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ARGOMENTI DI MEDICINA CLINICA

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 Ultimo aggiornamento: 23.12.2013

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TERAPIA FARMACOLOGICA DELLE MALATTIE VIRALI

 

 

Per molti anni lo sviluppo della chemioterapia antivirale è stato condizionato negativamente da molteplici fattori:

a) la convinzione che non fosse possibile realizzare molecole che all'attività antivirale associassero anche un accettabile grado di tossicità per l'uomo: era infatti opinione generale che, essendo i virus parassiti obbligati il cui metabolismo è intimamente legato a quello delle cellale ospiti, qualsiasi farmaco in grado di inibirne la replicazione avrebbe danneggiato irreparabilmente anche le normali funzioni cellulari;

b) la mancanza di conoscenze relative al ciclo della replicazione virale, il che rendeva arduo qualsiasi tentativo volto alla individuazione di bersagli metabolici virus-specifici contro cui dirigere l'attacco chemioterapico;

c) la disponibilità di attrezzature inadatte a valutare, in sperimentazioni cliniche controllate nell'animale e nell'uomo, le potenzialità terapeutiche e tossicologiche di composti dotati di attività antivirale in vitro;

d) l'impiego di tecniche laboratoristiche (isolamento virale, monitoraggio della sieroconversione) che non consentivano una precisa definizione eziologica della malattia virale in tempi utili per impostare la strategia terapeutica, prima cioè che per l'azione citopatica diretta del virus o mediata dalla risposta immune si realizzassero danni cellulari irreversibili.

Molti di quegli ostacoli sono stati oggi superati grazie agli studi di biologia molecolare dei virus e all'affinamento delle metodologie diagnostiche.I primi infatti, consentendo la definizione di specifici obiettivi nel contesto delle molteplici e complesse fasi dell'interazione virus-cellula ospite, hanno reso possibile la realizzazione di chemioterapici dl nuova concezione, capaci di interferire sulle vie metaboliche deviate verso le sintesi virali; le seconde, offrendo la possibilità di ricercare e di caratterizzare in tempi sufficientemente brevi antigeni virali e/o anticorpi specifici (RIA, ELISA, immunofluorescenza, Western blot), o addirittura di individuare materiale genetico del virus nei campionibiologici (ibridizzazione in situ degli acidi nucleici, amplificazione genica mediante PCR), hanno significativamente contribuito al moltiplicarsi delle possibilità di impiego di validi antagonisti degli agenti virali.

L'armamentario degli antivirali, un tempo desolatamente vuoto, ha così potuto acquisire composti terapeuticamente validi e sufficientemente maneggevoli, alcuni dei quali hanno già rivoluzionato la terapia di diverse malattie. Altri, frutto delle più recenti conoscenze di biologia molecolare dei virus, sono in fase più o meno avanzata di sperimentazione; tra essi un gruppo di molocole potenzialmente in grado di inibire il virus della immunodeficienza umana (HIV), responsabile della forma morbosa più nota e più temuta dei nostri tempi, alle quali va tra l'altro il merito di aver dimostrato la non invincibilità di quel patogeno.

La tab.01x riporta i principali antivirali già disponibili sul mercato e quelli che hanno già mostrato la potenzialità di un'applicazione nella pratica clinica; la fig.01x ne indica schematicamente il bersaglio di azione. Di ciascun farmaco vengono ora brevemente descritte le proprietà e le indicazioni.

 

 

AMANTADINA

 

La storia dell'amantadina (1-adamantonamina cloridrato), una amina triciclica sintetizzata nel 1963, è emblematica dello scetticismo che non molti anni addietro circondava gli antivirali. Questo composto infatti, pur avendo dimostrato la sua efficacia terapeutica nei confronti del virus influenzale A in occasione della pandemia del 1966, acquisì notorietà presso la classe medica soprattutto come farmaco anti-parkinsoniano. Sotto tale veste fu ampiamente utilizzato per vari anni e soltanto dopo aver ripetutamente confermato la sua attività antivirale in vivo riuscì ad imporsi all'attenzione generale quale farmaco di elezione per la profilassi e la terapia dell'influenza.

Le ricerche sulle modalità d'azione dell'amantadina non hanno chiarito completamente il meccanismo della sua attività virustatica. L'ipotesi più plausibile è che il farmaco agisca interferendo con il processo di decapsidizzazione (un-coating) del virus, una volta che quest'ultimo è penetrato nella cellula e, forse, con la trascrizione dell'RNA virale.

l'amantadina è facilmente assorbita dopo somministrazione orale; dopo una dose di 200 mg/die si ritrovano concentrazioni ematiche che rientrano nell'arco di quelle terapeutiche. Il farmaco non viene metabolizzato nell'organismo ed è lentamente eliminato nelle urine, con un'emivita di 15 ore. In pazienti con funzionalità renale compromessa esso tende ad accumularsi nel circolo, come pure negli anziani, nei quali la dearance totale dell'amantadina è ridotta e l'emivita di eliminazione è quasi doppia (29 ore) rispetto a quella del giovane adulto. In questi casi è necessario monitorare la concentrazione ematica dell'antivirale, per evitare che si raggiungano livelli di tossicità (>1 microg/ml).

Le uniche indicazioni all'impiego dell'amantadina come virustatico sono costituite dalla profilassi e dal trattamento dell'influenza sostenuta da tutti gli stipiti noti del virus di tipo A, specialmente in soggetti considerati a rischio per le possibili complicanze di questa infezione (anziani, cardiopatici, broncogneumopatici cronici, immunodepressi). A tal fine il farmaco, disponibile solo nella formulazione per uso orale, si somministra con posologie differenziate in rapporto all'età del soggetto (tab.02x).

Per quel che concerne la prevenzione della malattia influenzale, numerosi studi controllati hanno dimostrato che l'amantadina protegge dall'infezione virale il 70% circa dei soggetti, percentuale questa non dissimile da quella fornita dal vaccino a virus inattivato, purché somministrata per tutta la durata dell'epidemia influenzale, ovvero per 2 settimane dalla eventuale vaccinazione. Altrettanto positiva risulta essere l'efficacia terapeutica del composto che, se assunto entro 48 ore dall'esordio della malattia per un periodo di 3-5 giorni, riduce in modo significativo la durata della febbre e dei sintomi sistemici.

Sebbene sia generalmente ben tollerata ai dosaggi raccomandati, l'amantadina induce occasionalmente lievi disturbi neurologici (insonnia, perdita della concentrazione, disorientamento mentale), verosimilmente dovuti all'interazione che il farmaco ha con la dopamina.

 

 

RIMANTADINA

 

Questo analogo dell'amantadina, largamente usato in Unione Sovietica, sembra dotato di un'efficacia terapeutica e profilattica nei confronti dell'influenza A non inferiore a quella del coniposto congenere, con il vantaggio di una minore tossicità. La rimantadina si somministra per os, secondo gli schemi posologici indicati per l'amantadina(tab.02x).

Il meccanismo d'azione è analogo a quello dell'amantadina.

 

 

Analoghi nucleosidici

 

I farmaci analoghi delle basi nucleosidiche hanno, sia pur in parte, soddisfatto la pressante esigenza di chemioterapici antivirali dotati di un elevato coefficiente terapeutico. Proprietà fondamentale della maggior parte di questi composti è quella di bloccare selettivamente alcune specifiche attività enzimatiche essenziali per la replicazione virale, senza alterare eccessivamente i momenti metabolici delle cellule normali.

 

 

IDOSSURIDINA

 

L'idossuridina (IDU) è stato il primo chemioterapico antivirale utilizzato per la terapia delle infezioni da Herpesvirus. Il composto, che è un nucleotide pirimidinico alogenato analogo della timidina, viene fosforilato dagli enzimi cellulari e trasformato nella forma trifosfata che, inibendo competitivamente l'incorporazione della timidina nel DNA virale, induce un'alterata sintesi delle proteine virali da parte della cellula infetta e quindi un blocco della replicazione virale. Sfortunatamente, l’attività dell'IDU è poco selettiva, in quanto il farmaco interferisce anche con i processi biologici delle cellule non infette; ciò rende conto della sua tossicità, che è tale da precluderne l'impiego per via parenterale.

Attualmente l'IDU conserva un ruolo tra gli antivirali di sintesi quasi esclusivamente per il trattamento topico della cheratocongiuntivite da Herpes simplex (HSV); tuttavia non è più considerata un farmaco di scelta per quell'infezione. Somministrata sotto forma di collirio o pomata oftalmica, causa frequentemente irritazione, prurito, infiammazione o lieve edema della cornea.

 

 

TRIFLUOROTIMIDINA

 

La trifluorotimidina (TFT) è un analogo alogenato sintetico della pirimidina che esplica attività antivirale mediante un blocco della timidilato-sintetasi, l'enzima responsabile della conversione della desossiuridina monofosfato (dUMP) a desossitimidina monofosfato (dTMP), impedendo in tal modo la sintesi del DNA.   È quindi attiva sui soli virus a DNA e in particolare contro HSV tipo 1 e tipo 2, virus varicella-zoster (VZV) e citomegalovirus (CMV).

Analogamente all'IDU, cui la accomunano la scarsa specificità e selettività d'azione e quindi l'elevata tossicità per via sistemica, la TFT non trova al momento attuale indicazioni per l'uso parenterale.

Il farmaco è disponibile nella sola formulazione topica, sotto forma di collirio all'1%, per il trattamento della cheratocongiuntivite erpetica. Gli effetti collaterali sono simili a quelli dell'IDU, ma meno frequenti.

 

 

VIDARABINA

 

La vidarabina (ara-A, adenina arabinoside) è un analogo della adenosina. Farmaco noto da tempo, concepito originariamente come antineoplastico, questo chemioterapico è stato successivamente utilizzato con positivi risultati nel trattamento di alcune infezioni sostenute da virus a DNA.Il meccanismo d'azione dell'ara-A non è ben noto, ma si ritiene che il farmaco, una volta fosforilato dalle chinasi cellulari a composto attivo trifosfato, inibisca preferenzialmente la DNApolimerasi virale, per la quale ha un'attività maggiore rispetto a quella cellulare. Lo spettro di attività della vidarabina è limitato ai virus erpetici: in vitro il composto dimostra una buona capacità inibente la replicazione di HSV 1 e 2 e di VZV, mentre molto minore è l'attività contro CMV e virus di Epstein-Barr (EBV).

La vidarabina può essere somministrata sia per via topica che sistemica. Sotto forma di unguento al 3%, si è rivelata poco efficace nel trattamento delle infezioni mucocutanee da HSV, mentre ha dato risultati pressoché sovrapponibili a quelli della IDU e della TFT nella cheratite erpetica, con minori effetti irritativi.

Ampi studi clinici, tutti corredati da documentazione virologica, indicano che la vidarabina per via generale consente risultati più che soddisfacenti nelle infezioni da HSV e da VZV nei pazienti immunocompromessi.

Somministrata precocemente alla dose di 10 mg/kg/die per 5 giorni, è capace di inibire la disseminazione cutanea e viscerale dell'herpes zoster; accelerare la risoluzione della varicella e delle infezioni mucocutanee da HSV; ridurre la letalità dell'herpes neonatale disseminato dal 74% dei pazienti trattati con placebo al 38%, pur non incidendo significativamente sulle sequele neurologiche. la vidarabina inoltre, somministrata a dosaggi più elevati (15 mg/kg/die) e per un più lungo periodo di tempo ( 10 giorni), si è dimostrata efficace nella terapia dell'encefalite erpetica biopticamente documentata, con percentuali di sopravvivenza, a sei mesi di distanza dal trattamento, di oltre il 70%. Anche dagli studi suddetti emerge in tutta la sua importanza il ruolo del laboratorio diagnostico in relazione all'esigenza di avviare il trattamento tempestivamente, prima comunque che la replicazione virale abbia raggiunto livelli non più controllabili.

Per quanto riguarda le altre indicazioni, il composto non sembra attivo nelle infezioni da CMV e da EBV, mentre è ancora discusso il suo ruolo terapeutico nell'epatite B.

La vidarabina per uso sistemico è somministrabile solo per via endovenosa, non essendo assorbita per via orale ed essendo poco efficace, oltreché irritante, se introdotta per via intramuscolare. la dose viene somministrata per infusione continua nell'arco di 12 ore, diluita in grandi quantità di liquidi (2-3 litri al giorno) per ovviare alla scarsa solubilità del farmaco. Questo fabbisogno idrico può costituire un grosso problema nel caso, ad esempio, di pazienti con insufficienza renale o con edema cerebrale.

Una volta in circolo, il composto viene rapidamente metabolizzato dalla adenosina-deaminasi e convertito ad ipoxanunaarabinoside che, seppur dotata di un'attività antivirale inferiore (10-50 volte) rispetto al precursore, ha il vantaggio di concentrarsi notevolmente nel siero grazie alla sua maggiore emivita (4 ore circa). L'ipoxantina-arabinoside si distribuisce ampiamente nei tessuti e supera agevolmente la barriera emato-liquorale; le sue concentrazioni nel liquor sono di poco inferiori alla metà di quelle plasmatiche.

Poiché questo metabolita viene eliminato per via renale, può raggiungere livelli sierici molto elevati nei pazienti nefropatici, con possibilità di alterazioni neurologiche; pertanto in questi casi la vidarabina deve essere somministrata a dosaggio ridotto.

Studi controllati su larga scala hanno dimostrato che la vidarabina, ai dosaggi usuali, è relativamente poco tossica: gli effetti collaterali sono rappresentati essenzialmente da disturbi gastrointestinali (nausea, vomito, diarrea) e processi tromboflebitici nella sede di infusione del farmaco. A dosaggi più elevati (20 mg/ kg/die) possono invece comparire anemia, leucopenia, trombocitopenia ed alterazioni a carico del SNC (tremori, allucinazioni, turbe dello stato mentale). Disturbi neurologici sono stati anche osservati a seguito della contemporanea somministrazione di interferone, il quale sembra incrementare la concentrazione tissutale di ipoxantina-arabinoside.

Recentemente è stata sintetizzata la vidarabina-5-monofosfato (Ara-AMP), un derivato più solubile dell'ara-A e quindi somministrabile anche per via intramuscolare, che in vitro si è dimostrata in grado di inibire anche il virus dell'epatite B (HBV). Il composto è stato utilizzato con successo nel trattamento di gravi infezioni da virus VZ in pazienti immunocompromessi, mentre sono contraddittori i risultati conseguiti nell'epatite cronica da HBV.

 

 

ACYCLOVIR

 

L'acyclovir (ACV) o acicloguanosina, un nucleoside aciclico analogo della guanosina, rappresenta uno dei più brillanti successi della farmacologia antivirale, la quale ha saputo fornire una molecola specifica, altamente efficace e sicura in un settore, quello della chemioterapia antierpetica, carente di composti versatili e maneggevoli. A differenza dei suoi predecessori (IDU, TFT, ara-A), l'ACV possiede infatti un innovativo meccanismo d'azione che gli conferisce una specificità unica ed una trascurabile tossicità.

 

L'attività antivirale del farmaco si manifesta solo quando esso viene fosforilato e trasformato in ACV-monofosfato, precursore del derivato attivo trifosfato. La fosforilazione avviene pressoché esclusivamente nelle cellule che contengono la timidina-chinasi (TK) indotta dai virus erpetici, mentre non viene innescata, se non in misura assai limitata, dagli analoghi della chinasi virale presenti nelle cellule sane. l'attivazione dell'ACV è pertanto una prerogativa delle cellale infettate, sempre che l'agente virale sia in grado di codificare per l'enzima critico. Lo ACV-trifosfato è un potente inibitore selettivo della DNA-polimerasi virale ed inoltre, competendo con il guanosintrifosfato per l'incorporazione nel DNA virale neoformato, impedisce che la catena dell'acido nucleico possa ulteriormente allungarsi. Paradossalmente, un composto originariamente inattivo viene trasformato in un micidiale "killer" proprio dal virus destinato a divenirne il bersaglio.

L'acyclovir è in grado di bloccare la replicazione dell'HSV di tipo 1 e di tipo 2 e del virus VZ, mentre la maggior parte dei ceppi di CMV e il virus EB, per i quali è dubbia la possibilità di codificare per la TK, sono relativamente resistenti. Occorre tuttavia sottolineare che anche stipiti virali originariamente sensibili al farmaco possono divenire resistenti attraverso vari meccanismi: inanivazione del gene che codifica per l'enzima virale specifico, ridotta affinità della DNA-polimerasi virale per l'ACV-trifosfato, o produzione di una TK che non riconosce il farmaco come substrato. Mutanti ACV-resistenti sono stati ottenuti in laboratorio coltivando stipiti TK-positivi in presenza di ACV e ceppi resistenti sono stati isolati anche da pazienti in corso di trattamento con questo chemioterapico. Anche se i mutanti resistenti hanno manifestato proprietà che suggeriscono una loro ridotta virulenza, appare comunque opportuno un impiego oculato dell'ACV, che va prescritto solo nei casi di effettiva necessità.

L'ACV appare oggi il farmaco più attivo nel trattamento e nella profilassi delle infezioni localizzate o disseminate da HSV e da virus VZ. Numerosi studi clinici controllati ne confermano l'efficacia nel trattamento topico della cheratite erpetica, con risultati sovrapponibili o superiori a quelli ottenuti con l'applicazione di IDU, TFT o ara-A. Nelle forme primarie estese l'ACV, somministrato per os o per endovena, accorcia il periodo di infettività del paziente, riduce la comparsa di nuove vescicole ed accelera l'evoluzione crostosa delle lesioni.

Risultati ancor più brillanti si hanno nell'encefalite erpetica, per la quale l'ACV rappresenta attualmente il composto di elezione, e nelle forme (sia da HSV che da virus VZ) che insorgono nell'ospite immunocompromesso, di cui il preparato previene efficacemente la progressione e la disseminazione.

Va comunque sottolineato che il farmaco non è in grado di eradicare l'infezione latente, per cui dopo l'interruzione del trattamento si possono avere episodi ricorrenti.

L'ACV non trova attualmente indicazioni nel trattamento delle infezioni da EBV e da virus citomegalico.

Il farmaco si assorbe lentamente per via orale, possiede un legame farmacoproteico basso (dal 9 al 24%) ed ha un'emivita plasmatica di 2-3 ore. Si distribuisce ampiamente in tutti i tessuti e, dopo somministrazione per via endovenosa, si ritrova nel liquido cefalorachidiano, nella saliva e nel liquido vescicolare, in concentrazioni capaci di inibire HSV e virus VZ; attraversa inoltre la placenta e si accumula nel latte materno.

L'ACV viene scarsamente metabolizzato nell'organismo ed è eliminato pressoché immodificato dal rene sia per filtrazione glomerulare sia per secrezione tubulare. Poiché nei pazienti con insufficienza renale l'emivita del farmaco è notevolmente aumentata (nell'anurico è di 20 ore circa), in questi casi si rende necessario un adeguamento posologico. l'ACV viene rimosso rapidamente con l'emodialisi.

Il preparato è generalmente ben tollerato e non determina, se somministrato per via orale o come topico, significativi effetti collaterali. La sua introduzione per via sistemica può invece provocare occasionalmente un danno renale, verosimilmente dovuto alla cristallizzazione del composto nei tubuli renali o nei dotti collettori. Per evitare questo temibile inconveniente, occorre controllare i livelli di creatinina plasmatica in corso di terapia e mantenere un adeguato livello di idratazione del paziente. Sono inoltre possibili manifestazioni neurologiche (letargia, tremori, allucinazioni, convulsioni) e gastrointestinali (nausea, vomito), peraltro reversibili con la sospensione del farmaco. Non si verificano, ai dosaggi raccomandati, effetti tossici sul midollo osseo né sul fegato.

L'ACV è disponibile in formulazioni per endovena (flaconcini liofilizzati, 250 mg), per os (compresse da 200 e 400 mg) e per uso topico nelle infezioni oculari (pomata al 3% ), o cutanee (crema al 5% ).

 

 

GANCICLOVIR

 

L'esigenza di poter disporre di chemioterapici antierpetici attivi anche sugli stipiti insensibili o poco suscettibili all'azione dell'ACV ha recentemente condotto alla realizzazione di un analogo sintetico della guanina: il ganciclovir, noto anche come DHPG (C)-[1,3-diidrossi2-propossimetil] guanina).

Analogamente all'ACV, di cui è un congenere e di cui rispecchia il meccanismo d'azione, il ganciclovir risulta efficace contro HSV e VZV, ma si differenzia da quel composto perché dotato in vitro di una spiccata attività anche nei confronti di CMV e EBV.

Non è ancora ben noto l'intimo meccanismo con cui la DHPG inibisce la sintesi del DNA di questi ultimi due virus; pare comunque che la sua fosforilazione a ganciclovir monofosfato, precursore della forma attiva capace di inibire competitivamente il legame dei deossinucleosidi trifosfati con la DNA-polimerasi virale, sia catalizzata non da una specifica chinasi virale, bensì da una chinasi cellulare virus-indotta.

Gli studi clinici sull'efficacia e la tollerabilità del ganciclovir riguardano esclusivamente le gravi infezioni da CMV nei pazienti immunocompromessi, specie per trattamento con farmaci antineoplastici o con immunosoppressori per trapianto di organi, o perché affetti da AIDS; le caratteristiche tossicologiche del composto infatti ne giustificano l'impiego soltanto nelle citomegalovirosi che mettono a rischio la vita del paziente o che possono compromettere definitivamente la funzionalità visiva. I migliori risultati si osservano nelle forme gastrointestinali ed in quelle retiniche, in cui la somministrazione di DHPG (10 mg/kg/ die per 14-21 giorni) determina, nella quasi totalità dei casi, un netto miglioramento clinico; i meno favorevoli in quelle polmonari, di cui peraltro il chemioterapico, specie se somministrato tempestivamente in associazione con immunoglobuline anti-CMV specifiche, induce la risoluzione nel 50% circa dei casi. Sfortunatamente le recidive dopo la sospensione del trattamento sono molto frequenti, essendo la DHPG incapace di eradicare il virus latente, per cui si rende spesso necessaria una terapia soppressiva (5 mg/kg/die) alungotermine, soprattutto nei casi ad alto rischio di recidiva di corioretinite.

 

Il ganciclovir si somministra per via endovenosa, essendo limitata la sua biodisponibilità per os ed essendo altamente irritante la sua introduzione per via intramuscolare.   È stata anche sperimentata, con favorevoli risultati anche sotto il profilo tossicologico, l'inoculazione diretta del composto (200 1lg/ml ogni 10-15 giorni) nell'umor vitreo; ciò, ovviamente, in corso di gravi quadri di retinite CMV-correlata.

La DHPG è dotata di favorevoli proprietà farmacodinamiche.Una volta in circolo, si istonuisce ampiamente nei tessuti con concentrazioni pressoché uguali (nel polmone, fegato e testicolo) o 3-7 volte superiori (nel rene) a quelle plasmatiche. Supera agevolmente la barriera emato-liquorale e raggiunge nel liquor livelli pari a circa la metà di quelli ematici. Buona è anche la sua penetrazione intraoculare, dimostrata dal riscontro nell'umor acqueo e vitreo di concentrazioni che sono nel range di un 50% di inibizione per CMV.

La via di eliminazione della DHPG è l'escrezione renale. A seconda della clearance della creatinina, fino al 100% della dose somministrata viene escreta nelle urine come farmaco immodificato, con una emivita di eliminazione di 2-4 ore. In pazienti con tunzione renale compromessa, i livelli plasmatici del farmaco rimangono elevati per periodi prolungati e l'emivita aumenta proporzionalmente al grado di insufficienza renale. l'emodialisi rimuove circa il 50% della quota plasmatica del farmaco.

Il ganciclovir può indurre considerevoli ed importanti effetti collaterali che, come già ricordato, ne restringono l'uso soltanto a condizioni di peculiare gravità; essi sono dose-correlati e non sempre sono reversibili alla sospensione del farmaco. Prima fra tutti va segnalata l'inibizione della funzione emopoietica, particolarmente frequente nei pazienti con AIDS, con conseguente neutropenia (40% circa dei casi), trombocitopenia (20% circa) e talvolta anemia. Altri effetti indesiderati consistono in febbre, rash cutanei, disturbi gastrointestinali e anomalie dei test di funzionalità epatica e renale. Convulsioni generalizzate sono state inoltre segnalate in pazienti che assumevano contemporaneamente imipenem/cilastatina.

Negli animali la DHPG si è dimostrata teratogena ed embriotossica ed in grado di indurre un blocco irreversibile della spermatogenesi.

 

 

BROMOVINILDEOSSIURIDINA

 

La bromovinildeossiuridina (BVDU) è un analogo sintetico alogenato della pirimidina dotato di una selettiva attività contro alcuni Herpesvirus, di cui inibisce la replicazione dopo essere stato attivato a composto funzionale da una chinasi virus-specitica.

In vitro il farmaco è particolarmente attivo nei confronti di HSV- 1 e virus VZ, mentre non appare altrettanto potente nei confronti di HSV-2 ed è del tutto inefficace contro CMV ed EBV.

Le sperimentazioni cliniche, seppur ancora limitate e non adeguatamente controllate, hanno confermato la validità della BVDU e la sua tollerabilità sia nella formulazione topica per il trattamento della cheratocongiuntivite erpetica, sia nelle preparazioni orale e parenterale (715 mg/kg/die per durate variabili in rapporto al quadro clinico) per le forme da HSV-1 e da VZV nell'ospite immunocompromesso. Da esse emergerebbe inoltre la capacità della BVDU di inibire la riattivazione virale per lungo tempo, una volta interrotta la somministrazione del farmaco.

 

 

FLUOROIODOARACITOSINA

 

  È un derivato della citarabina (ara-C, un chemioterapico antierpetico in disuso per l'elevata sua tossicità) dotato di una potente attività in vitro contro HSV 1-2, VZV e CMV. Questo composto, una volta attivato da una chinasi virale, inibisce la DNA polimerasi e quindi la replicazione del virus.

In piccoli studi clinici non controllati la fluoroiodoaracitosina (FIAC), somministrata per via endovenosa alla dose di 400 mg/die per 5 giorni, è stata utilizzata con eccellenti risultati e modesti effetti collaterali nelle gravi manifestazioni da VZV nel soggetto immunocompromesso. Sono comunque necessarie ulteriori sperimentazioni per definire il ruolo del composto in farmacologia clinica.

Altri analoghi della FIAC (fluorometileuracile, bromovinileuracile, ecc.), attivi in vitro contro gli herpesvirus, non sono stati ancora oggetto di studi clinici.

 

 

RIBAVIRINA

 

La ribavirina, nota anche come virazolo, è un nucleoside strutturalmente correlato con la guanosina, capace di inibire in vitro sia virus a DNA (HSV, CMV e adenovirus) sia a RNA (virus influenzali e parainfluenzali, virus respiratorio sinciziale [RSV], virus morbilloso, alcuni arena e bunyavirus, l'HIV e vari altri).

Il meccanismo d'azione di questo chemioterapico non è ben noto, ma si ritiene che la ribavirina, una volta convertita dagli enzimi cellulari a composto mono-, di- e trifosfato, eserciti la sua attività virustatica con meccanismi che possono essere diversi per differenti gruppi di virus: interferenza con l'inosina monofosfato deidrogenasi, enzima chiave per la sintesi dei precursori della guanosina del DNA e dell'RNA; inibizione dell'incappucciamento (capping) del mRNA virale; inibizione della polimerasi virale.

La ribavirina è dotata di un profilo farmacocinetico complesso, solo in parte noto. Dopo somministrazione orale la biodisponibilità del farmaco è del 50% e le concentrazioni plasmatiche massime si raggiungono dopo 2 ore circa, con un'emivita di 10-12 ore.

L'inalazione per aerosol dà concentrazioni polmonari nettamente superiori rispetto alla somministrazione orale. La ribavirina supera agevolmente la barriera emato-liquorale e si ritrova nel liquor a concentrazioni di circa il 70% rispetto a quelle ematiche. Il farmaco viene eliminato prevalentemente per via renale sia immodificato che sotto forma di metaboliti. L'emivita di eliminazione è variabile, in quanto il chemioterapico tende ad accumularsi soprattutto nelle emazie, dalle quali viene rimosso molto lentamente (emivita di 40 ore).

In studi clinici controllati il composto, diluito a 20 mg/ml e somministrato per 3-5 giorni per aerosol attraverso una maschera o una tenda, si è dimostrato efficace nel trattamento della bronchiolite da RSV, con una significativa attenuazione rispetto al placebo dei segni e sintomi della malattia. Altrettanto positivi sono i risultati relativi al trattamento, sempre per quella via, delle infezioni da virus influenzali A e B, nelle quali la somministrazione del farmaco per via orale si è rivelata invece inefficace. Attualmente si sta valutando l'effetto terapeutico del chemioterapico nella febbre di lassa (24 g/die per via sistemica) mentre, per quanto riguarda la malattia da HIV, i risultati finora conseguiti sembrano abbastanza modesti.

La ribavirina, perfettamente tollerata se somministrata per aerosol, è relativamente tossica se introdotta per via generale. I principali effetti collaterali sono rappresentati da anemia, granulocitopenia, ipocalcemia ed alterazioni della funzionalità epatica; essi sono dose-correlati ed in genere reversibili.

 

 

ZIDOVUDINA

 

La3'-azido-2',3'-dideossitimidina, oggi indicata come zidovudina (ZDV) e precedentemente nota come azidotimidina (AZT), è il primo di una classe di composti, denominati dideossinucleosidi, dotati in vitro di un chiaro effetto inibente la replicazione dell'HIV e di vari altri retrovirus (virus linfotropico umano per i T linfociti, lentivirus animali, retrovirus murini).

 

L'attività antivirale della ZDV (e quella dei composti ad essa correlati) si manifesta dopo la fosforilazione del composto a forma attiva 5'-trifosfata da parte di chinasi cellulari che normalmente agiscono sulla timidina: tale forma blocca selettivamente la replicazione virale sia inibendo competitivamente la transcriptasi inversa (DNA-polimerasi virale), per la quale ha un'affinità maggiore (100 volte circa) rispetto alle DNA-polimerasi cellulari, sia interrompendo l'ulteriore allungamento della catena del DNA provirale, una volta incorporato nelle porzioni terminali della molecola del DNA (azione chain-terminator).

L'effetto virustatico in vitro della ZDV è selettivo e potente: l'infettività e gli effetti citopatici dell'HIV vengono infatti inibiti da concentrazioni del chemioterapico superiori (<0,37 1lg/ml) a quelle raggiungibili in vivo. Va comunque segnalata la possibilità di modificazioni della sensibilità virale alla ZDV, forse dovuta ad una ridotta affinità della transcriptasi inversa per il composto 5'-trifosfato, la cui reale entità ed il cui significato clinico debbono peraltro essere ancora definiti.

La ZDV è rapidamente assorbita dopo somministrazione orale e raggiunge il picco ematico in 30-90 minuti. La sua biodisponibilità è pari al 65 % della dose somministrata per os o per endovena; l'emivita plasmatica è di circa 1 ora. In pazienti che hanno ricevuto 1200 mg/die per os in dosi refratte, si ritrovano concentrazioni plasmatiche stabili di 1,2 1lg/ ml. Il composto passa la barriera ematoencefalica e si ritrova nel liquor a concentrazioni di circa il 60% rispetto a quelle sieriche; esso è inoltre significativamente presente nel liquido seminale. La molecola viene in gran parte metabolizzata a livello epatico con processi di glucuro-coniugazione e viene eliminata con le urine per il 75% sotto forma di metaboliti e per la restante quota come composto attivo.

L'impiego della ZDV, per lo meno ai dosaggi comunemente utilizzati (10001200 mg/die per os), non è esente da importanti effetti collaterali, legati soprattutto alla tossicità midollare del farmaco.

Quest'ultima è responsabile dell'anemia (45 % circa dei casi), che si manifesta in genere dopo 2-4 settimane dall'inizio del trattamento e che può accentuarsi nel tempo fino a rendere problematica la prosecuzione dello stesso; della neutropenia, particolarmente frequente (30% dei casi) dopo le prime 12 settimane di terapia e più severa (500-750 cellale/mm3) nei pazienti con AIDS conclamata; della trombocitopenia, peraltro di più rara osservazione. Altri effetti collaterali consistono in febbre, rash cutaneo, cefalea, nausea, diarrea, alterazioni della funzionalità epatica, mialgie. Ansietà, turbe della coscienza e tremori insorgono dopo la somministrazione di dosi elevate del chemioterapico ed alcuni pazienti possono sviluppare vere e proprie encefalopatie potenzialmente letali.

Da tempo la ZDV è oggetto in vari Paesi di sperimentazioni cliniche. In uno dei principali studi controllati con placebo, effettuato negli USA, questo chemioterapico si è dimostrato in grado di prolungare la sopravvivenza dei pazienti con ARC avanzato e di quelli con AIDS che avevano già subito un primo episodio di polmonite da Pneumocystis carinii; quei pazienti inoltre presentavano, rispetto ai trattati con placebo, un minor numero ed una minore gravità di nuove infezioni opportunistiche. Un effetto positivo è stato anche ottenuto in pazienti con neuropatie periferiche o con quadri tipo AIDS dementia complex, con miglioramento dei disturbi neurologici e delle funzioni cognitive.Numerosi altri studi hanno inoltre dimostrato che la somministrazione di ZDV si associa ad una riduzione dei livelli sierici e liquorali dell'antigene HIV p24 e ad un incremento, seppur temporaneo, delle cellale CD4+.

Più recentemente è stata documentata l'utilità del chemioterapico nel trattamento dell'AIDS nel bambino, nonchè la sua capacità di ridurre il tasso di progressione verso la malattia conclamata in pazienti con ARC lieve.

Particolare interesse, anche per i risvolti che potranno avere sulla gestione del paziente HIV-positivo, rivestono i dati di un altro studio controllato con placebo, dal quale emerge che la ZDV, seppur somministrata a basse dosi (500 mg/die per os), può rallentare la progressione dell'infezione asintomatica da HIV verso forme sintomatiche; ciò senza indurre significativi effetti collaterali.

Saranno tuttavia necessarie ulteriori sperimentazioni cliniche e follow-up più prolungati per meglio definire l'efficacia e la sicurezza d'impiego della ZDV, essendo numerosi i quesiti non ancora chiariti: entità e durata dell'effetto virostatico per le varie categorie di pazienti, effetti collaterali a lunga scadenza in termini di mutagenicità e cancerogenicità, efficacia terapeutica in rapporto alle varie fasi dell'infezione, associazione con altri antiretrovirali.

Riguardo a quest'ultimo aspetto, è in corso di valutazione l'associazione della ZDV con altri composti (interferon-alfa, CD4 ricombinante solubile, acyclovir ecc.), nell'ipotesi che la combinazione di diversi farmaci che agiscono su diversi punti della replicazione virale possa avere il vantaggio di ridurre la tossicità dei singoli componenti, oltreché ritardare o prevenire fenomeni di resistenza virale.

 

 

ANALOGHI DELLA ZIDOVUDINA

 

Si tratta, come già detto, di un gruppo di dideossinucleosidi strutturalmente correlati con la ZDV, di cui riproducono il meccanismo di azione e lo spettro di attività antivirale.

Uno tra i più attivi in vitro è la 2'-3'dideossicitidina (ddC), capace di inibire la replicazione dell'HIV a concentrazioni da 0,01 a 0,05 1lmol/l, in rapporto alla carica virale usata nei test. Contrariamente alla ZDV, questa molecola viene convertita nel composto attivo trifosfato da un gruppo di enzimi cellulari che normalmente agiscono sulla desossicitidina. la ddC è ben assorbita per via orale; dopo una dose di 0,03 mg/kg si raggiungono livelli plasmatici di 0,1-0,2 1lmol/l, con un'emivita sierica di poco superiore ad 1 ora. Il composto diffonde, sia pur parzialmente, nel liquor. L'escrezione renale è la via di eliminazione.

In sperimentazioni cliniche recenti la ddC è stata utilizzata nel trattamento dell'AIDS o delle condizioni correlate. Il farmaco è stato somministrato per via orale per 1-6 mesi, alle dosi di 0,03-0,54 mg/lmicrog/die. Nella quasi totalità dei pazienti si è avuto un incremento del numero dei linfociti CD4+ ed una significativa riduzione dei livelli sierici dell'antigene p24.

La ddC è relativamente poco tossica se utilizzata a dosi appropriate. Febbre, eruzioni cutanee maculo-vescicolari, ulcerazioni del cavo orale e, soprattutto, una neuropatia dolorosa periferica sensitivomotoria, si presentano nella maggior parte dei pazienti trattati con dosi maggiori di 0,06 mg/kg/die; essi insorgono generalmente alcune settimane dopo l'inizio della terapia, sono dose-dipendenti e, con l'eccezione della neuropatia, tendono a ridursi dopo alcuni giorni anche se il trattamento non viene interrotto.

 

Un altro componente la classe dei dideossinucleosidi è la dideossiinosina (ddI), capace di inibire in vitro la replicazione dell'HIV a concentrazioni facilmente raggiungibili nell'uomo. Questa molecola è il metabolita più immediato della dideossiadenosina (ddA), essendo quest'ultima suscettibile di deaminazione da parte dell'adenosina deaminasi sierica e cellulare, con conseguente formazione di ddI, ed essendo entrambi i composti fosforilati in vivo a ddA-trifosfato, che funge da falso substrato per la transcriptasi inversa. Diversamente dalle forme attive degli altri dideossinucleosidi, la ddA-trifosfato permane a lungo nelle cellule, con un'emivita di 12 ore circa; tale caratteristica permette di somministrare la ddI una o due volte al dì. Il farmaco è rapidamente assorbito dopo somministrazione orale e alla dose di 0,8 mg/kg raggiunge un picco ematico di 244 microg/ml entro 60 min. con un'emivita di circa 1 ora. la ddI viene escreta dal 26 al 39% immodificata nelle urine, soprattutto per secrezione attiva tubulare, in un periodo di 6 ore.

Studi clinici preliminari relativi a pazienti con AIDS/ARC, trattati con dosi giornaliere variabili da 1,6 a 20,4 mg/kg per 64 settimane, suggeriscono che tale farmaco induce significativi miglioramenti immunologici e virologici: fu infatti osservato al termine del trattamento, in più del 60% dei casi, un incremento dei linfociti totali e delle cellule CD4+, nonché una riduzione della viremia. Gli effetti tossici si manifestarono principalmente sotto forma di pancreatite e di neuropatia, specialmente dopo somministrazione di dosi elevate del farmaco (1,5-2 g/die). Tra gli altri effetti collaterali osservati sono da ricordare aumento della uricemia, ipopotassiemia, ipocalcemia ed ipomagnesemia. Sono in corso ulteriori sperimentazioni per stabilire la reale efficacia del farmaco e l'eventuale utilità della sua associazione con la ZDV.

Attività in vitro nei confronti dell'HIV ha infine dimostrato una forma insatura della 2'-3'-dideossitimidina, denominata D4T, la quale è attualmente oggetto di studi clinici preliminari. I primi dati sembrano indicare l'efficacia terapeutica del composto e la sua buona tollerabilità.

 

 

FOSCARNET

 

Il foscarnet (fosfonoformato trisodico), è un analogo del pirofosfato attivo in vitro contro alcuni virus erpetici, l'HBV e l'HIV. Diversamente dagli altri analoghi nucleosidici, questo farmaco non subisce processi di fosforilazione a livello cellulare, ma interagisce direttamente con le polimerasi codificate dai virus suddetti.

Il foscarnet è stato impiegato per uso topico nella terapia delle infezioni mucocutanee da HSV tipo 1 e 2, rivelandosi efficace e privo di effetti collaterali. Convincenti risultati sono stati ottenuti nel trattamento sistemico parenterale (180-250 mg/kg/die per infusione venosa continua) delle infezioni da CMV in trapiantati renali e midollari e della corioretinite CMV-correlata in pazienti con AIDS, ma sono stati anche registrati importanti effetti collaterali (alterazioni delpita renaie, anemia, disturbi dell'equilibrio elettrolitico).

Per quel che concerne altre potenziali indicazioni, non esistono ancora, per lo meno nell'uomo, dimostrazioni sull'efficacia del composto nell'epatite B. Alcune recenti segnalazioni, peraltro ancora da confermare, ne dimostrerebbero invece l'utilità nell'epatite acuta fulminante da virus delta (HDV).

Riguardo all'attività anti-HIV, studi clinici preliminari suggeriscono che il foscarnet, alla dose di 120-180 mg/die per infusione venosa continua, induce un significativo decremento dell'antigenemia p24 ed un miglioramento dei parametri immunologici. la reale efficacia antiretrovirale del farmaco deve essere valutata in sperimentazioni controllate.

 

 

Farmaci ad attività antivirale diretta e/o indiretta

 

INTERFERON

 

Nel 1957, Isaacs e lindemann dimostrarono che colture cellulari infettate con un virus influenzale acquisivano temporaneamente una certa forma di resistenza nei confronti di un altro virus, sia pure antigenicamente differente dal primo, e stabilirono che quella condizione di non suscettibilità era dovuta ad una sostanza attiva che essi denominarono interferone (IFN).

Oggi è noto che l'IFN è un complesso sistema biologico costituito da un gruppo di molecole proteiche a basso peso molecolare (15000-25000 daltons), che vengono sintetizzate dalle cellule in risposta a infezioni virali o a induttori biologici o sintetici.

Sono stati finora individuati tre tipi di interferon (tab.04x): IFN-alfa, di cui si conoscono 18 sottotipi, prodotto principalmente da linfociti B e macrofagi esposti a virus o a mitogeni; IFN-beta, rappresentato da 2-5 sottotipi, prodotto dai fibroblasti del tessuto connettivo in risposta a stimoli virali o a polinucleotidi sintetici; IFN-gamma (unico), prodotto dai linfociti T e cellale Natural Killer (NK) stimolati con mitogeni o con antigeni eterogenei. Sulla base di analogie strutturali e di proprietà farmacocinetiche comuni, gli IFN-alfa e beta sono stati accomunati e vengono anche chiamati IFN di tipo I, mentre l'IFN-gamma è anche definito di tipo II.

Gli IFN sono dotati di proprietà antivirale, antiproliferativa ed immunoregolatrice. l'attività antivirale è specie-specifica, ad ampio spettro, e non si esplica direttamente sui virus, bensì attraverso l'induzione nelle cellule infettate di una condizione di resistenza a quei patogeni attraverso vari meccanismi, molti dei quali non ancora chiariti. Uno dei più conosciuti è quello che prevede, una volta avvenuto il legame di quelle molocole ai recettori specifici della membrana cellulare ed una volta verificatasi l'internalizzazione del complesso IFN-recettore, l'attivazione della 2',5'-oligoadenilato sintetasi: questo enzima, in presenza di RNA bicatenario, catalizza la formazione di oligoadenilati i quali a loro volta attivano una endoribonucleasi capace di degradare l'mRNA virale. Ciò si traduce nel blocco della sintesi delle proteine necessarie alla replicazione virale.

Un altro meccanismo responsabile della virostasi IFN-indotta è l'attivazione di proteinchinasi che, fosforilando il fattore iniziatore i processi di traduzione dell'mRNA, determinano il completo arresto delle sintesi proteiche ribosomiali.

Ai suddetti meccanismi si debbono verosimilmente anche gli effetti antiproliferativi degli IFN sulle cellule tumorali.

Come già detto, gli IFN sono inoltre dotati di una potente azione regolatrice della risposta immune, che si esplica attraverso l'aumento del potenziale citotossico delle cellule NK, la modulazione della risposta anticorpale e l'incremento dell'espressione degli antigeni virali sulla superficie cellulare. Quest'ultimo evento espone la cellula infetta all'azione dei linfociti T citotossici.

Gli IFN alfa e beta, i più utilizzati come antivirali perché dimostratisi più attivi dell'IFN di tipo II, si somministrano per via endovenosa, o per via intramuscolare o sottocutanea; tra queste due ultime vie non esistono significative differenze sotto il profilo farmacocinetico. Dopo somministrazione intramuscolare di 3-6 Mega Unità (MU), si raggiungono livelli plasmatici di IFN rispettivamente di 30-50 UI/ml, con un'emivita di 24 ore circa. la somministrazione endovenosa dà luogo a picchi ematici più elevati, ma con un'emivita molto più breve (3-4 ore).

 

Gli IFN non diffondono nel liquido cefalorachidiano; passano in larga misura nel filtrato glomerulare ma non sono reperibili nelle urine, forse perché degradati a livello dei tubuli renali.

Fino alla fine degli anni '70 le potenzialità terapeutiche degli IFN non poterono essere valutate, essendo assolutamente insufficienti i quantitativi disponibili per l'uso clinico. Oggi, grazie alle tecniche di ingegneria genetica che già da un decennio ne hanno reso possibile la produzione su scala industriale, queste molocole vengono utilizzate in numerosi trial clinici riguardanti pazienti affetti da una vasta gamma di malattie virali e neoplastiche.

Per quanto concerne le infezioni virali, esistono già alcune precise indicazioni per un uso appropriato ed efficace degli IFN di tipo I (tab.05x): le epatiti croniche (da virus B. C e Delta) ad esempio, per le quali sembra ormai acquisito che l'IFN, somministrato per via intramuscolare o sottocutanea alla dose di 3-6 MU 3 volte alla settimana, per un periodo di almeno 6 mesi, è in grado di influire positivamente sulla replicazione virale, sulla transaminasemia e sul grado istologico di attività nel 60-70% dei casi; alcune patologie associate al papillomavirus umano (condilomi acuminati, verruche, papillomatosi laringea), in cui l'IFN per via intralesionale (250-500.000 UI/mm2 a giorni alterni per 3 settimane) consente risultati positivi nel 50-60% dei casi; la varicella-zoster negli immunocompromessi, che risponde positivamente al trattamento interferonico (30 MU/die per 5 giorni), anche se l'acyclovir rimane il farmaco di prima scelta per questo tipo di infezione; la congiuntivite da adenovirus, di cui l'IFN per via topica riduce significativamente la durata ed impedisce l'evoluzione verso la cheratite.

Anche altre condizioni di patologia virale potranno forse beneficiare degli IFN, sia in monoterapia che in associazione con altri antivirali. Al riguardo appaiono interessanti alcune recenti segnalazioni, le quali sembrano indicare che l'IFN linfoblastoide sinergizza con la ZDV nell'inibire in vitro la replicazione dell'HIV.In una sperimentazione pilota volta a confermare in vivo quelle osservazioni, pazienti sieropositivi asintomatici o con sindrome AIDS-correlata hanno ben tollerato per varie settimane la somministrazione di ZDV (500 mg/die) e di IFN-alfa (3 MU/die 3 volte alla settimana), anche se rimane ancora da definire l'eventuale maggiore efficacia terapeutica di tale associazione rispetto alla sola ZDV.

Per quanto attiene infine l'attività antiproliferativa, alcune esperienze cliniche sembrano dimostrative dei potenziali benefici effetti dell'IFN-alfa sul sarcoma di Kaposi associato all'AIDS, anche se esse necessitano di ulteriori conferme.

L'impiego degli IFN non è esente da effetti collaterali, quando essi siano utilizzati per via sistemica; tali effetti sono dose-correlati e generalmente reversibili dopo la sospensione del trattamento.

 

 

METISOPRINOLO

 

Il metisoprinolo (MSP), o inosina pranobex, è un prodotto di sintesi costituito da un complesso di inosina e di dimetilamino-2-propanolo, dotato di attività antivirale in parte diretta ed in parte mediata attraverso il potenziamento delle difese dell'organismo ospite. l'effetto antivirale diretto è dimostrabile in vitro e si esplica sia su virus a DNA che a RNA (herpesvirus, virus influenzali, ECHO, adenovirus, poliovirus, rinovirus e virus della immunodeficienza umana), con meccanismi non ancora chiariti. L'inibizione virale, tuttavia, richiede concentrazioni di MSP assai elevate, non sempre ottenibili in terapia.

Anche l'attività immunomodulante del composto ha luogo attraverso meccanismi sconosciuti.   È stato comunque ampiamente dimostrato che, in vitro, il MSP migliora la risposta proliferativa dei linfociti T, l'attività delle cellule NK, la chemiotassi neutrofila e la produzione di gamma-interferone e di interleuchina-2.

Alla proprietà immunoregolatrice, piuttosto che all'azione antivirale diretta, va forse attribuita l'efficacia terapeutica del composto, documentata da studi clinici controllati, nell'herpes zoster, nella stomatite aftosa, nell'herpes labiale e genitale ricorrenti, nonché nella panencefalite subacuta sclerosante.Recentemente, uno studio randomizzato a doppio cieco contro placebo, condotto su un ampio numero di pazienti con ARC, sembra concludere per un effetto favorevole del MSP (3 g/die per 24 settimane) nel ritardare la progressione della malattia da HIV verso l'AIDS conclamata. Queste osservazioni necessitano tuttavia di ulteriori conferme.

Il MSP si somministra generalmente per os alla dose di 4 g/die in 4 somministrazioni. La tollerabilità del farmaco è più che buona; l'unico effetto collaterale, peraltro reversibile, è l'iperuricemia.

 

 

Altri composti antivirali

 

Vengono raggruppate sotto questa voce alcune sostanze concepite e realizzate essenzialmente in funzione anti-HIV, le quali esplicano l'attività virustatica attraverso il blocco di eventi metabolici virusspecifici che sfuggono agli altri antiretrovirali.

 

 

DESTRANSOLFATO

 

Si tratta di un polisaccaride polianionico a basso peso molecolare (7000-8000 daltons) capace di inibire la replicazione dell'HIV bloccando, sia pur parzialmente, il legame del retrovirus al suo recettore glicoproteico CD4 sulle cellule bersaglio.

In una sperimentazione clinica recente il destransolfato è stato somministrato per via orale a un gruppo di pazienti affetti da AIDS o ARC. Il farmaco è stato ben tollerato, ma, contrariamente alle aspettative, ha dimostrato scarsissima attività sia in termini di riduzione dell'antigenemia p24 che di aumento della conta linfocitaria. Nell'ipotesi che la discrepanza tra l'attività in vitro e quella in vivo possa essere dovuta allo scarso assorbimento del composto dopo somministrazione orale, sono state programmate altre indagini che ne prevedono l'impiego per via endovenosa.

 

 

CD4 SOLUBILE RICOMBlNANTE

 

Recentemente è stato tentato un originale approccio terapeutico contro l'infezione da HIV, fondato sull'impiego di molecole prodotte con tecniche di ingegneria genetica capaci di ridurre il legame del retrovirus al recettore CD4 presente sulle cellule permissive. Una di quelle molecole, il CD4 ricombinante solubile (rsCD4), riproduce la porzione extracellulare del recettore naturale del virus ed agisce legandosi selettivamente alla proteina virale gpl20, vale a dire alla porzione che aderisce alla cellula bersaglio; viene così inibito l'aggancio dell'HIV alle cellule CD4+ e quindi l'infezione delle stesse.

Gli studi in vitro hanno confermato la potenzialità antiretrovirale del rsCD4: l'infezione dei linfociti T viene infatti inibita da concentrazioni del farmaco (15 micro g/l) facilmente raggiungibili in vivo.

In una sperimentazione recente il rs CD4 è stato somministrato per via parenterale, alla dose di 3 0 mg/die per 2 8 giorni, a un piccolo gruppo di pazienti con AIDS. Durante il trattamento si è osservato in tutti i casi un netto decremento dell'antigenemia p24, in assenza di significative modificazioni della funzione immunologica o del numero delle cellule CD4+. la tollerabilità del composto è stata buona.

 

Tuttavia questa molecola, relativamente piccola, viene rapidamente escreta nelle urine: ne deriva che la sua emivita plasmatica è estremamente breve (circa 15 min). Onde ovviare a questo inconveniente alcuni ricercatori, sfruttando l'analogia strutturale del rsCD4 con la porzione variabile della catena pesante delle immunoglobuline, lo hanno legato con la regione costante di quella catena. Il risultato è stato un ibrido chimerico (immunoadesina) che, pur conservando l'attività anti-HIV in vitro del rsCD4, ha acquisito la lunga emivita plasmatica delle Ig umane.   È in fase di avvio un trial sperimentale per valutarne l'efficacia terapeutica e la possibilità di una eventuale associazione con altri chemioterapici, ad esempio la ZDV.

 

 

INIBITORI DELLA GLICOSILAZIONE

 

Sono rappresentati da alcuni composti che inibiscono la produzione endocellulare di virioni infettanti bloccando l'attività delle glicosidasi di "trimming", enzimi deputati al divaggio dei gruppi glicidici terminali delle glicoproteine virali. Prototipi di questa dasse di composti sono la castanospermina ed alcuni suoi analoghi, come l'N-butil-deossinojirimicina, di cui è prevista a breve scadenza una sperimentazione dinica preliminare.

 

 

OLIGODEOSSINUCLEOTIDI ANTAGONISTI

 

Gli oligodeossinucleotidi antagonisti sono segmenti di DNA composti da 1020 nudeotidi modificati in modo da assumere una configurazione "antisenso" (con sequenze cioè complementari a quelle dell'RNA virale) che, legandosi all'acido nudeico del virus, bloccano la formazione delle proteine virali.

Alcuni di essi, opportunamente manipolati onde renderli meno suscettibili alla degradazione da parte delle nucleasi cellulari, hanno dimostrato in vitro attività nei confronti dell'HIV e dei virus influenzali. Il loro studio è tuttora sperimentale.

 

 

Letture consigliate

 

 

De Clercq E.: Current leads in antiviral chemotherapy. J.Antimicrob. Chemother., 17, 399, 1986.

Haraux J.M., Ingrand D., Agut A.: Perspectives in antiviral chemotherapy. Fundam. Clin. Pharmacol., 4, 357, 1990.

Mitsuya H., Yarchoan R., Hayashi S., Broder S.: Antiviral therapy against HIV infection. J. Am. Acad. Dermatol., 22, 1282, 1990.

Galasso G.J., Whitley R.J., Merigan T.C.: Antiviral agents and viral diseases of man. Raven Press, New York, 1990.

 

 

S. Delia

Professore Ordinario, di Malattie Infettive,

Università “La Sapienza”, Roma

 

 

V. Vullo

Ricercatore, Istituto di Malattie

Infettive, Università “La Sapienza”, Roma

 

 Ultimo aggiornamento: 23.12.2002

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