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ARGOMENTI DI MEDICINA CLINICA

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 Ultimo aggiornamento: 23.02.2007

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LE PANCREATITI ACUTE E CRONICHE

 

Inquadramento nosologico

 

Tre tentativi di classificazione e definizione delle pancreatiti si sono succeduti negli ultimi trent'anni: le due classificazioni di Marsiglia (1963 e 1984), basate su elementi di carattere anatomico ed eziologico e la classificazione di Cambridge (1983), fondata invece su criteri clinicoradiologici e di gravità della patologia.

Più recentemente, una nuova classificazione è stata proposta da un gruppo di riconosciuti esperti, sulla base di dati statistici, morfologici, sperimentali ed epidemiologici. Secondo quest'ultima e ormai universalmente accettata classificazione, detta di Marsiglia-Roma (1988), esistono due entità distinte di pancreatite: la pancreatite acuta e la pancreatite cronica. Sembra quindi confermato il concetto che non esiste un'unica patologia infiammatoria dell'organo che evolva invariabilmente dalla forma acuta a quella cronica.

La pancreatite acuta si caratterizza per lesioni infiammatorie localizzate al pancreas od ai tessuti peripancreatici: edema, necrosi, necrosi emorragica, steatonecrosi. Nella maggior parte dei casi, la malattia si limita agli stadi di edema e steatonecrosi. In questa fase, le lesioni sono generalmente considerate reversibili, mentre non vi è accordo sulla reale reversibilità di necrosi estese. Più facilmente la necrosi, specie se estesa, può andare incontro a sovrainfezione o essere seguita dalla formazione di raccolte liquide peripancreatiche. Queste ultime possono a loro volta risolversi spontaneamente, persistere (dando poi origine ad una pseudocisti necrotica) e/o infettarsi (fig.01x).

Mentre vi è evidenza che una pancreatite acuta ad eziologia biliare non evolve praticamente mai verso una forma cronica, lo stesso non può dirsi per le pancreatiti acute alcoliche. Infatti, secondo alcuni, la pancreatite acuta alcolica è da ritenere quasi sempre la prima manifestazione di una pancreatite cronica calcificante; a conferma di questa ipotesi sta il dato della rarità dei casi di malattia ad eziologia alcolica in soggetti che non siano etilisti cronici da oltre dieci anni. Altri studi hanno invece documentato come fino al 30% di pazienti con pancreatite acuta alcolica non dimostrino poi nel tempo lo sviluppo della forma cronica.   È dunque evidente come solo l'osservazione prolungata negli anni di questi pazienti potrà fornire le informazioni utili per un corretto inquadramento diagnostico.

La pancreatite cronica è definita dalla presenza di fibrosi, distruzione del parenchima esocrino e, negli stadi avanzati, distruzione del tessuto endocrino.

Essa è nelle fasi iniziali frequentemente complicata da episodi di pancreatite acuta, responsabili di crisi dolorose recidivanti. Con il passare del tempo, compaiono un'insufficienza esocrina (steatorrea) ed endocrina (diabete), mentre le crisi dolorose acute diminuiscono, fino a scomparire. Vengono distinte due forme di pancreatite cronica.

La pancreatite cronica calcificante, che è la forma di gran lunga più frequente, presenta aspetti morfologici peculiari: distribuzione lobulare delle lesioni, stenosi odatrofia dell'epitelio duttale, precipitati proteici o calcoli intracanalari.

La maggior parte dei pazienti svilupperanno calcificazioni visibili all'esame radiologico diretto dell'addome; è pertanto giustificata la definizione di pancreatite cronica calcificante anche quando le calcificazioni non siano ancora documentabili.

Le lesioni anatomiche ed i disordini funzionali evolvono anche nel caso in cui la causa primitiva venga rimossa.

Nella patogenesi di questa forma di pancreatite cronica sembra svolgere un ruolo fondamentale il deficit assoluto o relativo della "pancreatic stone protein" (PSP), o proteina stabilizzatrice pancreatica, che neutralizza lo ione calcio fisiologicamente presente in eccesso nel succo pancreatico.

La pancreatite cronica ostruttiva è secondaria all'ostruzione del dotto di Wirsung, a causa di tumori pancreatici o ampollari, di pseudocisti necrotiche, di cicatrici esito di una pancreatite acuta o di un traumatismo, di odditi.

Questa forma rappresenta una minima percentuale delle pancreatiti croniche. Dal punto di vista anatomo patologico, si caratterizza per la uniforme distribuzione delle lesioni a monte dell'ostacolo, la conservazione dell'epitelio duttale e l'assenza di precipitati proteici o di calcoli.

Dal punto di vista istopatologico, esiste poi un quadro peculiare, definito come fibrosi perilobulare, caratterizzato dalla conservazione del parenchima esocrino. Non vi è consenso sulla opportunità di classificare o meno questa entità, peraltro di rara osservazione, fra le pancreatiti croniche.

 

 

LA PANCREATITE ACUTA

 

Eziologia e patogenesi

 

La pancreatite acuta riconosce numerose cause, intra- ed extrapancreatiche.

Fra le cause extrapancreatiche, le principali sono la litiasi biliare, i traumi addominali, la chirurgia, le manovre endoscopiche sulla papilla, l'iperlipidemia. Anche all'abuso di alcool conseguono frequentemente episodi di pancreatite acuta, che tuttavia non è sempre agevole differenziare dalla manifestazione clinica iniziale di una pancreatite cronica calcificante. Come già detto, appare evidente, a questo proposito, l'importanza di un corretto e prolungato monitoraggio di questi pazienti, unico modo per giudicare della reale evolutività della malattia. I primi episodi acuti di pancreatite cronica alcolica, comunque, possono essere accompagnati da tutte le manifestazioni della pancreatite acuta, comprese le compromissioni sistemiche e le complicanze.

La litiasi biliare e l'alcolismo sono responsabili dell'85 % circa delle pancreatiti acute. le altre cause, che intervengono globalmente soltanto nel 5% dei casi di malattia, sono elencate nella tab.01x. Fra quelle intrapancreatiche, meritano di essere sottolineati i tumori: fino al 15% dei casi, infatti, una neoplasia pancreatica si può rivelare con un episodio di pancreatite acuta.

Il 10% delle pancreatiti viene definito idiopatico, non essendo identificabile alcuna delle cause note. Negli ultimi anni, tuttavia, si sono accumulate evidenze significative riguardo all'esistenza di un pancreas divisum in pazienti affetti da ricorrenti attacchi di pancreatite acuta. Questa anomalia è dovuta alla mancata fusione degli abbozzi embrionari ventrale e dorsale (fig.02x): il drenaggio della maggior parte del pancreas (abbozzo dorsale) viene quindi assicurato dal dotto di Santorini, il cui sbocco nella papilla minore può tuttavia risultare relativamente insufficiente in condizioni di iperstimolazione della ghiandola. Questa condizione potrebbe quindi rendere ragione almeno di una parte delle pancreatiti acute a tutt'oggi ancora considerate idiopatiche.

  È convinzione comune che tutte le forme di pancreatite acuta, qualunque ne sia la causa, riconoscano quale momento patogenetico iniziale l'attivazione del pool enzimatico pancreatico. A questa conseguirebbe poi tutta la sequenza di eventi, locali e sistemici, della malattia.

Non è stata tuttavia ancora identificata con certezza una via finale comune che, con l'attivazione intrapancreatica del tripsinogeno, inneschi la cascata proteolitica.

Un possibile denominatore comune potrebbe essere un'alterazione della permeabilità delle membrane cellulari ed intracellulari.

L'attivazione degli enzimi sembrerebbe addirittura avvenire all'interno della cellula acinare (anziché nei dotti o nell'interstizio pancreatico, come finora sostenuto), per azione delle idrolasi lisosomiali non più immagazzinate nelle membrane fosfolipidiche.

Anche i radicali liberi svolgerebbero un ruolo nell'alterare la permeabilità delle membrana cellulari, come suggerito da alcuni studi sperimentali.

Lo squilibrio fra proteasi attivate e sistemi inibitori pancreatici e plasmatici è comunque il fenomeno che determina la gravità delle lesioni della pancreatite acuta.

Nel succo pancreatico è infatti presente un inibitore specifico della tripsina, mentre gli inibitori plasmatici sono costituiti per la maggior parte da alfa-1-antitripsina ed alfa-2-macroglobulina, che presentano attività complementari. Il sistema plasmatico, contrariamente a quello tissutale, non blocca l'attività enzimatica delle proteasi, ma ne favorisce una rapida eliminazione a livello del sistema reticolo-endoteliale.

Clinicamente, è stata osservata una correlazione significativa tra i livelli plasmatici degli inibitori e lo sviluppo di necrosi della ghiandola. Questo dato, oltre al suo valore predittivo, avvalora l'importanza attribuita al rapporto proteasi/ inibitori nella patogenesi della malattia.

Recentemente è stata inoltre isolata una nuova molecola ad attività proteasica, denominata tripsina-2 o mesotripsina, la cui attività non viene neutralizzata né dall'inibitore tissutale né dall'alfa-1antitripsina. Si potrebbe ipotizzare quindi che l'attivazione intrapancreatica di tripsina-2 inneschi l'autodigestione pancreatica, attivando in seguito tutti gli altri zimogeni.

L'efficacia dei sistemi inibitori è ovviamente strettamente dipendente dall'integrità della rete vascolare. Il ruolo dell'ischemia nella genesi della pancreatite acuta è tuttavia ancora controverso, non potendosi ancora stabilire in che misura le alterazioni anatomiche e funzionali effettivamente riscontrate a livello del microcircolo (trombosi, alterata permeabilità di membrana, liberazione di chinine dalla cellula endoteliale) siano la causa o la conseguenza del danno parenchimale.

Numerosi meccanismi sono stati proposti per comprendere come i diversi fattori eziologici (litiasi biliare ed alcool innanzitutto) possano innescare il processo di autodigestione.

Per ciò che concerne la pancreatite acuta biliare, l'ipotesi più convincente prevede che il transito transpapillare dei calcoli biliari possa indurre un blocco transitorio, anatomico o funzionale, della papilla.

Questo fenomeno favorirebbe, in presenza di un canale comune fra coledoco e dotto di Wirsung, il reflusso bilio-pancreatico, o addirittura il reflusso del contenuto duodenale attraverso la papilla. I sali biliari deconiugati, uno stato di aumentata pressione intracanalicolare (peraltro scarsamente dimostrabile) o direttamente l'enterochinasi duodenale potrebbero allora provocare rispettivamente un danno diretto sull'epitelio duttale ed acinare 0 una attivazione prematura degli zimogeni.

Il transito transpapillare dei calcoli si riscontra più frequentemente in pazienti con un dotto cistico ed un coledoco di calibro superiore alla media ed un elevato numero di calcoli di piccole dimensioni. Il significato della microlitiasi biliare è stato particolarmente sottolineato nell'ultimo decennio.

Soltanto il 4-8% dei pazienti con colelitiasi, però, manifesta una pancreatite acuta; è quindi evidente come siano in gioco altri fattori ancora poco noti.

Il possibile meccanismo implicato nella genesi della pancreatite acuta alcolica sembra essere un aumento della permeabilità duttale. Questo sarebbe a sua volta provocato da un lieve incremento della pressione intraduttale e dall'effetto tossico dei metaboliti dell'alcool (acetaldeide) sulle cellale duttali ed acinari. Le membrane cellulari, anche in questo caso, rappresenterebbero il bersaglio dell'agente patogeno.

La patogenesi della pancreatite acuta in caso di iperlipidemia è poco nota. L'ipotesi più accreditata, ricavata da studi sperimentali, attribuisce un effetto citotossico all'elevata concentrazione locale di acidi grassi liberi.

In corso di iperparatiroidismo, l'incidenza della pancreatite acuta varia dal 7 al 19%. Da un'ampia revisione di oltre 1000 casi di iperparatiroidismo osservati alla Mayo Clinic, la fondatezza di questa associazione viene messa in dubbio. In questo studio, infatti, la pancreatite acuta incide solo per l'1,5% e nel 65% dei casi è giustificabile anche con altre cause.   È possibile che sia la durata dell'iperparatiroidismo a condizionare la probabilità di insorgenza di una pancreatite acuta in questi soggetti.

La pancreatite da farmaci è rara, ma deve essere tenuta in considerazione poiché alcune delle molecole chiamate in causa sono di impiego comune. Diuretici tiazidici, furosemide, contraccettivi orali, azatioprina, cimetidina, sulfonamidi, tetracicline e l'abuso di amfetamine, rifampicina, indometacina possono provocare pancreatite acuta. La reale tossicità degli steroidi è oggi messa in discussione. Per alcuni farmaci si è dimostrata l'insorgenza di una vasculite allergica.

 

 

Fisiopatologia

 

FENOMENI LOCALI

 

Il più frequente evento locale della pancreatite acuta è l'edema pancreatico, alla cui genesi concorrono in maggior misura peptidi vasoattivi e la lisolecitina, liberata dall'azione della fosfolipasi A.

La necrosi del tessuto adiposo è l'altro quadro anatomopatologico di comune riscontro in corso di pancreatite acuta. Solo la lipasi e la colipasi sono in grado di provocare steatonecrosi.

Sempre a livello pancreatico, la necrosi coagulativa ed il danno vascolare sembrano invece mediati dall'elastasi e dalla fosfolipasi A.

Questi diversi quadri anatomopatologici consentono di identificare due tipi fondamentali di pancreatite acuta.

La pancreatite acuta "edematosa", che rappresenta l'85-90% di tutte le pancreatiti, è caratterizzata da edema e steatonecrosi; il suo andamento clinico è quasi sempre benigno e la regressione anatomica delle lesioni completa.

La pancreatite acuta "necrotico-emorragica", che si manifesta nel 10-15 % dei pazienti, si caratterizza per una estensione della necrosi pancreatica e peripancreatica di vario grado, non invariabilmente associata a fenomeni emorragici. Il suo andamento clinico è sempre grave e la mortalità ancora estremamente elevata.

 

 

FENOMENI SISTEMICI

 

Durante una pancreatite acuta non complicata si verifica un sequestro di liquidi negli spazi extracellulari in media di circa 2 litri, prevalentemente localizzati nella retrocavità degli epiploon. L'essudazione avviene anche a livello del tessuto retropancreatico e degli spazi prerenali.

Questa marcata ipovolemia iniziale, unita al rapido riassorbimento di chinine, zimogeni attivati e prodotti tossici a basso peso molecolare, determinano nel 10-15% dei pazienti un quadro di compromissione generale dell'organismo che va sotto il nome di sindrome di insufficienza multiviscerale o MOF (MultipleOrgan-Failure Syndrome), caratteristica della pancreatite acuta severa.

 

Molte delle alterazioni sistemiche osservate sono spiegabili o quanto meno precipitate dall'ipovolemia.

A livello cardiovascolare, il quadro clinico è infatti dominato dall'ipotensione e dallo stato di shock, con acidosi metabolica da ipoperfusione.

Dal punto di vista fisiopatologico, la prima fase della pancreatite presenta un quadro di ipovolemia con bassa gittata, aumento delle resistenze periferiche ed elevata estrazione periferica di O2. Con il riequilibrio della massa circolante, si assiste ad una fase iperdinamica, con diminuite resistenze periferiche e dell'estrazione di O2.

L'azione degli enzimi pancreatici sulla funzione cardiaca non è stata ancora completamente studiata.

L'effettivo ruolo di un "myocardial depressant factor" (MDF) in corso di pancreatite acuta resta invece da determinare; recenti studi sperimentali sembrerebbero confermare che gli effetti sulla funzione cardiovascolare sono secondari alla diminuzione del volume circolante e non ad una disfunzione cardiaca intrinseca. Del resto, non sono state evidenziate alterazioni istologiche del miocardio in pazienti deceduti per pancreatite acuta, mentre la sostanza ritenuta il MDF è stata isolata dal siero di pazienti in shock ipovolemico ma non da soggetti con pancreatite acuta severa.

L'insufficienza renale è la più frequente manifestazione della pancreatite acuta grave dopo l'ipovolemia. L'oliguria può persistere per 3-8 giorni. La sua genesi è multifattoriale: vi concorrono infatti il deficit di perfusione parenchimale, microtrombi secondari ad una coagulazione intravasale disseminata, emboli adiposi e probabilmente un danno diretto sul nefrone da parte delle proteasi attivate. L'alterata funzione renale è stata invocata per giustificare l'ipertensione che compare in alcuni pazienti durante le prime 48-72 ore.

Nel 5-10% dei casi si manifesta una vera e propria insufficienza respiratoria. Un'alterazione della membrana alveolocapillare è alla base di questo fenomeno, che chiama in causa un danno diretto ad opera di radicali liberi ed un'azione indiretta della fosfolipasi A sul surfattante.

Anche l'instaurarsi di shunt intrapolmonari causati da microtrombi può giustificare in parte l'ipossiemia.

La necessità di ricorrere alla ventilazione meccanica è associata ad una mortalità fino al 75%.

Anche l'ipocalcemia severa, universalmente accettata come indice prognostico sfavorevole della pancreatite acuta grave, potrebbe rappresentare un epifenomeno della MOF.

Le complicanze emorragiche extrapancreatiche in corso di pancreatite acuta si verificanonel5-7% dei pazienti. Si tratta quasi sempre di enterorragie da lesioni acute da stress gastroduodenali. La DIC conclamata è rara, mentre nei quadri ad evoluzione più sfavorevole può verificarsi un emoperitoneo per erosione di vasi peripancreatici, a prognosi gravissima.

Nel 10-15% dei pazienti, compaiono disturbi del sensorio di vario grado, definiti "encefalopatia pancreatica". Dal punto di vista patogenetico, sembra sostenibile l'ipotesi di un ruolo tossico degli enzimi circolanti associata ad alterazioni del microcircolo cerebrale.In pazienti deceduti per coma, l'esame autoptico ha rivelato una degenerazione lipolitica del SNC, soprattutto a livello del ponte.

 

 

Diagnosi

 

Di fronte ad un paziente che presenti il sospetto di pancreatite acuta, il medico deve essere in grado di risolvere in successione quattro principali problemi:

- confermare la diagnosi di pancreatite acuta, escludendo le altre patologie addominali che possono simularne il quadro clinico;

- identificarne la causa, in particolare la presenza di una patologia biliare associata;

- valutare la gravità della malattia;

- individuare precocemente la comparsa di complicanze.

 

 

QUADRO CLINICO

 

Il quadro clinico della pancreatite acuta è relativamente aspecifico ed estremamente vario per gravità. Ciò rende talora particolarmente difficile la diagnosi. Il dolore è presente nella quasi totalità dei casi.

Ha inizialmente i caratteri del dolore viscerale puro, dovuto alla distensione della capsula pancreatica ed alla stimolazione delle terminazioni retropancreatiche. La localizzazione epigastrica è costante e questa resta la sede di maggiore intensità anche quando il quadro si modifica per gravità. le irradiazioni possono essere varie, oltre alla più tipica disposizione "a barra". Nel 50% vi è irradiazione dorsale.

Caratteristiche utili per una diagnosi differenziale sono la rapidità di insorgenza (tuttavia non paragonabile alla perforazione di un viscere cavo), l'elevata intensità, che subisce solo modeste o nulle variazioni nel tempo, e la difficoltà del paziente ad assumere una posizione antalgica efficace (paragonabile a quanto si verifica nella colica renale). La sintomatologia dolorosa si prolunga in genere oltre le 24 ore. La sua remissione è graduale, ciò che può differenziarla da una colica biliare.

L'80% dei pazienti lamenta nausea e vomito, per lo più di tipo riflesso.   È rara la presenza di una componente ostruttiva duodenale o gastrica.

Un discreto rialzo termico (38-38,5°C) è comune.

Nelle fasi più avanzate esso deve fare sospettare una complicanza respiratoria o una sepsi. L'esame clinico rivela un impegno generale del paziente, che può mancare nelle forme più lievi. I parametri vitali dimostrano i segni dell'ipovolemia. In circa il 30% dei pazienti compare entro 48 ore un ittero od un subittero sclerale.

All'esame obiettivo, l'addome si presenta generalmente modicamente disteso per meteorismo. Nelle forme lievi è trattabile, senza risentimento parietale. Può essere apprezzabile un senso di occupazione epigastrica, senza che sia apprezzabile una vera massa. Una contrattura di difesa dei quadranti superiori con segno di Blumberg positivo è un segno relativamente costante nella pancreatite acuta medio-grave. La contrattura non è comunque così pronunciata come nella peritonite da perforazione gastro-duodenale. La peristalsi è generalmente assente.

Ecchimosi sui fianchi (segno di GreyTurner) e in regione periombelicale (segno di Cullen) sono raramente osservate e comunque solo nelle forme iper-acute necrotico-emorragiche.

Nella pancreatite acuta grave, si aggiungono i segni ed i sintomi propri della compromissione multiviscerale, già descritta in precedenza.

 

 

ESAMI EMATOCHIMICI

 

La diagnosi di pancreatite acuta resta ancor oggi legata al riscontro di un innalzamento della concentrazione serica delle amilasi.

Poche diagnosi cliniche si fondano così strettamente sul risultato di un singolo test. Le altre modificazioni bioumorali riscontrabili nelle fasi iniziali della pancreatite acuta (emoconcentrazione, iperleucocitosi, ipocalcemia, indici enzimatici di necrosi) sono infatti di per se non indicative.

Il dosaggio delle amilasi plasmatiche è tuttavia un esame sensibile ma poco specifico. Infatti altre patologie acute addominali, quali la perforazione di ulcera poptica, la colocistite acuta, la peritonite, l'infarto intestinale, possono associarsi ad un moderato rialzo delle amilasi seriche, ponendo seri problemi di diagnosi differenziale.

 

In questi casi, comunque, i valori di amilasemia sono in genere moderati (3 00600 UI/1) e l'incremento non è così precoce come nella pancreatite acuta.

Un'altra condizione particolare è rappresentata dai pazienti etilisti. Una modesta iperamilasemia si riscontra infatti nel 9-39% di questi soggetti, in assenza di sintomi evocatori di pancreatite acuta. Questo aumento è però in gran parte a carico delle isoamilasi salivari.

Nella tab.02x vengono elencate le condizioni che possono accompagnarsi ad un'iperamilasemia.

Va ricordato che, come per le transaminasi nell'epatite fulminante, sono descritti casi di pancreatite acuta con necrosi massiva senza alcun rialzo delle amilasi plasmatiche. Eccetto che in questi rari casi, la pancreatite acuta è quindi quasi sempre accompagnata da un'iperamilasemia. Valori normali di amilasi possono tuttavia essere riscontrati in pazienti che giungano all'osservazione due o più giorni dopo l'esordio dei sintomi. I livelli decrescono infatti rapidamente, specie nelle forme lievi, cosicché buona parte dei pazienti hanno valori normali entro 48 ore. Anche soggetti etilisti che presentino episodi acuti di pancreatite possono talora mostrare valori normali di amilasemia, probabilmente a causa dell'insufficienza esocrina legata alla pancreatite cronica sottostante.

Il dosaggio delle amilasi può inoltre aiutare nella formulazione della diagnosi di pancreatite acuta biliare con buona approssimazione. In questa eventualità i valori possono superare anche le 12001400 UI/l, mentre nelle altre forme di pancreatite acuta è del tutto eccezionale osservare concentrazioni superiori a 1000 UI/l.

La determinazione delle isoamilasi-P può accrescere la specificità del test. Fisiologicamente, le isoamilasi salivari (S) rappresentano il 60% del totale. le isoamilasi-P si ritrovano soltanto nel tessuto pancreatico. In urgenza, tuttavia, il loro impiego è poco diffuso, anche perché non permette di differenziare la pancreatite acuta dalle altre patologie addominali che si associano ad iperamilasemia.

Una elevata concentrazione di amilasi (isoamilasi-P) viene riscontrata nelle urine di pazienti affetti da pancreatite acuta, a causa della loro aumentata clearance renale. Lo stesso fenomeno non si verifica quando l'iperamilasemia è dovuta ad altre cause.

Su questa base si fonda il test del rapporto tra clearance delle amilasi e della creatinina nella diagnosi di pancreatite acuta. Tuttavia, poiché il test è inaffidabile quando la pancreatite acuta si associ ad insufficienza renale, non sembra attualmente che questo esame possa aumentare le possibilità diagnostiche.

Anche i livelli plasmatici di lipasi si innalzano quasi costantemente nei pazienti con pancreatite acuta. Il loro decremento è più lento di quanto avvenga per le amilasi. La lipasi non è escreta con le urine, per cui la sua clearance non è misurabile. Il suo valore diagnostico è paragonabile a quello del dosaggio delle amilasi.

La metemalbamina (un complesso albumina-ematina) compare entro 72 ore dall'esordio della malattia e non è dosabile nelle pancreatiti acute edematose. Proposta come marker specifico della pancreatite acuta emorragica, la sua specificità è molto bassa (27%) se si considerano tutte le pancreatiti acute severe.

 

 

DIAGNOSTICA STRUMENTALE

 

Una radiografia dell'addome senza mezzo di contrasto deve essere sempre eseguita di fronte al sospetto di una pancreatite acuta. Sebbene i segni radiologici di pancreatite acuta siano per lo più aspecifici, il valore dell'esame è soprattutto legato alla possibilità di escludere altre patologie acute addominali (perforazione, infarto mesenterico, occlusione intestinale). Possono indirizzare verso la conferma della diagnosi la scomparsa mono o bilaterale del profilo degli psoas, la presenza della cosiddetta "ansa sentinella" (dovuta alla paresi delle prime anse digiunali) proiettata nell'addome superiore di sinistra, la dilatazione del colon destro (per uno spasmo riflesso del trasverso) o, al contrario, una distanza superiore a 3 cm fra lo stomaco ed il colon trasverso dilatati, per l'aumento del volume pancreatico e/o la presenza di essudato nella retrocavità.

L'impiego della ecotomografia per la documentazione morfologica del pancreas è limitato dal meteorismo, dall'obesità e dalla diminuzione stessa dell'ecogenicità della ghiandola in corso di pancreatite acuta, che ne impedisce talora la differenziazione dalle strutture circostanti.

Tuttavia, grazie anche ad alcuni artifici tecnici (aspirazione naso-gastrica, riempimento gastrico con acqua), in circa il 50-70% dei casi è possibile ottenere informazioni utili. I caratteri ecografici da ricercare sono l'aumento di volume, la diminuzione dell'ecogenicità, l'eventuale presenza di colate flogistiche, la presenza di una patologia biliare associata ed il calibro della via biliare. La sua ripetibilità la rendono comunque indispensabile per seguire l'evoluzione morfologica delle lesioni.

La TAC è sicuramente ritenuta l'esame di scelta per la diagnosi morfologica della pancreatite acuta. La sua importanza è accresciuta dalla recente dimostrazione del suo elevato potere predittivo sulla prognosi a distanza della malattia.

I tre parametri principali da considerare sono l'aumento delle dimensioni dell'organo, le variazioni di densità intraparenchimali e la presenza di raccolte extrapancreatiche. Nelle forme edematose, si ha in genere un aumento di volume e una diminuzione dell'indice di attenuazione, mentre i margini appaiono sfumati.

L'esecuzione di una TAC entro 24-36 ore dal ricovero si impone in tutti i pazienti con una pancreatite acuta moderata 0 severa. Il quadro ottenuto, oltre a fornire la mappa attuale delle lesioni anatomiche a carico del pancreas e degli organi adiacenti, costituisce la linea-guida per valutarne la successiva evoluzione.

Sono state proposte alcune classificazioni dei quadri densitometrici osservabili. Una delle più semplici è quella di Nordstergaard riportata nella tab.03x.

Nei pazienti che alla TAC iniziale dimostrino più di un semplice aumento di volume pancreatico (edema), l'esame dovrebbe essere ripetuto ad intervalli di una-due settimane, per monitorare le modificazioni dell'anatomia ed identificare precocemente le complicanze (fig.03xa/b).

La sensibilità della TAC nel dimostrare la presenza di necrosi pancreatica è accresciuta dalla valutazione dell'enhancement parenchimale. Il mezzo di contrasto endovenoso non evidenzia le zone necrotiche non perfuse del pancreas e dei tessuti peripancreatici, mentre opacizza le aree ancora vitali. Il dato più utile fornito dalla TAC è quindi il riconoscimento della necrosi e delle raccolte fluide pancreatiche e peripancreatiche, la cui evoluzione settica è la maggiore responsabile della elevata mortalità delle pancreatiti acute severe.

 

 

Criteri prognostici

 

In considerazione dell'estrema variabilità di presentazione ed evoluzione della malattia, l'interesse degli studi clinici si è rivolto alla ricerca di indici prognostici efficaci per individuare le forme ad andamento più sfavorevole. I vantaggi di questa impostazione sono evidenti: l'instaurazione di un trattamento corretto e di un monitoraggio adeguato, la riduzione dei costi, l'eventuale trasferimento in Centri idonei solo per i pazienti che realmente lo necessitino, la stadiazione della malattia e la conseguente confrontabilità dei risultati ottenuti con differenti protocolli terapeutici.

 

La gravità dell'episodio di pancreatite acuta è valutabile mediante tre ordini di criteri: clinici, bioumorali, strumentali.

Gli indici clinico-anamnestici di severità della malattia sono certamente i meno affidabili, poiché inevitabilmente risentono di una valutazione soggettiva.

Dal punto di vista anamnestico, la mortalità diminuisce nei pazienti che abbiano già presentato episodi di pancreatite acuta, mentre non varia in modo significativo a seconda dell'eziologia se si eccettua la pancreatite acuta postoperatoria, la cui mortalità è nettamente superiore alle altre forme di pancreatite acuta. Studi prospettici hanno dimostrato che questi indici da soli permettono di identificare solo il 34-39% degli episodi di pancreatite acuta severa.

La valutazione multiparametrica proposta da Ranson nel 1974 rappresenta il primo tentativo di correlare le alterazioni bioumorali alla prognosi della malattia.In effetti, tale correlazione è stata confermata da successivi studi: nel gruppo di pazienti che presentano uno score <2, la mortalità è inferiore all'1%, mentre nel gruppo con 7 o più criteri positivi è del 100%. Sulla base di questi dati, le pancreatiti acute vengono classificate in lievi (<2), moderate (3-5) e gravi (>5).

L'adozione di differenti scale parametriche proposte successivamente (ImrieGlasgow, 1979; Hollender, 1983; Apache II, 1989) non ha permesso di migliorare la capacità predittiva dei criteri di Ranson, che supera il 90%, i quali restano a ragione il riferimento più utilizzato.

Per i singoli pazienti, questa valutazione permette di identificare coloro che hanno un'alta probabilità di sviluppare complicanze gravi e che necessitano quindi di un monitoraggio intensivo.

Anche l'analisi quantitativa e qualitativa dell'essudato peritoneale, ottenuto mediante paracentesi e lavaggio peritoneale, contribuiscono alla valutazione prognostica del paziente affetto da pancreatite acuta. I segni di pancreatite acuta severa sono: la presenza di più di 20 cc di essudato (indipendentemente dal suo colore), l'aspirazione di almeno 10 cc di liquido di colore bruno o il riscontro di un liquido di lavaggio più scuro di un colore paglierino. Con questa metodica la gravità della pancreatite acuta può essere stabilita entro poche ore nel 55-70% dei casi. L'incidenza di complicanze direttamente legate alla manovra è dello 0,8%. La sua utilità, infine, è accresciuta dalla possibilità di una diagnosi differenziale con altre patologie addominali acute.

L'uso precoce e seriato della TAC è l'indice prognostico di più recente introduzione e di maggiore affidabilità. La classificazione delle lesioni non è ancora omogenea, ma sulla sua utilità tutti sono concordi. Il suo potere predittivo sembra aumentare dall'interpretazione combinata con la scala multiparametrica di Ranson.

 

 

Evoluzione e complicanze

 

L'evoluzione della pancreatite acuta varia dalla risoluzione spontanea nelle forme lievi alla necrosi massiva nelle forme fulminanti.

La mortalità globale si attesta oggi attorno al 20% oscillando dallo 0-3 % delle pancreatiti edematose, al 40-50% delle forme severe ed all'85-100% delle olopancreatiti necrotico-emorragiche.

Nelle fasi precoci, lo shock e l'insufficienza respiratoria sono responsabili del 70% dei decessi.

Tardivamente, prevalgono la sepsi (20%), l'insufficienza renale (14%) e le enterorragie (13%).

Se si eccettuano le alterazioni multiviscerali della MOF, le complicanze a distanza sono dovute all'evoluzione delle raccolte fluide e necrotiche pancreatiche e peripancreatiche. Il monitoraggio delle lesioni con la TAC ha dimostrato che queste raccolte si riassorbono spontaneamente nella metà circa dei casi.

Quando ciò non accade, il loro destino è verso la cronicizzazione con formazione di una pseudocisti necrotica o la sovrainfezione, che si manifesta sotto forma di necrosi pancreatica infetta o di vero e proprio ascesso pancreatico.

Una pseudocisti si sviluppa nel 10-20% dei casi dopo una pancreatite acuta. la sua risoluzione spontanea si verifica in oltre il 60% dei pazienti entro 4-6 settimane quando il diametro è inferiore a 4 cm, mentre la percentuale di regressioni spontanee scende al 20% per pseudocisti con diametro superiore a 4 cm.

Anche la pseudocisti può andare incontro a sovrainfezione nel 15% circa dei casi. Molto più rare sono la rottura e l'emorragia intracistica.

Gli ascessi pancreatici e l'infezione di aree necrotiche e di colliquazioni peripancreatiche sono certamente la complicanza più temibile a distanza dall'episodio acuto. La diagnostica di questo tipo di raccolte si è notevolmente affinata grazie alla introduzione del monitoraggio densitometrico ed alla possibilità di eseguire un'aspirazione percutanea eco- o TAC-guidata.

 

 

Terapia

 

TRATTAMENTO MEDICO

 

La terapia conservativa è fondamentalmente indirizzata al controllo dei sintomi ed al riconoscimento e trattamento precoce delle complicanze sistemiche.

Della massima importanza è il monitoraggio fisiologico del paziente, che richiede la valutazione accurata di una serie di parametri clinico-bioumorali. Tale monitoraggio è di particolare rilievo in caso di pancreatite acuta severa, dove massime sono le alterazioni fisiopatologiche e più grave la prognosi.

Sulla base di queste conoscenze, è necessario monitorare altre ai consueti parametri vitali ed ai test di laboratorio, la pressione venosa centrale e la diuresi oraria, per una valutazione più obiettiva del ripristino della volemia.

Nei pazienti più compromessi, il catetere di Swan-Ganz permette aggiustamenti terapeutici più corretti.

L'emogasanalisi arteriosa deve essere eseguita ogni 6-12 ore per almeno 2-3 giorni e fino a chiari segni di miglioramento. la comparsa di una insufficienza respiratoria grave, unita ad una compromissione dello stato di coscienza (da obiettivare mediante lo score della Glasgow Coma Scale), rappresentano le manifestazioni sistemiche che maggiormente indicano una evoluzione sfavorevole della malattia.

Dal punto di vista pratico, la terapia medica mira a reintegrare fluidi ed elettroliti, trattare il dolore e l'ileo associati, fornire un supporto nutrizionale e prevenire la sepsi.

Un'adeguata terapia infusionale è il cardine della terapia nelle fasi iniziali della malattia. lo shock ipovolemico è la principale causa di decesso precoce in corso di pancreatite acuta.

L'infusione di volumi anche notevoli di soluzioni cristalloidi è in genere sufficiente per il riequilibrio della massa circolante. Il mantenimento di un'adeguata pressione oncotica mediante soluzioni colloidali o l'aggiunta di albumina umana, come sostenuto da alcuni, non sembra in realtà offrire vantaggi.

Le trasfusioni possono essere necessarie nei casi di pancreatite emorragica, mentre il plasma fresco congelato viene utilizzato solo per correggere una eventuale coagulopatia.

Il digiuno riduce al minimo gli stimoli alla secrezione pancreatica, principalmente il rilascio di colecistochinina.

Esso va mantenuto fino a normalizzazione degli indici biochimici di attività della malattia. Una rialimentazione precoce può infatti accompagnarsi ad una ripresa dei processi infiammatori. la ripresa dell'alimentazione orale avviene entro la settima giornata dall'esordio nell'80% dei pazienti con Ranson <1. Deve essere intrapresa una dieta rigorosamente ipolipidica.

 

Soprattutto dopo pancreatite acuta severa, infatti, il quadro tomodensitometrico dimostra alterazioni morfologiche del pancreas anche per settimane o mesi dopo la completa remissione clinica e biochimica, e su queste potrebbe innescarsi una riaccensione del processo pancreatitico.

L'aspirazione naso-gastrica, prevenendo l'acidificazione del duodeno ed il rilascio di secretina, dovrebbe ridurre ulteriormente la stimolazione pancreatica.

Nonostante gli studi controllati disponibili non dimostrino un miglioramento significativo sull'andamento della malattia, il posizionamento di un sondino nasogastrico in aspirazione è comunque utile per il trattamento della nausea, del vomito, dell'ileo paralitico e della distensione addominale e talora anche del dolore. la misura della componente gastrica dei liquidi sequestrati è inoltre importante per il riequilibrio idroelettrolitico.

Il suo impiego è pertanto una pratica quasi universalmente accettata.

L'uso dei farmaci anti-H2 mira a ridurre il volume della secrezione gastrica ed alla profilassi delle lesioni acute da stress. Non è tuttavia dimostrata la sua efficacia diretta sulla pancreatite.

Il controllo del dolore necessita quasi sempre di un analgesico maggiore, che non induca lo spasmo dello sfintere di Oddi (meperidina, pentazocina). La sedazione del dolore può contribuire ad inibire la secrezione pancreatica, bloccando riflessi centrali ed evitando l'instaurarsi di alterazioni riflesse microcircolatorie a livello pancreatico.

L'uso sistematico degli antilsiotici a scopo profilattico è ancora oggetto di controversie. Tre studi randomizzati non hanno dimostrato l'efficacia dell'ampicillina e di una cefalosporina nel ridurre la gravità della malattia e le sue complicanze. Nelle forme gravi (Ranson >3), tuttavia, è opportuna la loro somministrazione per ridurre l'incidenza di complicanze settiche extrapancreatiche. A favore dell'antibiotico-profilassi sono anche le evidenze di colture biliari positive in un terzo dei pazienti operati per pancreatite acuta biliare entro 48 ore dall'esordio dei sintomi.

La nutrizione parenterale totale (NPTl è sicuramente indicata nei pazienti che necessitino di un prolungato digiuno (superiore ad una settimana) o per il trattamento di una complicanza.   È stato dimostrato che un bilancio azotato negativo si correla significativamente ad una più elevata mortalità.

Sembra ragionevole introdurre il supporto calorico dalla 5a-6a giornata di malattia. L'uso di emulsioni lipidiche non è controindicato, neppure nelle pancreatiti acute associate ad ipertrigliceridemia.

Numerosi farmaci ad azione inibente sulla secrezione pancreatica sono stati via via sperimentati: aprotinina, glucagone, calcitonina, anticolinergici, somatostatina ecc.

Nessuno degli studi controllati disponibili ha dimostrato la loro utilità nel migliorare la prognosi della pancreatite, malgrado il loro impiego si fondi su un solido razionale.   È possibile che il pancreas interessato dal processo flogistico alteri profondamente le sue capacità di risposta agli stimoli inibitori.

L'efficacia della somatostatina, ultima nata nel campo degli inibitori pancreatici, è documentata per quanto concerne la riduzione del dolore e la diminuzione dei valori amilasemici, che si verificano più rapidamente nei pazienti trattati. Resta ancora da dimostrare la sua effettiva utilità per quanto riguarda la prognosi della malattia. I primi dati sperimentali relativi all'impiego dell'analogo di sintesi della somatostatina (octreotide), sono per il momento ancora incerti, anche se fortemente suggestivi.

 

 

LAVAGGIO PERITONEALE

 

Il lavaggio peritoneale è stato proposto con lo scopo di ridurre l'assorbimento di enzimi e sostanze tossiche. Numerosi studi sperimentali ne hanno confermato l'efficacia. In clinica, la sua utilità sembra dimostrata per quanto riguarda il miglioramento delle funzioni cardiocircolatorie, respiratoria e renale. Non si riscontra tuttavia alcuna diminuzione della mortalità legata alla sepsi in caso di pancreatite acuta severa.

Ciò è probabilmente legato al fatto che la principale via di riassorbimento sistemico di enzimi e tossine è rappresentata dai linfatici retroperitoneali, inaccessibili al liquido di lavaggio nell'uomo (ma non negli animali utilizzati nelle sperimentazioni, la cui anatomia non ricalca quella umana).

L'osservazione che il lavaggio peritoneale non riduce i livelli di amilasemia è congruente con questa teoria.

Un approccio chirurgico che consenta anche il drenaggio-lavaggio degli spazi retroperitoneali è divenuto un atteggiamento corrente di alcune Scuole chirurgiche, con risultati promettenti.

 

 

TRATTAMENTO CHIRURGICO

 

Il trattamento chirurgico della pancreatite acuta pone numerosi e talora ancora irrisolti problemi di indicazione, timing e tattica operatoria.

Nel 5% dei casi, l'intervento viene intrapreso con finalità diagnostiche. La laparotomia esplorativa, sebbene sembri leggermente aumentare la morbilità e mortalità della malattia, rappresenta un'indicazione indiscussa, considerata la prognosi e l'efficacia della chirurgia nei confronti delle patologie acute addominali che vengono poste in diagnosi differenziale.

La chirurgia trova inoltre giustificazione quando insorgano complicanze settiche precoci e di fronte ad un deterioramento delle condizioni del paziente, non compensato da una adeguata terapia intensiva. Questo sembra l'orientamento prevalente della maggior parte degli Autori, malgrado le controversie riguardo ad un atteggiamento più aggressivo non siano del tutto chiarite.

In particolare, il problema si pone per quanto concerne la necrosi pancreatica ed il trattamento della eventuale patologia biliare associata.

Nella convinzione che la durata dell'ostruzione papillare rappresentasse il fattore più importante nell'evoluzione sfavorevole di una pancreatite acuta biliare, alcuni Autori hanno propugnato l'opportunità di un intervento precoce (entro 48 ore) sulla via biliare, sia chirurgico (papillosfinterotomia e colecistectomia) sia endoscopico.

Nella maggior parte delle esperienze, tuttavia, la chirurgia precoce ha mostrato di aumentare mortalità e morbilità, soprattutto nelle pancreatiti acute severe.

Si va quindi consolidando l'orientamento di eseguire la sola colecistectomia nel momento in cui il paziente abbia recuperato un discreto equilibrio emodinamico, preferibilmente durante il medesimo ricovero (anche per il rischio non trascurabile di una nuova poussée di pancreatite acuta).

La papillotomia endoscopica e, in seconda istanza, l'intervento diretto sulla via biliare, vanno riservati ai casi con documentata ostruzione papillare completa.

La necrosi pancreatica può essere letale anche in assenza di infezione. Alcuni chirurghi, pertanto, hanno sostenuto l'opportunità di interventi precoci di necrosectomia o addirittura l'utilità di resezioni pancreatiche estese.

Il razionale di questi interventi nel trattamento della pancreatite acuta è la possibilità di una evoluzione dei focolai flogistici nel pancreas residuo apparentemente normale. Tuttavia, la mortalità dopo resezione pancreatica è in questo caso estremamente elevata (40% per le resezioni distali, oltre il 50% per le pancreasectomie totali e le duodenocefalopancreasectomie). Il loro impiego è stato pertanto praticamente abbandonato.

 

In una percentuale limitata di pazienti, che non rispondono alla terapia conservativa e nei quali la TAC dimostri la presenza di necrosi estese (a maggior ragione se queste si dimostrino infette dopo esame batteriologico dell'agoaspirato), l'intervento rappresenta attualmente l'unica possibilità per invertire l'andamento della malattia.

L'ablazione chirurgica delle zone necrotiche (sequestrectomia) va comunque fatta seguire da un ampio drenaggio della loggia pancreatica, così da consentire la fuoriuscita dei frammenti necrotici non asportabili chirurgicamente.

Nelle forme più gravi, quando il chirurgo constati la elevata probabilità di una evoluzione dei fenomeni flogistici o ragioni tecniche impediscano la rimozione di tutte le aree necrotiche, può essere attuato il cosiddetto trattamento aperto.

In questi casi, la ferita laparotomica non viene suturata ma coperta con una rete di materiale eterologo, apribile mediante una semplice cerniera-lampo o Velcro. Altri Autori preferiscono zaffare la cavità con grosse compresse di garza o ricoprire l'addome con una pellicola plastica. Questo procedimento, seppure non scevro di complicanze, permette di operare successive revisioni della cavità addominale (in genere ogni 2-3 giorni) e un completo drenaggio degli essudati.

La stessa tecnica è stata adottata per il trattamento degli ascessi pancreatici multipli. I risultati sono complessivamente positivi, anche in considerazione della gravità dei pazienti trattati.

Il trattamento degli ascessi pancreatici prevede infatti il drenaggio chirurgico delle raccolte con ampio sbrigliamento delle zone necrotiche. L'aspirazione e drenaggio percutaneo è in queste forme di grande utilità diagnostica, ma solo in casi particolarmente selezionati può essere proposto come trattamento definitivo. Vi sono comunque segnalazioni recenti di guarigioni di ascessi pancreatici trattati con drenaggio percutaneo, soprattutto quando la complicanza si manifesti in pazienti stabilizzati a considerevole distanza dall'episodio acuto (fig.07xa/b).

Questo tipo di trattamento sta invece modificando l'atteggiamento terapeutico per quanto riguarda le pseudocisti pancreatiche. Per pseudocisti a rapido accrescimento, con diametro maggiore di 4 cm, infette e che non regrediscano dopo 6 settimane dalla comparsa, il drenaggio percutaneo si è infatti dimostrato estremamente efficace, in grado di ottenere la guarigione definitiva della complicanza in un'alta percentuale di casi.

Esso si può oggi considerare a ragione il trattamento di scelta della maggior parte delle pseudocisti post-necrotiche. La terapia chirurgica trova comunque ancora la sua indicazione quando, a distanza dall'episodio acuto, le dimensioni della massa comportino una dislocazione importante dei visceri circostanti, una compressione dell'albero biliare (fig.08x) oppure, sempre, in caso di emorragia intracistica e rottura.

 

 

LA PANCREATITE CRONICA

 

La pancreatite cronica è una affezione della ghiandola pancreatica caratterizzata dalla progressione di alterazioni distruttive irreversibili a carico del parenchima esocrino ed endocrino, con fenomeni riparativi evolventi verso la sclerosi del parenchima stesso.

Tale affezione viene classificata in due forme principali: calcifica e ostruttiva. L'eziologia della prima forma è legata essenzialmente al consumo cronico di alcool e/o alla malnutrizione. Le forme ostruttive sono quelle nelle quali il danno parenchimale è legato ad un ostacolo lungo la via escretrice pancreatica, rappresentato da varie patologie quali neoplasie, odditi, sclerosi duttali post- pancreatite acuta. Oltre a queste forme si riconoscono le cosiddette pancreatiti croniche idiopatiche che, nel mondo occidentale, raggruppano circa il 5 % dei casi. Forme più rare sono quelle legate all'iperparatiroidismo o la forma familiare ad esordio precoce.

 

 

Patogenesi e fisiopatologia

 

La maggior parte delle pancreatiti croniche sono inquadrabili nelle forme "calcifiche", la cui caratteristica principale è rappresentata dalla presenza di precipitati intracanalari proteici a vario contenuto di carbonato di calcio. Questi precipitati, che sono alla base del danno duttale e quindi parenchimale esocrino, determinano una distribuzione multifocale delle lesioni, elemento distintivo importante nei confronti del secondo gruppo nosologico di pancreatiti croniche, cioè quello delle forme ostruttive. Qui, un ostacolo isolato su un dotto pancreatico, quali una neoplasia o una stenosi duttale cicatriziale, determina un processo infiammatorio settoriale con distribuzione uniforme delle lesioni a carico del parenchima pancreatico a monte dell'ostacolo. Le due forme di pancreatite cronica, calcifica e ostruttiva, si distinguono dunque nettamente per patogenesi ed evoluzione topografica.

Nella forma calcifica, il danno sul parenchima esocrino determina l'attivazione di processi riparativi in senso sclerotico che coinvolgono diffusamente la ghiandola ed i tessuti perighiandolari. Si verificano inoltre modificazioni del tessuto nervoso, caratterizzabili in una lesione del perinevrio e nell'aumento del numero e diametro delle fibre nervose peripancreatiche, cui sarebbe in parte legata la genesi del dolore da pancreatite cronica. La presenza dei precipitati endocanalari (fig.09x) determina la lesione dell'epitelio dei dotti, l'aumento di volume della ghiandola con dilatazione del sistema duttale pancreatico e la comparsa di uno stato ipertensivo al suo interno, al quale è pure correlabile l'insorgenza della sintomatologia dolorosa. La dilatazione dei dotti pancreatici può arrivare al punto di configurarsi come cisti vere ossia in una marcata dilatazione rotondeggiante di un dotto (fig.10x) la cui rottura all'esterno della ghiandola è alla base della comparsa delle pseudocisti ritenzionali (fig.11x), complicanza di frequente riscontro nelle pancreatiti croniche calcifiche in stadio avanzato.

Vi sono dunque elementi anatomopatologici distintivi e caratteristici delle pancreatiti croniche calcifiche rappresentati dalla presenza dei precipitati proteici, dalla sclerosi tissutale e dalla dilatazione del sistema duttale, cui possono associarsi, in corso di fenomeni acuti sovrapposti, lesioni caratteristiche del processo acuto, quali edema e necrosi emorragica. I fenomeni sclerotici, oltre ad interessare direttamente la ghiandola, coinvolgono le strutture anatomiche circostanti rendendosi responsabili sia delle frequenti stenosi dell'albero biliare, sia delle implicazioni vascolari della pancreatite cronica.

 

 

Clinica e storia naturale

 

A questo quadro anatomopatologico, corrispondono sia un'alterazione della funzionalità ghiandolare che si esprime nell'insufficienza pancreatica esocrina, con conseguente malassorbimento e steatorrea, ed endocrina, con intolleranza glucidica, sia una sintomatologia specifica caratterizzata sostanzialmente dal dolore pancreatico e dal calo ponderale.

Clinicamente, infatti, la pancreatite cronica che interessa solitamente soggetti giovani, maschi ed alcolisti, è caratterizzata dalla comparsa di dolore addominale che si manifesta con crisi prolungate della durata anche di giorni, a sede nei quadranti addominali superiori più frequentemente in epigastrio, con marcata irradiazione dorsale. Tale sintomatologia condiziona spesso il calo ponderale caratteristico di questa patologia, che diventa via via più Importante in occasione degli episodi di riacutizzazione del dolore. Il calo ponderale ritrova la sua causa anche nel malassorbimento da insufficienza esocrina e nel diabete da compromissione endocrina.

 

L'interessamento sclerotico delle strutture peripancreatiche può poi condizionare la comparsa di altri segni e sintomi quali, da una parte, l'ittero da stasi per stenosi della porzione intrapancreatica della via biliare principale, e dall'altra le manifestazioni cliniche dell'ipertensione portale segmentaria causata dalla sclerosi compressiva del sistema portale.

La presenza di cisti pancreatiche ritenzionali e di pseudocisti post-necrotiche, nelle forme di pancreatite cronica in stadio avanzato, può condizionare la comparsa di quadri sintomatologici caratteristici di queste formazioni, che possono rappresentare l'indicazione all'intervento chirurgico, dal momento che le cisti pancreatiche ritenzionali hanno scarsa tendenza alla risoluzione spontanea (fig.12x).

Al contrario esse possono essere la causa di un aggravamento della sintomatologia dolorosa ed essere responsabili di un decorso atipico nell'evoluzione della pancreatite cronica stessa. In realtà, se si esclude questo gruppo di pazienti, si possono identificare, in base alla sintomatologia dolorosa, due gruppi di soggetti affetti da pancreatite cronica: da una parte quelli in cui la storia naturale della malattia è caratterizzata da episodi transitori di dolore inframezzati da pause libere; dall'altra quelli in cui la malattia ha un decorso senza dolore o con una sintomatologia algica che, con il tempo ed in concomitanza con l'aggravamento e quindi l'esaurirsi della funzione esocrina, tende a scomparire come in effetti accade in circa il 60% dei casi. La presenza di una sintomatologia dolorosa con caratteristiche diverse da quelle sopra esposte deve far pensare ad una complicanza locale quale quella cistica.

La storia naturale della pancreatite cronica è dunque caratterizzata all'esordio da una fase clinicamente silente, cui fa seguito la comparsa di episodi di dolore addominale transitorio, spesso inquadrati inizialmente come forme di pancreatite acuta ricorrente in quanto, nelle fasi precoci, le alterazioni della funzionalità pancreatica sono spesso non rilevabili al di fuori della crisi. Solo l'esecuzione di test seriati permette di classificare correttamente il processo patologico come forma cronica. Il progredire dei fenomeni distruttivi a carico del parenchima pancreatico porta da una parte alla comparsa dei segni di insufficienza esocrina ed endocrina ad aggravamento progressivo, e dall'altra alla frequente remissione spontanea della sintomatologia dolorosa, in percentuali superiori all'80% a 5 anni dalla comparsa delle prime manifestazioni cliniche di malattia.

Nei Paesi occidentali la pancreatite cronica calcifica è per la maggior parte legata all'alcool ed alla dieta iperproteica ed iperlipidica dell'alcolista. Nei Paesi del terzo mondo, viceversa, la pancreatite cronica trova la sua eziologia prevalente nella malnutrizione.

Clinicamente le forme non alcoliche si caratterizzano, rispetto a quelle secondarie a consumo di alcool, per un decorso meno grave, frequentemente senza dolore e con una compromissione esocrina ed endocrina spesso più lieve.

In queste forme, inoltre, la comparsa di calcificazioni precede, generalmente, la comparsa dell'insufficienza esocrina, a differenza della pancreatite alcolica dove queste compaiono, più frequentemente, associate.

 

 

Diagnostica

 

La diagnostica della pancreatite cronica comprende sia lo studio funzionale della secrezione esocrina ed endocrina del pancreas, sia lo studio delle alterazioni morfologiche della ghiandola; la duplice finalità degli esami diagnostici è rivolta all'evidenziazione di una insufficienza pancreatica dapprima e alla quantizzazione di tale insufficienza successivamente. Lo studio funzionale della secrezione esocrina si basa sia sui test diretti quale il sondaggio duodenale dopo stimolazione con secretina e ceruleina che sugli studi indiretti quali il test all'acido N-benzoil-tirosil-p-aminobenzoico (NBT-PABA) ed il test al pancreolaurile.

Il primo test consiste nella valutazione della quantità di secrezione pancreatica raccolta, previo sondaggio duodenale, dopo stimolazione ormonale esogena (secretina-ceruleina). I limiti principali di questa metodica consistono nel suo costo elevato e nella bassa tollerabilità da parte del paziente, e per tali motivi essa è attualmente sempre meno utilizzata. Ciò nonostante la sua accuratezza è decisamente elevata, aggirandosi attorno al 95-97 % e, ciò che è più importante, permane tale anche nelle forme più lievi. Ciò fa sì che tale indagine sia elettiva nella diagnosi delle pancreatopatie croniche iniziali, laddove la diagnostica strumentale è difficilmente in grano di identificare la condizione patologica.

I test indiretti di funzionalità pancreatica presentano invece il vantaggio di essere facilmente eseguibili e ben tollerati. Essi si basano sul dosaggio urinario di una sostanza somministrata per via orale ed il cui assorbimento intestinale dipende dalle attività enzimatiche pancreatiche. Tuttavia, sebbene essi siano in grado di dimostrare in modo sufficientemente accurato la presenza di una insufficienza esocrina grave, la loro utilità è scarsa nelle pancreatopatie di grado lieve e moderato, dove la sensibilità della metodica è bassa per l'elevato numero di falsi negativi.

Il dosaggio dei lipidi nelle feci ha un significato clinico limitato, in quanto la steatorrea compare solo quando la secrezione di lipasi è compromessa per oltre il 90%, quindi in una pancreatopatia in stadio decisamente avanzato.

 

 

DIAGNOSTICA STRUMENTALE

 

La diagnostica strumentale delle pancreatiti croniche rimane sostanzialmente imperniata sulla ecografia nella sua classica modalità percutanea o quella più attuale perendoscopica (EUS), nella pancreatografia retrograda e, in parte, nella tomografia assiale computerizzata.Limitato è invece l'apporto della risonanza magnetica nucleare per la quale non è tuttora individuabile uno specifico settore di applicazione all'interno della patologia pancreatica cronica.

Nel trattare la diagnostica delle pancreatopatie croniche, va ricordato come la radiografia in bianco dell'addome, nelle ricerca delle calcificazioni o calcoli pancreatici, mantiene un significato importante. La dimostrazione di sottili opacità calcifiche intraparenchimali, evidenziabile nel 30% delle pancreatiti iniziali e nel 70% delle forme avanzate, contribuisce alla diagnosi di malattia e dà indicazione della sede cefalica, corpocaudale o diffusa del processo infiammatorio.

L'ecografia è la metodica diagnostica strumentale di primo livello nello studio della pancreatopatia cronica. Essa permette di esplorare la ghiandola pancreatica alla ricerca di un suo aumento di volume, della presenza di zone sclerotiche o calcifiche nel suo contesto e della visualizzazione di dilatazioni e cisti del dotto di Wirsung, oltre a dimostrare eventuali compromissioni del sistema portale adiacente. Un reperto di normalità dell'esame ecografico è tuttavia possibile nel caso di forme lievi di pancreatopatia, ove le alterazioni morfologiche non siano ancora chiaramente evidenti. Per tali motivi la sensibilità dell'ecografia percutanea risulta bassa aggirandosi attorno al 65-70%; nella diagnosi delle forma lievi e moderate di pancreatite cronica è necessario ricorrere all'associazione dei test diretti di funzionalità che presentano una maggiore sensibilità diagnostica.

 

Nella sua modalità perendoscopica, l'utilizzo di frequenze sonografiche più elevate consente un migliore studio della morfologia ghiandolare, soprattutto diretta alla definizione del piccolo nodulo intra-parenchimale quando sussista il dubbio diagnostico tra neoplasia e nodulo di sclerosi. Con questa metodica, infatti, l'eliminazione delle barriere fisiche alla propagazione degli ultrasuoni, quali aria e tessuto adiposo, consentito dall'utilizzo dell'endoscopio che porta la sonda esplorante ecografica direttamente a contatto con il viscere in esame, ne consente uno studio più accurato. Gli strumenti di ultima generazione sono inoltre dotati di un canale operatore con possibilità di agoaspirati mirati sotto guida ecografica. Ciò consente di eseguire uno studio citologico mirato nei casi in cui l'ecografia dimostri la presenza di un nodulo parenchimale e sia necessaria la diagnosi differenziale con una neoplasia. L'EUS può inoltre fornire dati accurati nello studio delle complicanze della pancreatite cronica quali le pseudocisti in cui essa consente di valutare lo stato della parete cistica ed i suoi rapporti con le strutture adiacenti.

La colangio-pancreatografia retrograda endoscopica (CPRE) è considerata lo strumento diagnostico elettivo per la diagnosi e stadiazione delle pancreatopatie croniche, ed è di fondamentale importanza nello stabilire l'indicazione e la tattica chirurgica. Essa dà un quadro delle alterazioni morfologiche della ghiandola dimostrando la presenza di modificazioni duttali di tipo stenotico o dilatativo e l'eventuale presenza dei precipitati intracanalari, con una accuratezza prossima al 90%; la metodica, inoltre, visualizza l'albero biliare, precisandone l'eventuale compromissione ed il suo grado (fig.14x).

Nella descrizione dei quadri pancreatografici sono state proposte numerose classificazioni, tra cui una delle più diffuse è quella di Kasugai che classifica le pancreatiti croniche in forme lievi, quando le modificazioni in senso sclerotico interessano solo i dotti più periferici, moderate, quando dilatazioni e stenosi interessano il dotto principale (fig.15x), e gravi quando questo quadro risulta particolarmente marcato e sono presenti cisti. Tuttavia la correlazione tra modificazioni morfologiche della CPRE e il danno funzionale ghiandolare risulta evidente solo nelle forme avanzate di pancreatopatia, mentre il riconoscimento e la classificazione delle forme lievi di pancreatite cronica rappresenta tuttora un problema diagnostico e clinico.

Per ciò che concerne il riconoscimento delle alterazioni indotte dal processo pancreatitico, la TAC risulta in parte sovrapponibile all'ecografia: essa delinea le alterazioni di volume e forma della ghiandola pancreatica, dimostrando la presenza di cisti e dilatazioni del dotto pancreatico (fig.16x fig.17x) ed eventuale interessamento delle strutture anatomiche in contiguità (stenosi della via biliare principale, trombosi del sistema portale o pseudoaneurismi arteriosi), con una accuratezza prossima al 90%. Anche per la tomografia, tuttavia, vi è il limite della risoluzione nelle piccole dilatazioni del dotto pancreatico, ossia nella identificazione delle forme lievi di pancreatopatia.

Rispetto alla ecografia la TAC presenta il vantaggio di fornire informazioni sul pattern vascolare dell'organo in esame e quindi di dare indicazioni di diagnosi differenziale nel caso di massa pancreatica dove vi sia il dubbio di malignità. Va inoltre ricordato come sia la ecografia sia la TAC consentono l'esecuzione di biopsie guidate per la diagnosi citologica od istologica di lesioni focali intraparenchimali.

La Risonanza Nucleare Magnetica ha invece uno spazio ancora limitato nella diagnostica della pancreatite cronica, ed in particolare non è in grado di visualizzare in modo accurato le calcificazioni né le dilatazioni del Wirsung.

In conclusione si può schematizzare l'approccio diagnostico alla pancreatite cronica nella seguente modalità: nel paziente che presenti il sospetto di pancreatite cronica con dolore quale sintomo più eclatante, va eseguita una CPRE; laddove la sintomatologia sia invece caratterizzata più da segni di insufficienza esocrina, vanno dapprima eseguiti i test di funzionalità indiretta. Se entrambi questi esami risultano negativi ma permane il dubbio diagnostico, allora vi è l'indicazione all'esecuzione di un test diretto di funzionalità pancreatica, la cui sensibilità è la più elevata nelle forme iniziali. Posta la diagnosi, la CPRE sarà utilizzata come metodica per la visualizzazione morfologica dell'albero pancreatico, mentre ecografia e TAC risulteranno utili soprattutto per la dimostrazione di complicanze legate al processo infiammatorio cronico. La ecografia perendoscopica sarà, in questo protocollo diagnostico, elettiva nei casi in cui si sia rilevata la presenza di una piccola massa parenchimale per la diagnosi differenziale con una neoplasia mediante l'esecuzione di un esame citologico per agoaspirato ecoguidato.

 

 

Terapia

 

Il trattamento della pancreatite cronica è volto sostanzialmente alla correzione dei sintomi, mentre esso sembra poter influenzare poco la storia naturale della malattia la cui progressione verso l’insufficienza pancreatica terminale avviene inesorabilmente.   È forse solo nelle forme

iniziali di pancreatopatia che un trattamento medico ben condotto e l'assoluta sospensione dell'alcool possono arrestare l'evoluzione del processo infiammatorio.

La terapia della pancreatite cronica si propone di alleviare il. dolore e di correggere l'insufficienza esocrina ed endocrina.

L'approccio al trattamento del dolore è dapprima medico e/o parachirurgico, e poi, ove indicato, chirurgico. L'aspetto più importante nella terapia medica della pancreatite alcolica è rappresentato dall'assoluta sospensione dell'assunzione di alcool, elemento questo che consente di rallentare il deterioramento della funzionalità pancreatica. L'influenza dell'alcool sul dolore è legata alla sua azione quale potente secretagogo e la percentuale di pazienti in cui tale sintomatologia dolorosa scompare o diminuisce è maggiore tra quelli che hanno sospeso l'alcool.

Nel trattamento del dolore pancreatico, la diagnostica gioca un ruolo fondamentale in quanto in grado di dimostrare la presenza di complicanze del processo patologico che sono alla base della specifica sintomatologia, quali pseudocisti o ostruzioni biliari, e che richiedono un intervento, generalmente chirurgico o parachirurgico, adeguato.

Il trattamento medico del dolore pancreatico comprende la somministrazione di analgesici dapprima minori, eventualmente associato ad ansiolitici, e quindi maggiori. La somministrazione di tali farmaci deve generalmente essere effettuata prima dei pasti in modo da alleviare le crisi postprandiali. Effetto analgesico è stato attribuito alla terapia sostitutiva con enzimi pancreatici in virtù del fatto che essi ristabilirebbero il meccanismo di feedback negativo interrotto dalla condizione di insufficienza esocrina. Infatti, se in condizioni normali la presenza in duodeno di enzimi pancreatici inibisce la immissione in circolo dei secretagoghi quali la colecistochinina e la secretina, nel corso della pancreatite cronica con insufficienza esocrina la mancanza di tali enzimi non regola la increzione di questi ormoni.

 

La correzione dell'insufficienza esocrina, quindi della steatorrea e del malassorbimento, si basa sulla somministrazione di estratti pancreatici associata a quella di farmaci H2-bloccanti in quanto gli enzimi pancreatici vengono denaturati irreversibilmente a pH inferiore a 4. Gli estratti pancreatici devono essere somministrati in dosaggio sufficiente a fornire almeno 100.000 unità FIP (Fédération Intern ation ale Pharmaccutique) di lipasi; le preparazioni in commercio attualmente in Italia hanno un contenuto medio di 9.000-10.000 unità FIP di lipasi, e vanno quindi somministrate in dosi multiple. la somministrazione degli enzimi, oltre a correggere almeno parzialmente il malassorbimento, può contribuire a diminuire, come già detto, la frequenza delle crisi dolorose, agendo sul meccanismo di feed-back nella regolazione della secrezione pancreatica.

La correzione dell'insufficienza endocrina si riassume sostanzialmente nel controllo dell'iperglicemia da insufficiente produzione di insulina; le restanti alterazioni dell'equilibrio ormonale, pur evidenziabili, sono di minore importanza clinica.Il regime ipocalorico, a causa del frequente malassorbimento coesistente, è mal applicabile in questi pazienti ed il trattamento dell'iperglicemia viene effettuato con la somministrazione di insulina sotto costante controllo della glicemia per il rischio di crisi ipoglicemiche acute, legate in parte alla irregolarità nell'assunzione di cibo, a sua volta correlato agli episodi depressivi caratteristici di questi pazienti e al tentativo di evitare la comparsa delle crisi dolorose, in parte alle alterazioni della produzione di glucagone.

Le metodiche parachirurgiche comprendono soprattutto i procedimenti di alcolizzazione percutanea dei gangli celiaci, anche se la reale efficacia di tale procedura non è mai stata obiettivamente dimostrata in trial clinici controllati ed il suo effetto sembra essere solo transitorio e di breve durata.Oltre a ciò vanno ricordate le tecniche di drenaggio perendoscopico dell'albero pancreatico, che tuttavia sono ancora in ambito strettamente sperimentale.

Anche la chirurgia, così come il trattamento medico, non è in grado di modificare la progressione della malattia, ma si propone di correggerne la sintomatologia e di trattare le complicanze; sono queste ultime che guidano le indicazioni all'intervento chirurgico e non la presenza di alterazioni anatomiche in assenza di sintomi. Unica eccezione è quella del dubbio diagnostico differenziale nel caso di una massa nel contesto della ghiandola pancreatica tra tessuto infiammatorio e neoplasia.

L'indicazione elettiva all'intervento chirurgico è dunque rappresentata dal dolore pancreatico resistente alla terapia medica, in un soggetto che abbia sospeso l'assunzione alcolica. La scelta del tipo di intervento si basa allora su dati anatomici.   È chiaro che la dimostrazione di compromissioni anatomiche in grado di spiegare questa sintomatologia, quale la presenza di cisti, pseudocisti, ostruzioni della via biliare, e la loro correzione, guidano la scelta dell'intervento chirurgico. Ma è soprattutto la visualizzazione dell'albero duttale pancreatico con le sue modificazioni fornita dalla CPRE che guida la scelta tra un intervento derivativo ed uno resettivo. In circa il 45-50% dei soggetti con pancreatite cronica, la radiologia dimostra infatti un dotto pancreatico dilatato (superiore o uguale a 1 cm) (fig.18x); in questi casi, ove la genesi del dolore si ritiene legata all'incremento pressorio endoduttale, l'intervento derivativo di pancreatico-digiunostomia ha un'efficacia elevata (fig.19x), prossima all'85%, con una mortalità operatoria ed una morbilità molto contenute.

Laddove invece la CPRE dimostra un pancreas con dotti sclerotici e piccoli, oppure vi sia la presenza di una o più lesioni a distribuzione peculiare settoriale quali cisti o masse di natura non certa, o nei casi di inefficacia degli interventi di drenaggio, l'intervento resettivo trova la sua indicazione specifica.

Le resezioni cefaliche (intervento di Whipple) (fig.20x) hanno ormai, nei Centri con esperienza di chirurgia pancreatica, una mortalità operatoria ed una morbilità contenute, e una elevata efficacia nei casi di corretta indicazione (70% di scomparsa del dolore a distanza dall'intervento). La tecnica che prevede poi la conservazione del piloro (intervento di longmire-Traverso) e quindi conserva integralmente lo stomaco (fig.21x), dà dei risultati funzionali ottimali, ed è di evidente indicazione soprattutto per questa patologia in cui il deficit pancreatico comporta già una forma di malassorbimento.

Nelle localizzazioni corpocaudali del processo pancreatico è possibile un intervento di pancreatectomia distale con successiva pancreatico - digiunostomia (intervento di Puestow).

I risultati a distanza della terapia chirurgica della pancreatite cronica sono comunque condizonati in gran parte dalla effettiva sospensione dell'assunzione di alcool da parte del paziente; la prosecuzione del consumo d'alcool infatti, determina un aggravamento più rapido della malattia, la frequente recidiva del dolore ed una minore sopravvivenza a distanza.

 

 

Letture consigliate

 

 

Beger H. G., Buechler M., Ditschuneit e Coll.: Chronic Pancreatitis. Springer-Verlag, Berlino, 1990.

Bernades P.: histoire naturelle de la pancréatite chronique. Méd. EtHyg., 47, 2657-2651, 1989.

Bevilacqua G., DeRai P.: La pancreatite acuta. In V. Staudacher, G. Bevilacqua, B. Andreoni: “Manuale di Chirurgia d’Urgenza e Terapia Intensiva Chirurgica”, Masson, Milano, 393-414, 1987.

Gyr K.E., Singer M.V., Sarles H.: Pancreatitis. Concepts and Classification. Excerpta Medica, Amsterdam, 1984.

Sarles H.: Pancréatites chronicques. Encycl. Méd. Chir. Paris, “Foie-Pancreas”, 7105, A10, 4, 1981.

Sarles H.: Classification et définition des pancréatites. Marseille, Rome, 1988; Gastroenterol. Clin. Biol., 13, 857-859, 1989.

Sarles H., De Caro A. Multigner L. e Coll.: La pancréatite chronique calcifiante: une réalité anatomo-pathologique parvenue au stade moléculaire de la connaissance. Gastroenterol. Clin. Biol., 7, 4-7, 1983.

 

 

G. Pezzuoli

Direttore Istituto di Chirurgia

Generale, Direttore Scuola di

Specializzazione in Chirurgia

Generale, Università di Milano

 

 

M. Montorsi

Professore Associato di Patologia

Chirurgica, Istituto di Chirurgia

Generale, Università di Milano

 

 

M. Zago

U. Fumagalli

Istituto di Chirurgia Generale

Università di Milano

   

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