani e in quelli in trattamento antipertensivo, soprattutto se con farmaci bloccanti i recettori alfa.

 

La valutazione della perfusione renale con una tecnica non invasiva si può ottenere con la scintigrafia renale, la cui specificità diagnostica può venire aumentata dalla somministrazione di un ACE-inibitore. Le dimensioni dei reni possono essere evidenziate dall'ecografia renale.La stenosi dell'arteria renale si può ricercare eseguendo una valutazione eco-Doppler del flusso delle arterie renali, che possono essere visualizzate anche con l'angio-risonanza magnetica nucleare.

La forma della stenosi dell'arteria renale da displasia fibromuscolare si riscontra nei bambini e nei giovani adulti, con mantenimento nella norma della funzione renale e buona possibilità terapeutica dell'angioplastica, mentre la forma aterosclerotica è riscontrabile negli anziani e negli adulti anziani, che spesso hanno una storia di ipertensione lieve, che sono fumatori o con altri fattori di rischio cardiovascolare, con evidenza di aterosclerosi multidistrettuale (ad es. soffi vascolari sulle carotidi), e che sviluppano in poco tempo una ipertensione grave resistente al trattamento, con comparsa di emorragie o essudati retinici all'esame oftalmoscopico del fondo dell'occhio associati all'elevazione pressoria, con aumento della creatinina sierica (specialmente se correlato alla somministrazione di farmaci ACE-inibitori), e con possibili episodi acuti di edema polmonare.

 

 

Forme di ipertensione nefroporenchimale

 

RENE POLICISTICO FAMILIARE BILATERALE

 

Tale condizione è facilmente evidenziabile in base all'anamnesi familiare e alla palpazione di masse nella regione dei fianchi.

La diagnosi si pone in base all'ecografia renale, ed è consigliabile estendere tale indagine ad altri componenti della famiglia, anche se asintomatici.

Nei pazienti con rene policistico familiare è stata descritta una attivazione inappropriata del sistema renina-angiotensina e per tale motivo può essere utile la somministrazione terapeutica degli ACE-inibitori nel controllo degli elevati valori pressori.

E' necessario il riscontro precoce dell'ipertensione arteriosa, della riduzione della funzione renale, delle infezioni silenti e delle infezioni delle vie urinarie.

 

 

COLLAGENOPATIE

 

L'ipertensione arteriosa si associa frequentemente al lupus erythematosus sistemico (conseguentemente allo sviluppo della glomerulonefrite da lupus e alla terapia steroidea, con peggioramento della prognosi cardiovascolare e della funzione renale), alle vasculiti e alla panarterite nodosa (in seguito al manifestarsi di ischemia renale come manifestazione della stenosi infiammatoria dell'arteria renale principale o delle sue branche più piccole), e alla sclerodermia. Lo scleroderma sistemico è un disordine cronico della pelle e del tratto intestinale, che si può associare al fenomeno di Raynaud: sono molto minacciose le "crisi renali da scleroderma" con incremento improvviso e cospicuo della pressione arteriosa con possibilità di encefalopatia ipertensiva o di edema polmonare acuto.

 

 

NEFROPATIA DIABETICA

 

Il diabete mellito insulino-dipendente si associa alla presenza di nefropatia diabetica (con microalbuminuria o proteinuria) già prima che compaiano valori pressori al di sopra della norma.

Il diabete mellito non insulino-dipendente è presente nel 6-7% dei pazienti affetti da ipertensione arteriosa. Molti di questi pazienti hanno microalbuminuria o proteinuria lieve (meno di 600 mg/24 ore) e una modesta riduzione della clearance della creatinina. Questi pazienti sono a rischio di progressione della nefropatia. E' noto che gli ACE-inibitori possono ridurre la microalbuminuria e prevenire l'incremento della creatininemia nei pazienti adulti normotesi con diabete mellito non insulino-dipendente. Ciò suggerisce che anche gli ipertesi con diabete non insulino dipendente possano beneficiare di tale trattamento.

 

 

IPERTENSIONE ARTERIOSA NELLE FASI AVANZATE DELLE NEFROPATIE

 

I pazienti ipertesi con clearance della creatinina ridotta del 30% rispetto alla norma rappresentano una popolazione eterogenea comprendente pazienti che hanno avuto una glomerulonefrite cronica, una nefropatia interstiziale, una nefrosclerosi conseguente all'ipertensione. I valori della creatinina sierica sono elevati, in accordo all'entità e alle caratteristiche dell'insufficienza renale cronica, così come sono presenti l'anemia, l'ipocalcernia, l'acidosi e l'iperpotassiemia. La riduzione farmacologica degli elevati valori pressori deve essere fatta allo scopo di ridurre il rischio di eventi cardiovascolari, in particolare vascolari cerebrali, mentre non sembra completamente eliminato il rischio di ulteriore progressione verso l'aggravamento della funzione renale quando è già a questo stadio della malattia.

 

 

feocromocitoma

 

Il feocromocitoma è una ben conosciuta forma di ipertensione secondaria, da produzione eccessiva di catecolamine da cellule cromaffini neoplastiche. Meno dello 0,5% dei pazienti ipertesi ha un feocromocitoma. Il tumore può presentarsi isolato, o in sedi plurime, o far parte di una sindrome endocrina multipla (MEN-II) o della neurofibromatosi (von Recklinghausen). Caratteristicamente, il feocromocitoma si presenta con una sintomatologia costituita da cefalea, sudorazione, palpitazioni, apprensione, perdita di peso, che si accompagnano a incrementi parossistici della pressione arteriosa. Per la diagnosi è opportuno controllare l'escrezione urinaria nell'arco delle 24 ore delle catecolamine (adrenalina e noradrenalina), che presenta una elevata sensibilità (talora anche troppo, dando luogo a possibili risultati falsi-positivi); per il dosaggio plasmatico delle catecolamine, la sensibilità della metodica non è molto elevata e la specificità è al 70-80% (entrambe possono essere incrementate, quando valutate anche in risposta al test di soppressione con clonidina). Per quanto riguarda la localizzazione del feocromocitoma, si può eseguire un'indagine ecografica, o una tomografia assiale computerizzata (TAC), o una risonanza magnetica nucleare (RMN) e, in caso di certezza quasi assoluta della diagnosi di feocromocitoma, una scintigrafia con meta-iodio-benzil-guanidina (MIBG).

 

 

Iperaldosteronismo

 

L'ipertensione secondaria all'iperaldosteronismo è una forma rara, che si presenta in meno dell'uno per cento di tutti gli ipertesi, ma che rappresenta una delle forme più comuni di ipertensione secondaria curabile.Di solito questa forma viene sospettata quando, in assenza di trattamento diuretico o di altre cause in grado di determinare la riduzione dei livelli sierici di potassio, si manifesta una forma di ipertensione arteriosa sostenuta e associata a ipopotassiemia persistente. Oltre agli elevati valori pressori, sono presenti i sintomi legati alla deplezione di potassio: crampi muscolari, astenia, poliuria, aritmie cardiache. La diagnosi si basa sulla elevata escrezione urinaria nell'arco delle 24 ore dell'aldosterone, associata a soppressione dell'attività reninica plasmatica, a potassiuria elevata in base all'ipopotassiemia, alla presenza di alcalosi metabolica (evidente all'emogasanalisi del sangue arterioso). Per la diagnosi di sede possono essere di aiuto la tecnica ecografica e la tomografia assiale computerizzata (TAC), ma per essere certi della presenza di un adenoma singolo o, invece, di una iperplasia surrenalica bilaterale, si esegue la scintigrafia surrenalica con iodio colesterolomarcato durante test di soppressione con desametasone.

 

 

 

Sindrome di Cushing

 

Circa l'ottanta per cento dei pazienti con sindrome di Cushing presenta ipertensione arteriosa, in relazione all'eccesso di ormoni glicocorticoidi. La diagnosi si basa sull'anamnesi e sull'esame clinico del paziente, che presenta facies caratteristica a luna piena, striae rubrae addominali, obesità con disposizione di tipo centrale, gibbo dorsale.In presenza di un fondato sospetto clinico, si determina l'escrezione urinaria nell'arco delle 24 ore dei cortisolo, e la cortisolemia del mattino dopo una notte di digiuno e test di soppressione con desametasone a bassa dose. Ulteriori test di stimolo e di soppressione di cortisolo e ACTH, combinati con le tecniche d'immagine (ecografia, TAC) vanno eseguiti in caso di fondato sospetto di Cushing e per la localizzazione della neoformazione funzionante (o dell'iperplasia bilaterale surrenalica) (tab.07x).

 

 

Ipertensione da pillola contraccettiva

 

La pillola contraccettiva contiene estrogeni sintetici e agenti progestinici. I componenti estrogenici determinano un incremento dei livelli circolanti di angiotensinogeno. Un certo grado di ritenzione di liquidi e di sodio si riscontra nelle donne in terapia contraccettiva che sviluppano l'ipertensione arteriosa, che ha una discreta prevalenza (circa il 3% delle donne in età fertile che assumono la pillola), e che regredisce entro sei mesi dalla sospensione della pillola.

 

 

Ipertensione e sleep apnea

 

La sindrome sleep apnea consiste di ripetuti episodi di apnea vera con ipossia che si manifestano durante il sonno in relazione all'ostruzione determinata dall'ugola sulla faringe. I disturbi del sonno e l'ipossia notturna persistente rappresentano gli stimoli dei riflessi chemocettivi con incremento conseguente dell'attività del sistema nervoso simpatico e della pressione arteriosa. La sindrome si manifesta più frequentemente negli obesi e negli uomini di mezza età, e gli episodi di apnea, con o senza russare, vengono riferiti dalle mogli al medico curante. Al momento attuale è molto sottostimata, perché spesso i medici non chiedono ai pazienti o ai loro partner informazioni su eventuali episodi di apnea notturna accompagnati o meno al russare, soprattutto in quei pazienti ipertesi che presentano talora resistenza al trattamento farmacologico correttamente eseguito. Nel sospetto di una sindrome sleep apnea, si esegue una registrazione polisoninografica notturna, monitorando la saturazione di ossigeno, l'elettroencefalogramma, i movimenti oculari, i rumori tracheali.

 

 

Forme di ipertensione da farmaci e altre sostanze

 

Ipertensione da consumo eccessivo di liquirizia

 

Si determina una forma di "pseudoiperaldosteronismo" per le proprietà mineraloattive della liquirizia, con comparsa di ipertensione arteriosa e ipopotassiemia.

 

 

Ipertensione da anoressizzanti

 

L'eccessivo impiego di anfetamine e analoghi si associa a comparsa di ipertensione arteriosa parossistica.

 

 

Resistenza al trattamento antipertensivo nei pazienti che assumono FANS

 

La somministrazione di farmaci antinfiammatori non steroidei nei pazienti in terapia con farmaci antipertensivi, può ridurre significativamente l'efficacia ipotensiva di questi ultimi.

 

 

Assunzione combinata di inibitori delle monoaminossidasi e di cibi o bevande contenenti tiramina

 

La somministrazione contemporanea di tranilcipromina o fenelzina nei pazienti che mangiano formaggio invecchiato o bevono vino rosso, o altri cibi contenenti tiramina, può determinare la comparsa di ipertensione parossistica.

 

 

Ipertensione parossistica da sospensione di clonidina

 

La brusca interruzione del trattamento con clonidina (e anche guanabenz, guanfacina, o metildopa) si può associare a una crisi ipertensiva da rimbalzo con incremento notevole dell'attività adrenergica e dei valori pressori.

 

 

Cocaina

 

L'uso di cocaina si può assodare a tossicità cardiaca e perfino a infarto del miocardio e aritmie gravi. La cocaina determina una cospicua attivazione adrenergica e ciò può contribuire all'ipertensione parossistica e alla possibilità di emorragia intracranica e distacco della placenta durante la gestazione.

 

 

Ipertensione parossistica da attivazione adrenergica endogena

 

Due sindromi sono state recentemente descritte, la sindrome da panico e l'ipertensione da camice bianco. Nei disordini da panico, attacchi ricorrenti di panico o di ansietà determinano un incremento significativo dei valori della pressione arteriosa, come si può osservare anche nel corso di un monitoraggio dinamico prolungato della pressione arteriosa. L'ipertensione da camice bianco è legata alla presenza del medico che misura la pressione arteriosa e può essere minimizzata dal monitoraggio domiciliare o dall'automisurazione da parte del paziente correttamente eseguita, o dal monitoraggio dinamico della pressione durante tutto l'arco della giornata.

 

 

Bibliografia essenziale

 

 

Kaplan N.M.: Systemic Hypertension:mechanisms and diagnosis. In Braunwald (ed), “Heart Disease. A Textbook of cardiovascular Medicine”, chapter 26, pag 807. WB Saunders Company, Philadelphia, 1997.

Krakoff L.R.: Management of the Hypertensive Patient. Churchill Livingstone, New York, 1995.

Laragh J.H., Brenner B.M.: Hypertensionment. Raven Press, New York, 1990.

O’Brien E.T., Beevers D.G., Marshall H.J.: ABC of Hypertension, Third Edition. BMJ Publishing Group, London, 1995.

Williams G.H.: Hypertensive vascular disease. In Isselbacher, Braunwald, Wilson, Martin, Fauci, Kasper (eds), “Harrison’s Principles of Internal Medicine”, section 1, pag 1116, McGraw-Hill, New York, 1994.

 

 

R. Fariello

Aiuto Corresponsabile,

1a Divisione Medica, Spedali Civili di Brescia,

Professore a contratto

Scuola di specializzazione in Medicina Interna,

Università degli Studi di Brescia

 

 

M. Crippa

I. Notaristefano

R. Costa

Specializzandi in Medicina Interna,

Università degli Studi di Brescia,

1a Divisione Medica, Spedali Civili di Brescia

 

           TORNA ALL'INDICE             TORNA ALL' HOME PAGE  CARLOANIBALDI.COM