Tre
tentativi di classificazione e definizione delle pancreatiti si sono succeduti
negli ultimi trent'anni: le due classificazioni di Marsiglia (1963 e 1984),
basate su elementi di carattere anatomico ed eziologico e la classificazione di
Cambridge (1983), fondata invece su criteri clinicoradiologici e di gravità
della patologia.
Più
recentemente, una nuova classificazione è stata proposta da un gruppo di
riconosciuti esperti, sulla base di dati statistici, morfologici, sperimentali
ed epidemiologici. Secondo quest'ultima e ormai universalmente accettata
classificazione, detta di Marsiglia-Roma (1988), esistono due entità distinte
di pancreatite: la pancreatite acuta e la pancreatite cronica. Sembra quindi
confermato il concetto che non esiste un'unica patologia infiammatoria
dell'organo che evolva invariabilmente dalla forma acuta a quella cronica.
La
pancreatite acuta si caratterizza per lesioni infiammatorie localizzate al
pancreas od ai tessuti peripancreatici: edema, necrosi, necrosi emorragica,
steatonecrosi. Nella maggior parte dei casi, la malattia si limita agli stadi di
edema e steatonecrosi. In questa fase, le lesioni sono generalmente considerate
reversibili, mentre non vi è accordo sulla reale reversibilità di necrosi
estese. Più facilmente la necrosi, specie se estesa, può andare incontro a
sovrainfezione o essere seguita dalla formazione di raccolte liquide
peripancreatiche. Queste ultime possono a loro volta risolversi spontaneamente,
persistere (dando poi origine ad una pseudocisti necrotica) e/o infettarsi (fig.01x).
Mentre
vi è evidenza che una pancreatite acuta ad eziologia biliare non evolve
praticamente mai verso una forma cronica, lo stesso non può dirsi per le
pancreatiti acute alcoliche. Infatti, secondo alcuni, la pancreatite acuta
alcolica è da ritenere quasi sempre la prima manifestazione di una pancreatite
cronica calcificante; a conferma di questa ipotesi sta il dato della rarità dei
casi di malattia ad eziologia alcolica in soggetti che non siano etilisti
cronici da oltre dieci anni. Altri studi hanno invece documentato come fino al
30% di pazienti con pancreatite acuta alcolica non dimostrino poi nel tempo lo
sviluppo della forma cronica.È
dunque evidente come solo l'osservazione prolungata negli anni di questi
pazienti potrà fornire le informazioni utili per un corretto inquadramento
diagnostico.
La
pancreatite cronica è definita dalla presenza di fibrosi, distruzione del
parenchima esocrino e, negli stadi avanzati, distruzione del tessuto endocrino.
Essa
è nelle fasi iniziali frequentemente complicata da episodi di pancreatite
acuta, responsabili di crisi dolorose recidivanti. Con il passare del tempo,
compaiono un'insufficienza esocrina (steatorrea) ed endocrina (diabete), mentre
le crisi dolorose acute diminuiscono, fino a scomparire. Vengono distinte due
forme di pancreatite cronica.
La
pancreatite cronica calcificante, che è la forma di gran lunga più frequente,
presenta aspetti morfologici peculiari: distribuzione lobulare delle lesioni,
stenosi odatrofia dell'epitelio duttale, precipitati proteici o calcoli
intracanalari.
La
maggior parte dei pazienti svilupperanno calcificazioni visibili all'esame
radiologico diretto dell'addome; è pertanto giustificata la definizione di
pancreatite cronica calcificante anche quando le calcificazioni non siano ancora
documentabili.
Le
lesioni anatomiche ed i disordini funzionali evolvono anche nel caso in cui la
causa primitiva venga rimossa.
Nella
patogenesi di questa forma di pancreatite cronica sembra svolgere un ruolo
fondamentale il deficit assoluto o relativo della "pancreatic stone
protein" (PSP), o proteina stabilizzatrice pancreatica, che neutralizza lo
ione calcio fisiologicamente presente in eccesso nel succo pancreatico.
La
pancreatite cronica ostruttiva è secondaria all'ostruzione del dotto di
Wirsung, a causa di tumori pancreatici o ampollari, di pseudocisti necrotiche,
di cicatrici esito di una pancreatite acuta o di un traumatismo, di odditi.
Questa
forma rappresenta una minima percentuale delle pancreatiti croniche. Dal punto
di vista anatomo patologico, si caratterizza per la uniforme distribuzione delle
lesioni a monte dell'ostacolo, la conservazione dell'epitelio duttale e
l'assenza di precipitati proteici o di calcoli.
Dal
punto di vista istopatologico, esiste poi un quadro peculiare, definito come
fibrosi perilobulare, caratterizzato dalla conservazione del parenchima
esocrino. Non vi è consenso sulla opportunità di classificare o meno questa
entità, peraltro di rara osservazione, fra le pancreatiti croniche.
LA PANCREATITE ACUTA
Eziologia e patogenesi
La
pancreatite acuta riconosce numerose cause, intra- ed extrapancreatiche.
Fra
le cause extrapancreatiche, le principali sono la litiasi biliare, i traumi
addominali, la chirurgia, le manovre endoscopiche sulla papilla,
l'iperlipidemia. Anche all'abuso di alcool conseguono frequentemente episodi di
pancreatite acuta, che tuttavia non è sempre agevole differenziare dalla
manifestazione clinica iniziale di una pancreatite cronica calcificante. Come già
detto, appare evidente, a questo proposito, l'importanza di un corretto e
prolungato monitoraggio di questi pazienti, unico modo per giudicare della reale
evolutività della malattia. I primi episodi acuti di pancreatite cronica
alcolica, comunque, possono essere accompagnati da tutte le manifestazioni della
pancreatite acuta, comprese le compromissioni sistemiche e le complicanze.
La
litiasi biliare e l'alcolismo sono responsabili dell'85 % circa delle
pancreatiti acute. le altre cause, che intervengono globalmente soltanto nel 5%
dei casi di malattia, sono elencate nella tab.01x.
Fra quelle intrapancreatiche, meritano di essere sottolineati i tumori: fino al
15% dei casi, infatti, una neoplasia pancreatica si può rivelare con un
episodio di pancreatite acuta.
Il
10% delle pancreatiti viene definito idiopatico, non essendo identificabile
alcuna delle cause note. Negli ultimi anni, tuttavia, si sono accumulate
evidenze significative riguardo all'esistenza di un pancreas divisum in pazienti
affetti da ricorrenti attacchi di pancreatite acuta. Questa anomalia è dovuta
alla mancata fusione degli abbozzi embrionari ventrale e dorsale (fig.02x): il drenaggio della maggior parte del pancreas (abbozzo dorsale)
viene quindi assicurato dal dotto di Santorini, il cui sbocco nella papilla
minore può tuttavia risultare relativamente insufficiente in condizioni di
iperstimolazione della ghiandola. Questa condizione potrebbe quindi rendere
ragione almeno di una parte delle pancreatiti acute a tutt'oggi ancora
considerate idiopatiche.
È convinzione comune che tutte le forme di pancreatite acuta, qualunque
ne sia la causa, riconoscano quale momento patogenetico iniziale l'attivazione
del pool enzimatico pancreatico. A questa conseguirebbe poi tutta la sequenza di
eventi, locali e sistemici, della malattia.
Non
è stata tuttavia ancora identificata con certezza una via finale comune che,
con l'attivazione intrapancreatica del tripsinogeno, inneschi la cascata
proteolitica.
Un
possibile denominatore comune potrebbe essere un'alterazione della permeabilità
delle membrane cellulari ed intracellulari.
L'attivazione
degli enzimi sembrerebbe addirittura avvenire all'interno della cellula acinare
(anziché nei dotti o nell'interstizio pancreatico, come finora sostenuto), per
azione delle idrolasi lisosomiali non più immagazzinate nelle membrane
fosfolipidiche.
Anche
i radicali liberi svolgerebbero un ruolo nell'alterare la permeabilità delle
membrana cellulari, come suggerito da alcuni studi sperimentali.
Lo
squilibrio fra proteasi attivate e sistemi inibitori pancreatici e plasmatici è
comunque il fenomeno che determina la gravità delle lesioni della pancreatite
acuta.
Nel
succo pancreatico è infatti presente un inibitore specifico della tripsina,
mentre gli inibitori plasmatici sono costituiti per la maggior parte da
alfa-1-antitripsina ed alfa-2-macroglobulina, che presentano attività
complementari. Il sistema plasmatico, contrariamente a quello tissutale, non
blocca l'attività enzimatica delle proteasi, ma ne favorisce una rapida
eliminazione a livello del sistema reticolo-endoteliale.
Clinicamente,
è stata osservata una correlazione significativa tra i livelli plasmatici degli
inibitori e lo sviluppo di necrosi della ghiandola. Questo dato, oltre al suo
valore predittivo, avvalora l'importanza attribuita al rapporto proteasi/
inibitori nella patogenesi della malattia.
Recentemente
è stata inoltre isolata una nuova molecola ad attività proteasica, denominata
tripsina-2 o mesotripsina, la cui attività non viene neutralizzata né
dall'inibitore tissutale né dall'alfa-1antitripsina. Si potrebbe ipotizzare
quindi che l'attivazione intrapancreatica di tripsina-2 inneschi
l'autodigestione pancreatica, attivando in seguito tutti gli altri zimogeni.
L'efficacia
dei sistemi inibitori è ovviamente strettamente dipendente dall'integrità
della rete vascolare. Il ruolo dell'ischemia nella genesi della pancreatite
acuta è tuttavia ancora controverso, non potendosi ancora stabilire in che
misura le alterazioni anatomiche e funzionali effettivamente riscontrate a
livello del microcircolo (trombosi, alterata permeabilità di membrana,
liberazione di chinine dalla cellula endoteliale) siano la causa o la
conseguenza del danno parenchimale.
Numerosi
meccanismi sono stati proposti per comprendere come i diversi fattori eziologici
(litiasi biliare ed alcool innanzitutto) possano innescare il processo di
autodigestione.
Per
ciò che concerne la pancreatite acuta biliare, l'ipotesi più convincente
prevede che il transito transpapillare dei calcoli biliari possa indurre un
blocco transitorio, anatomico o funzionale, della papilla.
Questo
fenomeno favorirebbe, in presenza di un canale comune fra coledoco e dotto di
Wirsung, il reflusso bilio-pancreatico, o addirittura il reflusso del contenuto
duodenale attraverso la papilla. I sali biliari deconiugati, uno stato di
aumentata pressione intracanalicolare (peraltro scarsamente dimostrabile) o
direttamente l'enterochinasi duodenale potrebbero allora provocare
rispettivamente un danno diretto sull'epitelio duttale ed acinare 0 una
attivazione prematura degli zimogeni.
Il
transito transpapillare dei calcoli si riscontra più frequentemente in pazienti
con un dotto cistico ed un coledoco di calibro superiore alla media ed un
elevato numero di calcoli di piccole dimensioni. Il significato della
microlitiasi biliare è stato particolarmente sottolineato nell'ultimo decennio.
Soltanto
il 4-8% dei pazienti con colelitiasi, però, manifesta una pancreatite acuta; è
quindi evidente come siano in gioco altri fattori ancora poco noti.
Il
possibile meccanismo implicato nella genesi della pancreatite acuta alcolica
sembra essere un aumento della permeabilità duttale. Questo sarebbe a sua volta
provocato da un lieve incremento della pressione intraduttale e dall'effetto
tossico dei metaboliti dell'alcool (acetaldeide) sulle cellale duttali ed
acinari. Le membrane cellulari, anche in questo caso, rappresenterebbero il
bersaglio dell'agente patogeno.
La
patogenesi della pancreatite acuta in caso di iperlipidemia è poco nota.
L'ipotesi più accreditata, ricavata da studi sperimentali, attribuisce un
effetto citotossico all'elevata concentrazione locale di acidi grassi liberi.
In
corso di iperparatiroidismo, l'incidenza della pancreatite acuta varia dal 7 al
19%. Da un'ampia revisione di oltre 1000 casi di iperparatiroidismo osservati
alla Mayo Clinic, la fondatezza di questa associazione viene messa in dubbio. In
questo studio, infatti, la pancreatite acuta incide solo per l'1,5% e nel 65%
dei casi è giustificabile anche con altre cause.È possibile che sia la durata dell'iperparatiroidismo
a condizionare la probabilità di insorgenza di una pancreatite acuta in questi
soggetti.
La
pancreatite da farmaci è rara, ma deve essere tenuta in considerazione poiché
alcune delle molecole chiamate in causa sono di impiego comune. Diuretici
tiazidici, furosemide, contraccettivi orali, azatioprina, cimetidina,
sulfonamidi, tetracicline e l'abuso di amfetamine, rifampicina, indometacina
possono provocare pancreatite acuta. La reale tossicità degli steroidi è oggi
messa in discussione. Per alcuni farmaci si è dimostrata l'insorgenza di una
vasculite allergica.
Fisiopatologia
FENOMENI LOCALI
Il
più frequente evento locale della pancreatite acuta è l'edema pancreatico,
alla cui genesi concorrono in maggior misura peptidi vasoattivi e la
lisolecitina, liberata dall'azione della fosfolipasi A.
La
necrosi del tessuto adiposo è l'altro quadro anatomopatologico di comune
riscontro in corso di pancreatite acuta. Solo la lipasi e la colipasi sono in
grado di provocare steatonecrosi.
Sempre
a livello pancreatico, la necrosi coagulativa ed il danno vascolare sembrano
invece mediati dall'elastasi e dalla fosfolipasi A.
Questi
diversi quadri anatomopatologici consentono di identificare due tipi
fondamentali di pancreatite acuta.
La
pancreatite acuta "edematosa", che rappresenta l'85-90% di tutte le
pancreatiti, è caratterizzata da edema e steatonecrosi; il suo andamento
clinico è quasi sempre benigno e la regressione anatomica delle lesioni
completa.
La
pancreatite acuta "necrotico-emorragica", che si manifesta nel 10-15 %
dei pazienti, si caratterizza per una estensione della necrosi pancreatica e
peripancreatica di vario grado, non invariabilmente associata a fenomeni
emorragici. Il suo andamento clinico è sempre grave e la mortalità ancora
estremamente elevata.
FENOMENI SISTEMICI
Durante
una pancreatite acuta non complicata si verifica un sequestro di liquidi negli
spazi extracellulari in media di circa 2 litri, prevalentemente localizzati
nella retrocavità degli epiploon. L'essudazione avviene anche a livello del
tessuto retropancreatico e degli spazi prerenali.
Questa
marcata ipovolemia iniziale, unita al rapido riassorbimento di chinine, zimogeni
attivati e prodotti tossici a basso peso molecolare, determinano nel 10-15% dei
pazienti un quadro di compromissione generale dell'organismo che va sotto il
nome di sindrome di insufficienza multiviscerale o MOF (MultipleOrgan-Failure
Syndrome), caratteristica della pancreatite acuta severa.
Molte
delle alterazioni sistemiche osservate sono spiegabili o quanto meno precipitate
dall'ipovolemia.
A
livello cardiovascolare, il quadro clinico è infatti dominato dall'ipotensione
e dallo stato di shock, con acidosi metabolica da ipoperfusione.
Dal
punto di vista fisiopatologico, la prima fase della pancreatite presenta un
quadro di ipovolemia con bassa gittata, aumento delle resistenze periferiche ed
elevata estrazione periferica di O2. Con il riequilibrio della massa circolante,
si assiste ad una fase iperdinamica, con diminuite resistenze periferiche e
dell'estrazione di O2.
L'azione
degli enzimi pancreatici sulla funzione cardiaca non è stata ancora
completamente studiata.
L'effettivo
ruolo di un "myocardial depressant factor" (MDF) in corso di
pancreatite acuta resta invece da determinare; recenti studi sperimentali
sembrerebbero confermare che gli effetti sulla funzione cardiovascolare sono
secondari alla diminuzione del volume circolante e non ad una disfunzione
cardiaca intrinseca. Del resto, non sono state evidenziate alterazioni
istologiche del miocardio in pazienti deceduti per pancreatite acuta, mentre la
sostanza ritenuta il MDF è stata isolata dal siero di pazienti in shock
ipovolemico ma non da soggetti con pancreatite acuta severa.
L'insufficienza
renale è la più frequente manifestazione della pancreatite acuta grave dopo
l'ipovolemia. L'oliguria può persistere per 3-8 giorni. La sua genesi è
multifattoriale: vi concorrono infatti il deficit di perfusione parenchimale,
microtrombi secondari ad una coagulazione intravasale disseminata, emboli
adiposi e probabilmente un danno diretto sul nefrone da parte delle proteasi
attivate. L'alterata funzione renale è stata invocata per giustificare
l'ipertensione che compare in alcuni pazienti durante le prime 48-72 ore.
Nel
5-10% dei casi si manifesta una vera e propria insufficienza respiratoria.
Un'alterazione della membrana alveolocapillare è alla base di questo fenomeno,
che chiama in causa un danno diretto ad opera di radicali liberi ed un'azione
indiretta della fosfolipasi A sul surfattante.
Anche
l'instaurarsi di shunt intrapolmonari causati da microtrombi può giustificare
in parte l'ipossiemia.
La
necessità di ricorrere alla ventilazione meccanica è associata ad una mortalità
fino al 75%.
Anche
l'ipocalcemia severa, universalmente accettata come indice prognostico
sfavorevole della pancreatite acuta grave, potrebbe rappresentare un epifenomeno
della MOF.
Le
complicanze emorragiche extrapancreatiche in corso di pancreatite acuta si
verificanonel5-7% dei pazienti. Si tratta quasi sempre di enterorragie da
lesioni acute da stress gastroduodenali. La DIC conclamata è rara, mentre nei
quadri ad evoluzione più sfavorevole può verificarsi un emoperitoneo per
erosione di vasi peripancreatici, a prognosi gravissima.
Nel
10-15% dei pazienti, compaiono disturbi del sensorio di vario grado, definiti
"encefalopatia pancreatica". Dal punto di vista patogenetico, sembra
sostenibile l'ipotesi di un ruolo tossico degli enzimi circolanti associata ad
alterazioni del microcircolo cerebrale.In pazienti deceduti per coma, l'esame
autoptico ha rivelato una degenerazione lipolitica del SNC, soprattutto a
livello del ponte.
Diagnosi
Di
fronte ad un paziente che presenti il sospetto di pancreatite acuta, il medico
deve essere in grado di risolvere in successione quattro principali problemi:
-
confermare la diagnosi di pancreatite acuta, escludendo le altre patologie
addominali che possono simularne il quadro clinico;
-
identificarne la causa, in particolare la presenza di una patologia biliare
associata;
-
valutare la gravità della malattia;
-
individuare precocemente la comparsa di complicanze.
QUADRO CLINICO
Il
quadro clinico della pancreatite acuta è relativamente aspecifico ed
estremamente vario per gravità. Ciò rende talora particolarmente difficile la
diagnosi. Il dolore è presente nella quasi totalità dei casi.
Ha
inizialmente i caratteri del dolore viscerale puro, dovuto alla distensione
della capsula pancreatica ed alla stimolazione delle terminazioni
retropancreatiche. La localizzazione epigastrica è costante e questa resta la
sede di maggiore intensità anche quando il quadro si modifica per gravità. le
irradiazioni possono essere varie, oltre alla più tipica disposizione "a
barra". Nel 50% vi è irradiazione dorsale.
Caratteristiche
utili per una diagnosi differenziale sono la rapidità di insorgenza (tuttavia
non paragonabile alla perforazione di un viscere cavo), l'elevata intensità,
che subisce solo modeste o nulle variazioni nel tempo, e la difficoltà del
paziente ad assumere una posizione antalgica efficace (paragonabile a quanto si
verifica nella colica renale). La sintomatologia dolorosa si prolunga in genere
oltre le 24 ore. La sua remissione è graduale, ciò che può differenziarla da
una colica biliare.
L'80%
dei pazienti lamenta nausea e vomito, per lo più di tipo riflesso.È rara la presenza di una componente ostruttiva duodenale o gastrica.
Un
discreto rialzo termico (38-38,5°C) è comune.
Nelle
fasi più avanzate esso deve fare sospettare una complicanza respiratoria o una
sepsi. L'esame clinico rivela un impegno generale del paziente, che può mancare
nelle forme più lievi. I parametri vitali dimostrano i segni dell'ipovolemia.
In circa il 30% dei pazienti compare entro 48 ore un ittero od un subittero
sclerale.
All'esame
obiettivo, l'addome si presenta generalmente modicamente disteso per meteorismo.
Nelle forme lievi è trattabile, senza risentimento parietale. Può essere
apprezzabile un senso di occupazione epigastrica, senza che sia apprezzabile una
vera massa. Una contrattura di difesa dei quadranti superiori con segno di
Blumberg positivo è un segno relativamente costante nella pancreatite acuta
medio-grave. La contrattura non è comunque così pronunciata come nella
peritonite da perforazione gastro-duodenale. La peristalsi è generalmente
assente.
Ecchimosi
sui fianchi (segno di GreyTurner) e in regione periombelicale (segno di Cullen)
sono raramente osservate e comunque solo nelle forme iper-acute
necrotico-emorragiche.
Nella
pancreatite acuta grave, si aggiungono i segni ed i sintomi propri della
compromissione multiviscerale, già descritta in precedenza.
ESAMI EMATOCHIMICI
La
diagnosi di pancreatite acuta resta ancor oggi legata al riscontro di un
innalzamento della concentrazione serica delle amilasi.
Poche
diagnosi cliniche si fondano così strettamente sul risultato di un singolo
test. Le altre modificazioni bioumorali riscontrabili nelle fasi iniziali della
pancreatite acuta (emoconcentrazione, iperleucocitosi, ipocalcemia, indici
enzimatici di necrosi) sono infatti di per se non indicative.
Il
dosaggio delle amilasi plasmatiche è tuttavia un esame sensibile ma poco
specifico. Infatti altre patologie acute addominali, quali la perforazione di
ulcera poptica, la colocistite acuta, la peritonite, l'infarto intestinale,
possono associarsi ad un moderato rialzo delle amilasi seriche, ponendo seri
problemi di diagnosi differenziale.
In
questi casi, comunque, i valori di amilasemia sono in genere moderati (3 00600
UI/1) e l'incremento non è così precoce come nella pancreatite acuta.
Un'altra
condizione particolare è rappresentata dai pazienti etilisti. Una modesta
iperamilasemia si riscontra infatti nel 9-39% di questi soggetti, in assenza di
sintomi evocatori di pancreatite acuta. Questo aumento è però in gran parte a
carico delle isoamilasi salivari.
Nella
tab.02x vengono elencate le condizioni che possono accompagnarsi
ad un'iperamilasemia.
Va
ricordato che, come per le transaminasi nell'epatite fulminante, sono descritti
casi di pancreatite acuta con necrosi massiva senza alcun rialzo delle amilasi
plasmatiche. Eccetto che in questi rari casi, la pancreatite acuta è quindi
quasi sempre accompagnata da un'iperamilasemia. Valori normali di amilasi
possono tuttavia essere riscontrati in pazienti che giungano all'osservazione
due o più giorni dopo l'esordio dei sintomi. I livelli decrescono infatti
rapidamente, specie nelle forme lievi, cosicché buona parte dei pazienti hanno
valori normali entro 48 ore. Anche soggetti etilisti che presentino episodi
acuti di pancreatite possono talora mostrare valori normali di amilasemia,
probabilmente a causa dell'insufficienza esocrina legata alla pancreatite
cronica sottostante.
Il
dosaggio delle amilasi può inoltre aiutare nella formulazione della diagnosi di
pancreatite acuta biliare con buona approssimazione. In questa eventualità i
valori possono superare anche le 12001400 UI/l, mentre nelle altre forme di
pancreatite acuta è del tutto eccezionale osservare concentrazioni superiori a
1000 UI/l.
La
determinazione delle isoamilasi-P può accrescere la specificità del test.
Fisiologicamente, le isoamilasi salivari (S) rappresentano il 60% del totale. le
isoamilasi-P si ritrovano soltanto nel tessuto pancreatico. In urgenza,
tuttavia, il loro impiego è poco diffuso, anche perché non permette di
differenziare la pancreatite acuta dalle altre patologie addominali che si
associano ad iperamilasemia.
Una
elevata concentrazione di amilasi (isoamilasi-P) viene riscontrata nelle urine
di pazienti affetti da pancreatite acuta, a causa della loro aumentata clearance
renale. Lo stesso fenomeno non si verifica quando l'iperamilasemia è dovuta ad
altre cause.
Su
questa base si fonda il test del rapporto tra clearance delle amilasi e della
creatinina nella diagnosi di pancreatite acuta. Tuttavia, poiché il test è
inaffidabile quando la pancreatite acuta si associ ad insufficienza renale, non
sembra attualmente che questo esame possa aumentare le possibilità
diagnostiche.
Anche
i livelli plasmatici di lipasi si innalzano quasi costantemente nei pazienti con
pancreatite acuta. Il loro decremento è più lento di quanto avvenga per le
amilasi. La lipasi non è escreta con le urine, per cui la sua clearance non è
misurabile. Il suo valore diagnostico è paragonabile a quello del dosaggio
delle amilasi.
La
metemalbamina (un complesso albumina-ematina) compare entro 72 ore dall'esordio
della malattia e non è dosabile nelle pancreatiti acute edematose. Proposta
come marker specifico della pancreatite acuta emorragica, la sua specificità è
molto bassa (27%) se si considerano tutte le pancreatiti acute severe.
DIAGNOSTICA STRUMENTALE
Una
radiografia dell'addome senza mezzo di contrasto deve essere sempre eseguita di
fronte al sospetto di una pancreatite acuta. Sebbene i segni radiologici di
pancreatite acuta siano per lo più aspecifici, il valore dell'esame è
soprattutto legato alla possibilità di escludere altre patologie acute
addominali (perforazione, infarto mesenterico, occlusione intestinale). Possono
indirizzare verso la conferma della diagnosi la scomparsa mono o bilaterale del
profilo degli psoas, la presenza della cosiddetta "ansa sentinella"
(dovuta alla paresi delle prime anse digiunali) proiettata nell'addome superiore
di sinistra, la dilatazione del colon destro (per uno spasmo riflesso del
trasverso) o, al contrario, una distanza superiore a 3 cm fra lo stomaco ed il
colon trasverso dilatati, per l'aumento del volume pancreatico e/o la presenza
di essudato nella retrocavità.
L'impiego
della ecotomografia per la documentazione morfologica del pancreas è limitato
dal meteorismo, dall'obesità e dalla diminuzione stessa dell'ecogenicità della
ghiandola in corso di pancreatite acuta, che ne impedisce talora la
differenziazione dalle strutture circostanti.
Tuttavia,
grazie anche ad alcuni artifici tecnici (aspirazione naso-gastrica, riempimento
gastrico con acqua), in circa il 50-70% dei casi è possibile ottenere
informazioni utili. I caratteri ecografici da ricercare sono l'aumento di
volume, la diminuzione dell'ecogenicità, l'eventuale presenza di colate
flogistiche, la presenza di una patologia biliare associata ed il calibro della
via biliare. La sua ripetibilità la rendono comunque indispensabile per seguire
l'evoluzione morfologica delle lesioni.
La
TAC è sicuramente ritenuta l'esame di scelta per la diagnosi morfologica della
pancreatite acuta. La sua importanza è accresciuta dalla recente dimostrazione
del suo elevato potere predittivo sulla prognosi a distanza della malattia.
I
tre parametri principali da considerare sono l'aumento delle dimensioni
dell'organo, le variazioni di densità intraparenchimali e la presenza di
raccolte extrapancreatiche. Nelle forme edematose, si ha in genere un aumento di
volume e una diminuzione dell'indice di attenuazione, mentre i margini appaiono
sfumati.
L'esecuzione
di una TAC entro 24-36 ore dal ricovero si impone in tutti i pazienti con una
pancreatite acuta moderata 0 severa. Il quadro ottenuto, oltre a fornire la
mappa attuale delle lesioni anatomiche a carico del pancreas e degli organi
adiacenti, costituisce la linea-guida per valutarne la successiva evoluzione.
Sono
state proposte alcune classificazioni dei quadri densitometrici osservabili. Una
delle più semplici è quella di Nordstergaard riportata nella tab.03x.
Nei
pazienti che alla TAC iniziale dimostrino più di un semplice aumento di volume
pancreatico (edema), l'esame dovrebbe essere ripetuto ad intervalli di una-due
settimane, per monitorare le modificazioni dell'anatomia ed identificare
precocemente le complicanze (fig.03xa/b).
La
sensibilità della TAC nel dimostrare la presenza di necrosi pancreatica è
accresciuta dalla valutazione dell'enhancement parenchimale. Il mezzo di
contrasto endovenoso non evidenzia le zone necrotiche non perfuse del pancreas e
dei tessuti peripancreatici, mentre opacizza le aree ancora vitali. Il dato più
utile fornito dalla TAC è quindi il riconoscimento della necrosi e delle
raccolte fluide pancreatiche e peripancreatiche, la cui evoluzione settica è la
maggiore responsabile della elevata mortalità delle pancreatiti acute severe.
Criteri prognostici
In
considerazione dell'estrema variabilità di presentazione ed evoluzione della
malattia, l'interesse degli studi clinici si è rivolto alla ricerca di indici
prognostici efficaci per individuare le forme ad andamento più sfavorevole. I
vantaggi di questa impostazione sono evidenti: l'instaurazione di un trattamento
corretto e di un monitoraggio adeguato, la riduzione dei costi, l'eventuale
trasferimento in Centri idonei solo per i pazienti che realmente lo necessitino,
la stadiazione della malattia e la conseguente confrontabilità dei risultati
ottenuti con differenti protocolli terapeutici.
La
gravità dell'episodio di pancreatite acuta è valutabile mediante tre ordini di
criteri: clinici, bioumorali, strumentali.
Gli
indici clinico-anamnestici di severità della malattia sono certamente i meno
affidabili, poiché inevitabilmente risentono di una valutazione soggettiva.
Dal
punto di vista anamnestico, la mortalità diminuisce nei pazienti che abbiano già
presentato episodi di pancreatite acuta, mentre non varia in modo significativo
a seconda dell'eziologia se si eccettua la pancreatite acuta postoperatoria, la
cui mortalità è nettamente superiore alle altre forme di pancreatite acuta.
Studi prospettici hanno dimostrato che questi indici da soli permettono di
identificare solo il 34-39% degli episodi di pancreatite acuta severa.
La
valutazione multiparametrica proposta da Ranson nel 1974 rappresenta il primo
tentativo di correlare le alterazioni bioumorali alla prognosi della malattia.In
effetti, tale correlazione è stata confermata da successivi studi: nel gruppo
di pazienti che presentano uno score <2, la mortalità è inferiore all'1%,
mentre nel gruppo con 7 o più criteri positivi è del 100%. Sulla base di
questi dati, le pancreatiti acute vengono classificate in lievi (<2),
moderate (3-5) e gravi (>5).
L'adozione
di differenti scale parametriche proposte successivamente (ImrieGlasgow, 1979;
Hollender, 1983; Apache II, 1989) non ha permesso di migliorare la capacità
predittiva dei criteri di Ranson, che supera il 90%, i quali restano a ragione
il riferimento più utilizzato.
Per
i singoli pazienti, questa valutazione permette di identificare coloro che hanno
un'alta probabilità di sviluppare complicanze gravi e che necessitano quindi di
un monitoraggio intensivo.
Anche
l'analisi quantitativa e qualitativa dell'essudato peritoneale, ottenuto
mediante paracentesi e lavaggio peritoneale, contribuiscono alla valutazione
prognostica del paziente affetto da pancreatite acuta. I segni di pancreatite
acuta severa sono: la presenza di più di 20 cc di essudato (indipendentemente
dal suo colore), l'aspirazione di almeno 10 cc di liquido di colore bruno o il
riscontro di un liquido di lavaggio più scuro di un colore paglierino. Con
questa metodica la gravità della pancreatite acuta può essere stabilita entro
poche ore nel 55-70% dei casi. L'incidenza di complicanze direttamente legate
alla manovra è dello 0,8%. La sua utilità, infine, è accresciuta dalla
possibilità di una diagnosi differenziale con altre patologie addominali acute.
L'uso
precoce e seriato della TAC è l'indice prognostico di più recente introduzione
e di maggiore affidabilità. La classificazione delle lesioni non è ancora
omogenea, ma sulla sua utilità tutti sono concordi. Il suo potere predittivo
sembra aumentare dall'interpretazione combinata con la scala multiparametrica di
Ranson.
Evoluzione e complicanze
L'evoluzione
della pancreatite acuta varia dalla risoluzione spontanea nelle forme lievi alla
necrosi massiva nelle forme fulminanti.
La
mortalità globale si attesta oggi attorno al 20% oscillando dallo 0-3 % delle
pancreatiti edematose, al 40-50% delle forme severe ed all'85-100% delle
olopancreatiti necrotico-emorragiche.
Nelle
fasi precoci, lo shock e l'insufficienza respiratoria sono responsabili del 70%
dei decessi.
Tardivamente,
prevalgono la sepsi (20%), l'insufficienza renale (14%) e le enterorragie (13%).
Se
si eccettuano le alterazioni multiviscerali della MOF, le complicanze a distanza
sono dovute all'evoluzione delle raccolte fluide e necrotiche pancreatiche e
peripancreatiche. Il monitoraggio delle lesioni con la TAC ha dimostrato che
queste raccolte si riassorbono spontaneamente nella metà circa dei casi.
Quando
ciò non accade, il loro destino è verso la cronicizzazione con formazione di
una pseudocisti necrotica o la sovrainfezione, che si manifesta sotto forma di
necrosi pancreatica infetta o di vero e proprio ascesso pancreatico.
Una
pseudocisti si sviluppa nel 10-20% dei casi dopo una pancreatite acuta. la sua
risoluzione spontanea si verifica in oltre il 60% dei pazienti entro 4-6
settimane quando il diametro è inferiore a 4 cm, mentre la percentuale di
regressioni spontanee scende al 20% per pseudocisti con diametro superiore a 4
cm.
Anche
la pseudocisti può andare incontro a sovrainfezione nel 15% circa dei casi.
Molto più rare sono la rottura e l'emorragia intracistica.
Gli
ascessi pancreatici e l'infezione di aree necrotiche e di colliquazioni
peripancreatiche sono certamente la complicanza più temibile a distanza
dall'episodio acuto. La diagnostica di questo tipo di raccolte si è
notevolmente affinata grazie alla introduzione del monitoraggio densitometrico
ed alla possibilità di eseguire un'aspirazione percutanea eco- o TAC-guidata.
Terapia
TRATTAMENTO MEDICO
La
terapia conservativa è fondamentalmente indirizzata al controllo dei sintomi ed
al riconoscimento e trattamento precoce delle complicanze sistemiche.
Della
massima importanza è il monitoraggio fisiologico del paziente, che richiede la
valutazione accurata di una serie di parametri clinico-bioumorali. Tale
monitoraggio è di particolare rilievo in caso di pancreatite acuta severa, dove
massime sono le alterazioni fisiopatologiche e più grave la prognosi.
Sulla
base di queste conoscenze, è necessario monitorare altre ai consueti parametri
vitali ed ai test di laboratorio, la pressione venosa centrale e la diuresi
oraria, per una valutazione più obiettiva del ripristino della volemia.
Nei
pazienti più compromessi, il catetere di Swan-Ganz permette aggiustamenti
terapeutici più corretti.
L'emogasanalisi
arteriosa deve essere eseguita ogni 6-12 ore per almeno 2-3 giorni e fino a
chiari segni di miglioramento. la comparsa di una insufficienza respiratoria
grave, unita ad una compromissione dello stato di coscienza (da obiettivare
mediante lo score della Glasgow Coma Scale), rappresentano le manifestazioni
sistemiche che maggiormente indicano una evoluzione sfavorevole della malattia.
Dal
punto di vista pratico, la terapia medica mira a reintegrare fluidi ed
elettroliti, trattare il dolore e l'ileo associati, fornire un supporto
nutrizionale e prevenire la sepsi.
Un'adeguata
terapia infusionale è il cardine della terapia nelle fasi iniziali della
malattia. lo shock ipovolemico è la principale causa di decesso precoce in
corso di pancreatite acuta.
L'infusione
di volumi anche notevoli di soluzioni cristalloidi è in genere sufficiente per
il riequilibrio della massa circolante. Il mantenimento di un'adeguata pressione
oncotica mediante soluzioni colloidali o l'aggiunta di albumina umana, come
sostenuto da alcuni, non sembra in realtà offrire vantaggi.
Le
trasfusioni possono essere necessarie nei casi di pancreatite emorragica, mentre
il plasma fresco congelato viene utilizzato solo per correggere una eventuale
coagulopatia.
Il
digiuno riduce al minimo gli stimoli alla secrezione pancreatica, principalmente
il rilascio di colecistochinina.
Esso
va mantenuto fino a normalizzazione degli indici biochimici di attività della
malattia. Una rialimentazione precoce può infatti accompagnarsi ad una ripresa
dei processi infiammatori. la ripresa dell'alimentazione orale avviene entro la
settima giornata dall'esordio nell'80% dei pazienti con Ranson <1. Deve
essere intrapresa una dieta rigorosamente ipolipidica.
Soprattutto
dopo pancreatite acuta severa, infatti, il quadro tomodensitometrico dimostra
alterazioni morfologiche del pancreas anche per settimane o mesi dopo la
completa remissione clinica e biochimica, e su queste potrebbe innescarsi una
riaccensione del processo pancreatitico.
L'aspirazione
naso-gastrica, prevenendo l'acidificazione del duodeno ed il rilascio di
secretina, dovrebbe ridurre ulteriormente la stimolazione pancreatica.
Nonostante
gli studi controllati disponibili non dimostrino un miglioramento significativo
sull'andamento della malattia, il posizionamento di un sondino nasogastrico in
aspirazione è comunque utile per il trattamento della nausea, del vomito,
dell'ileo paralitico e della distensione addominale e talora anche del dolore.
la misura della componente gastrica dei liquidi sequestrati è inoltre
importante per il riequilibrio idroelettrolitico.
Il
suo impiego è pertanto una pratica quasi universalmente accettata.
L'uso
dei farmaci anti-H2 mira a ridurre il volume della secrezione gastrica ed alla
profilassi delle lesioni acute da stress. Non è tuttavia dimostrata la sua
efficacia diretta sulla pancreatite.
Il
controllo del dolore necessita quasi sempre di un analgesico maggiore, che non
induca lo spasmo dello sfintere di Oddi (meperidina, pentazocina). La sedazione
del dolore può contribuire ad inibire la secrezione pancreatica, bloccando
riflessi centrali ed evitando l'instaurarsi di alterazioni riflesse
microcircolatorie a livello pancreatico.
L'uso
sistematico degli antilsiotici a scopo profilattico è ancora oggetto di
controversie. Tre studi randomizzati non hanno dimostrato l'efficacia
dell'ampicillina e di una cefalosporina nel ridurre la gravità della malattia e
le sue complicanze. Nelle forme gravi (Ranson >3), tuttavia, è opportuna la
loro somministrazione per ridurre l'incidenza di complicanze settiche
extrapancreatiche. A favore dell'antibiotico-profilassi sono anche le evidenze
di colture biliari positive in un terzo dei pazienti operati per pancreatite
acuta biliare entro 48 ore dall'esordio dei sintomi.
La
nutrizione parenterale totale (NPTl è sicuramente indicata nei pazienti che
necessitino di un prolungato digiuno (superiore ad una settimana) o per il
trattamento di una complicanza.È
stato dimostrato che un bilancio azotato negativo si correla significativamente
ad una più elevata mortalità.
Sembra
ragionevole introdurre il supporto calorico dalla 5a-6a giornata di malattia.
L'uso di emulsioni lipidiche non è controindicato, neppure nelle pancreatiti
acute associate ad ipertrigliceridemia.
Numerosi
farmaci ad azione inibente sulla secrezione pancreatica sono stati via via
sperimentati: aprotinina, glucagone, calcitonina, anticolinergici, somatostatina
ecc.
Nessuno
degli studi controllati disponibili ha dimostrato la loro utilità nel
migliorare la prognosi della pancreatite, malgrado il loro impiego si fondi su
un solido razionale.È
possibile che il pancreas interessato dal processo flogistico alteri
profondamente le sue capacità di risposta agli stimoli inibitori.
L'efficacia
della somatostatina, ultima nata nel campo degli inibitori pancreatici, è
documentata per quanto concerne la riduzione del dolore e la diminuzione dei
valori amilasemici, che si verificano più rapidamente nei pazienti trattati.
Resta ancora da dimostrare la sua effettiva utilità per quanto riguarda la
prognosi della malattia. I primi dati sperimentali relativi all'impiego
dell'analogo di sintesi della somatostatina (octreotide), sono per il momento
ancora incerti, anche se fortemente suggestivi.
LAVAGGIO PERITONEALE
Il
lavaggio peritoneale è stato proposto con lo scopo di ridurre l'assorbimento di
enzimi e sostanze tossiche. Numerosi studi sperimentali ne hanno confermato
l'efficacia. In clinica, la sua utilità sembra dimostrata per quanto riguarda
il miglioramento delle funzioni cardiocircolatorie, respiratoria e renale. Non
si riscontra tuttavia alcuna diminuzione della mortalità legata alla sepsi in
caso di pancreatite acuta severa.
Ciò
è probabilmente legato al fatto che la principale via di riassorbimento
sistemico di enzimi e tossine è rappresentata dai linfatici retroperitoneali,
inaccessibili al liquido di lavaggio nell'uomo (ma non negli animali utilizzati
nelle sperimentazioni, la cui anatomia non ricalca quella umana).
L'osservazione
che il lavaggio peritoneale non riduce i livelli di amilasemia è congruente con
questa teoria.
Un
approccio chirurgico che consenta anche il drenaggio-lavaggio degli spazi
retroperitoneali è divenuto un atteggiamento corrente di alcune Scuole
chirurgiche, con risultati promettenti.
TRATTAMENTO CHIRURGICO
Il
trattamento chirurgico della pancreatite acuta pone numerosi e talora ancora
irrisolti problemi di indicazione, timing e tattica operatoria.
Nel
5% dei casi, l'intervento viene intrapreso con finalità diagnostiche. La
laparotomia esplorativa, sebbene sembri leggermente aumentare la morbilità e
mortalità della malattia, rappresenta un'indicazione indiscussa, considerata la
prognosi e l'efficacia della chirurgia nei confronti delle patologie acute
addominali che vengono poste in diagnosi differenziale.
La
chirurgia trova inoltre giustificazione quando insorgano complicanze settiche
precoci e di fronte ad un deterioramento delle condizioni del paziente, non
compensato da una adeguata terapia intensiva. Questo sembra l'orientamento
prevalente della maggior parte degli Autori, malgrado le controversie riguardo
ad un atteggiamento più aggressivo non siano del tutto chiarite.
In
particolare, il problema si pone per quanto concerne la necrosi pancreatica ed
il trattamento della eventuale patologia biliare associata.
Nella
convinzione che la durata dell'ostruzione papillare rappresentasse il fattore più
importante nell'evoluzione sfavorevole di una pancreatite acuta biliare, alcuni
Autori hanno propugnato l'opportunità di un intervento precoce (entro 48 ore)
sulla via biliare, sia chirurgico (papillosfinterotomia e colecistectomia) sia
endoscopico.
Nella
maggior parte delle esperienze, tuttavia, la chirurgia precoce ha mostrato di
aumentare mortalità e morbilità, soprattutto nelle pancreatiti acute severe.
Si
va quindi consolidando l'orientamento di eseguire la sola colecistectomia nel
momento in cui il paziente abbia recuperato un discreto equilibrio emodinamico,
preferibilmente durante il medesimo ricovero (anche per il rischio non
trascurabile di una nuova poussée di pancreatite acuta).
La
papillotomia endoscopica e, in seconda istanza, l'intervento diretto sulla via
biliare, vanno riservati ai casi con documentata ostruzione papillare completa.
La
necrosi pancreatica può essere letale anche in assenza di infezione. Alcuni
chirurghi, pertanto, hanno sostenuto l'opportunità di interventi precoci di
necrosectomia o addirittura l'utilità di resezioni pancreatiche estese.
Il
razionale di questi interventi nel trattamento della pancreatite acuta è la
possibilità di una evoluzione dei focolai flogistici nel pancreas residuo
apparentemente normale. Tuttavia, la mortalità dopo resezione pancreatica è in
questo caso estremamente elevata (40% per le resezioni distali, oltre il 50% per
le pancreasectomie totali e le duodenocefalopancreasectomie). Il loro impiego è
stato pertanto praticamente abbandonato.
In
una percentuale limitata di pazienti, che non rispondono alla terapia
conservativa e nei quali la TAC dimostri la presenza di necrosi estese (a
maggior ragione se queste si dimostrino infette dopo esame batteriologico
dell'agoaspirato), l'intervento rappresenta attualmente l'unica possibilità per
invertire l'andamento della malattia.
L'ablazione
chirurgica delle zone necrotiche (sequestrectomia) va comunque fatta seguire da
un ampio drenaggio della loggia pancreatica, così da consentire la fuoriuscita
dei frammenti necrotici non asportabili chirurgicamente.
Nelle
forme più gravi, quando il chirurgo constati la elevata probabilità di una
evoluzione dei fenomeni flogistici o ragioni tecniche impediscano la rimozione
di tutte le aree necrotiche, può essere attuato il cosiddetto trattamento
aperto.
In
questi casi, la ferita laparotomica non viene suturata ma coperta con una rete
di materiale eterologo, apribile mediante una semplice cerniera-lampo o Velcro.
Altri Autori preferiscono zaffare la cavità con grosse compresse di garza o
ricoprire l'addome con una pellicola plastica. Questo procedimento, seppure non
scevro di complicanze, permette di operare successive revisioni della cavità
addominale (in genere ogni 2-3 giorni) e un completo drenaggio degli essudati.
La
stessa tecnica è stata adottata per il trattamento degli ascessi pancreatici
multipli. I risultati sono complessivamente positivi, anche in considerazione
della gravità dei pazienti trattati.
Il
trattamento degli ascessi pancreatici prevede infatti il drenaggio chirurgico
delle raccolte con ampio sbrigliamento delle zone necrotiche. L'aspirazione e
drenaggio percutaneo è in queste forme di grande utilità diagnostica, ma solo
in casi particolarmente selezionati può essere proposto come trattamento
definitivo. Vi sono comunque segnalazioni recenti di guarigioni di ascessi
pancreatici trattati con drenaggio percutaneo, soprattutto quando la complicanza
si manifesti in pazienti stabilizzati a considerevole distanza dall'episodio
acuto (fig.07xa/b).
Questo
tipo di trattamento sta invece modificando l'atteggiamento terapeutico per
quanto riguarda le pseudocisti pancreatiche. Per pseudocisti a rapido
accrescimento, con diametro maggiore di 4 cm, infette e che non regrediscano
dopo 6 settimane dalla comparsa, il drenaggio percutaneo si è infatti
dimostrato estremamente efficace, in grado di ottenere la guarigione definitiva
della complicanza in un'alta percentuale di casi.
Esso
si può oggi considerare a ragione il trattamento di scelta della maggior parte
delle pseudocisti post-necrotiche. La terapia chirurgica trova comunque ancora
la sua indicazione quando, a distanza dall'episodio acuto, le dimensioni della
massa comportino una dislocazione importante dei visceri circostanti, una
compressione dell'albero biliare (fig.08x)
oppure, sempre, in caso di emorragia intracistica e rottura.
LA PANCREATITE CRONICA
La
pancreatite cronica è una affezione della ghiandola pancreatica caratterizzata
dalla progressione di alterazioni distruttive irreversibili a carico del
parenchima esocrino ed endocrino, con fenomeni riparativi evolventi verso la
sclerosi del parenchima stesso.
Tale
affezione viene classificata in due forme principali: calcifica e ostruttiva.
L'eziologia della prima forma è legata essenzialmente al consumo cronico di
alcool e/o alla malnutrizione. Le forme ostruttive sono quelle nelle quali il
danno parenchimale è legato ad un ostacolo lungo la via escretrice pancreatica,
rappresentato da varie patologie quali neoplasie, odditi, sclerosi duttali post-
pancreatite acuta. Oltre a queste forme si riconoscono le cosiddette pancreatiti
croniche idiopatiche che, nel mondo occidentale, raggruppano circa il 5 % dei
casi. Forme più rare sono quelle legate all'iperparatiroidismo o la forma
familiare ad esordio precoce.
Patogenesi e fisiopatologia
La
maggior parte delle pancreatiti croniche sono inquadrabili nelle forme
"calcifiche", la cui caratteristica principale è rappresentata dalla
presenza di precipitati intracanalari proteici a vario contenuto di carbonato di
calcio. Questi precipitati, che sono alla base del danno duttale e quindi
parenchimale esocrino, determinano una distribuzione multifocale delle lesioni,
elemento distintivo importante nei confronti del secondo gruppo nosologico di
pancreatiti croniche, cioè quello delle forme ostruttive. Qui, un ostacolo
isolato su un dotto pancreatico, quali una neoplasia o una stenosi duttale
cicatriziale, determina un processo infiammatorio settoriale con distribuzione
uniforme delle lesioni a carico del parenchima pancreatico a monte
dell'ostacolo. Le due forme di pancreatite cronica, calcifica e ostruttiva, si
distinguono dunque nettamente per patogenesi ed evoluzione topografica.
Nella
forma calcifica, il danno sul parenchima esocrino determina l'attivazione di
processi riparativi in senso sclerotico che coinvolgono diffusamente la
ghiandola ed i tessuti perighiandolari. Si verificano inoltre modificazioni del
tessuto nervoso, caratterizzabili in una lesione del perinevrio e nell'aumento
del numero e diametro delle fibre nervose peripancreatiche, cui sarebbe in parte
legata la genesi del dolore da pancreatite cronica. La presenza dei precipitati
endocanalari (fig.09x)
determina la lesione dell'epitelio dei dotti, l'aumento di volume della
ghiandola con dilatazione del sistema duttale pancreatico e la comparsa di uno
stato ipertensivo al suo interno, al quale è pure correlabile l'insorgenza
della sintomatologia dolorosa. La dilatazione dei dotti pancreatici può
arrivare al punto di configurarsi come cisti vere ossia in una marcata
dilatazione rotondeggiante di un dotto (fig.10x) la cui rottura all'esterno della ghiandola è alla base della
comparsa delle pseudocisti ritenzionali (fig.11x),
complicanza di frequente riscontro nelle pancreatiti croniche calcifiche in
stadio avanzato.
Vi
sono dunque elementi anatomopatologici distintivi e caratteristici delle
pancreatiti croniche calcifiche rappresentati dalla presenza dei precipitati
proteici, dalla sclerosi tissutale e dalla dilatazione del sistema duttale, cui
possono associarsi, in corso di fenomeni acuti sovrapposti, lesioni
caratteristiche del processo acuto, quali edema e necrosi emorragica. I fenomeni
sclerotici, oltre ad interessare direttamente la ghiandola, coinvolgono le
strutture anatomiche circostanti rendendosi responsabili sia delle frequenti
stenosi dell'albero biliare, sia delle implicazioni vascolari della pancreatite
cronica.
Clinica e storia naturale
A
questo quadro anatomopatologico, corrispondono sia un'alterazione della
funzionalità ghiandolare che si esprime nell'insufficienza pancreatica
esocrina, con conseguente malassorbimento e steatorrea, ed endocrina, con
intolleranza glucidica, sia una sintomatologia specifica caratterizzata
sostanzialmente dal dolore pancreatico e dal calo ponderale.
Clinicamente,
infatti, la pancreatite cronica che interessa solitamente soggetti giovani,
maschi ed alcolisti, è caratterizzata dalla comparsa di dolore addominale che
si manifesta con crisi prolungate della durata anche di giorni, a sede nei
quadranti addominali superiori più frequentemente in epigastrio, con marcata
irradiazione dorsale. Tale sintomatologia condiziona spesso il calo ponderale
caratteristico di questa patologia, che diventa via via più Importante in
occasione degli episodi di riacutizzazione del dolore. Il calo ponderale ritrova
la sua causa anche nel malassorbimento da insufficienza esocrina e nel diabete
da compromissione endocrina.
L'interessamento
sclerotico delle strutture peripancreatiche può poi condizionare la comparsa di
altri segni e sintomi quali, da una parte, l'ittero da stasi per stenosi della
porzione intrapancreatica della via biliare principale, e dall'altra le
manifestazioni cliniche dell'ipertensione portale segmentaria causata dalla
sclerosi compressiva del sistema portale.
La
presenza di cisti pancreatiche ritenzionali e di pseudocisti post-necrotiche,
nelle forme di pancreatite cronica in stadio avanzato, può condizionare la
comparsa di quadri sintomatologici caratteristici di queste formazioni, che
possono rappresentare l'indicazione all'intervento chirurgico, dal momento che
le cisti pancreatiche ritenzionali hanno scarsa tendenza alla risoluzione
spontanea (fig.12x).
Al
contrario esse possono essere la causa di un aggravamento della sintomatologia
dolorosa ed essere responsabili di un decorso atipico nell'evoluzione della
pancreatite cronica stessa. In realtà, se si esclude questo gruppo di pazienti,
si possono identificare, in base alla sintomatologia dolorosa, due gruppi di
soggetti affetti da pancreatite cronica: da una parte quelli in cui la storia
naturale della malattia è caratterizzata da episodi transitori di dolore
inframezzati da pause libere; dall'altra quelli in cui la malattia ha un decorso
senza dolore o con una sintomatologia algica che, con il tempo ed in
concomitanza con l'aggravamento e quindi l'esaurirsi della funzione esocrina,
tende a scomparire come in effetti accade in circa il 60% dei casi. La presenza
di una sintomatologia dolorosa con caratteristiche diverse da quelle sopra
esposte deve far pensare ad una complicanza locale quale quella cistica.
La
storia naturale della pancreatite cronica è dunque caratterizzata all'esordio
da una fase clinicamente silente, cui fa seguito la comparsa di episodi di
dolore addominale transitorio, spesso inquadrati inizialmente come forme di
pancreatite acuta ricorrente in quanto, nelle fasi precoci, le alterazioni della
funzionalità pancreatica sono spesso non rilevabili al di fuori della crisi.
Solo l'esecuzione di test seriati permette di classificare correttamente il
processo patologico come forma cronica. Il progredire dei fenomeni distruttivi a
carico del parenchima pancreatico porta da una parte alla comparsa dei segni di
insufficienza esocrina ed endocrina ad aggravamento progressivo, e dall'altra
alla frequente remissione spontanea della sintomatologia dolorosa, in
percentuali superiori all'80% a 5 anni dalla comparsa delle prime manifestazioni
cliniche di malattia.
Nei
Paesi occidentali la pancreatite cronica calcifica è per la maggior parte
legata all'alcool ed alla dieta iperproteica ed iperlipidica dell'alcolista. Nei
Paesi del terzo mondo, viceversa, la pancreatite cronica trova la sua eziologia
prevalente nella malnutrizione.
Clinicamente
le forme non alcoliche si caratterizzano, rispetto a quelle secondarie a consumo
di alcool, per un decorso meno grave, frequentemente senza dolore e con una
compromissione esocrina ed endocrina spesso più lieve.
In
queste forme, inoltre, la comparsa di calcificazioni precede, generalmente, la
comparsa dell'insufficienza esocrina, a differenza della pancreatite alcolica
dove queste compaiono, più frequentemente, associate.
Diagnostica
La
diagnostica della pancreatite cronica comprende sia lo studio funzionale della
secrezione esocrina ed endocrina del pancreas, sia lo studio delle alterazioni
morfologiche della ghiandola; la duplice finalità degli esami diagnostici è
rivolta all'evidenziazione di una insufficienza pancreatica dapprima e alla
quantizzazione di tale insufficienza successivamente. Lo studio funzionale della
secrezione esocrina si basa sia sui test diretti quale il sondaggio duodenale
dopo stimolazione con secretina e ceruleina che sugli studi indiretti quali il
test all'acido N-benzoil-tirosil-p-aminobenzoico (NBT-PABA) ed il test al
pancreolaurile.
Il
primo test consiste nella valutazione della quantità di secrezione pancreatica
raccolta, previo sondaggio duodenale, dopo stimolazione ormonale esogena
(secretina-ceruleina). I limiti principali di questa metodica consistono nel suo
costo elevato e nella bassa tollerabilità da parte del paziente, e per tali
motivi essa è attualmente sempre meno utilizzata. Ciò nonostante la sua
accuratezza è decisamente elevata, aggirandosi attorno al 95-97 % e, ciò che
è più importante, permane tale anche nelle forme più lievi. Ciò fa sì che
tale indagine sia elettiva nella diagnosi delle pancreatopatie croniche
iniziali, laddove la diagnostica strumentale è difficilmente in grano di
identificare la condizione patologica.
I
test indiretti di funzionalità pancreatica presentano invece il vantaggio di
essere facilmente eseguibili e ben tollerati. Essi si basano sul dosaggio
urinario di una sostanza somministrata per via orale ed il cui assorbimento
intestinale dipende dalle attività enzimatiche pancreatiche. Tuttavia, sebbene
essi siano in grado di dimostrare in modo sufficientemente accurato la presenza
di una insufficienza esocrina grave, la loro utilità è scarsa nelle
pancreatopatie di grado lieve e moderato, dove la sensibilità della metodica è
bassa per l'elevato numero di falsi negativi.
Il
dosaggio dei lipidi nelle feci ha un significato clinico limitato, in quanto la
steatorrea compare solo quando la secrezione di lipasi è compromessa per oltre
il 90%, quindi in una pancreatopatia in stadio decisamente avanzato.
DIAGNOSTICA STRUMENTALE
La
diagnostica strumentale delle pancreatiti croniche rimane sostanzialmente
imperniata sulla ecografia nella sua classica modalità percutanea o quella più
attuale perendoscopica (EUS), nella pancreatografia retrograda e, in parte,
nella tomografia assiale computerizzata.Limitato è invece l'apporto della
risonanza magnetica nucleare per la quale non è tuttora individuabile uno
specifico settore di applicazione all'interno della patologia pancreatica
cronica.
Nel
trattare la diagnostica delle pancreatopatie croniche, va ricordato come la
radiografia in bianco dell'addome, nelle ricerca delle calcificazioni o calcoli
pancreatici, mantiene un significato importante. La dimostrazione di sottili
opacità calcifiche intraparenchimali, evidenziabile nel 30% delle pancreatiti
iniziali e nel 70% delle forme avanzate, contribuisce alla diagnosi di malattia
e dà indicazione della sede cefalica, corpocaudale o diffusa del processo
infiammatorio.
L'ecografia
è la metodica diagnostica strumentale di primo livello nello studio della
pancreatopatia cronica. Essa permette di esplorare la ghiandola pancreatica alla
ricerca di un suo aumento di volume, della presenza di zone sclerotiche o
calcifiche nel suo contesto e della visualizzazione di dilatazioni e cisti del
dotto di Wirsung, oltre a dimostrare eventuali compromissioni del sistema
portale adiacente. Un reperto di normalità dell'esame ecografico è tuttavia
possibile nel caso di forme lievi di pancreatopatia, ove le alterazioni
morfologiche non siano ancora chiaramente evidenti. Per tali motivi la
sensibilità dell'ecografia percutanea risulta bassa aggirandosi attorno al
65-70%; nella diagnosi delle forma lievi e moderate di pancreatite cronica è
necessario ricorrere all'associazione dei test diretti di funzionalità che
presentano una maggiore sensibilità diagnostica.
Nella
sua modalità perendoscopica, l'utilizzo di frequenze sonografiche più elevate
consente un migliore studio della morfologia ghiandolare, soprattutto diretta
alla definizione del piccolo nodulo intra-parenchimale quando sussista il dubbio
diagnostico tra neoplasia e nodulo di sclerosi. Con questa metodica, infatti,
l'eliminazione delle barriere fisiche alla propagazione degli ultrasuoni, quali
aria e tessuto adiposo, consentito dall'utilizzo dell'endoscopio che porta la
sonda esplorante ecografica direttamente a contatto con il viscere in esame, ne
consente uno studio più accurato. Gli strumenti di ultima generazione sono
inoltre dotati di un canale operatore con possibilità di agoaspirati mirati
sotto guida ecografica. Ciò consente di eseguire uno studio citologico mirato
nei casi in cui l'ecografia dimostri la presenza di un nodulo parenchimale e sia
necessaria la diagnosi differenziale con una neoplasia. L'EUS può inoltre
fornire dati accurati nello studio delle complicanze della pancreatite cronica
quali le pseudocisti in cui essa consente di valutare lo stato della parete
cistica ed i suoi rapporti con le strutture adiacenti.
La
colangio-pancreatografia retrograda endoscopica (CPRE) è considerata lo
strumento diagnostico elettivo per la diagnosi e stadiazione delle
pancreatopatie croniche, ed è di fondamentale importanza nello stabilire
l'indicazione e la tattica chirurgica. Essa dà un quadro delle alterazioni
morfologiche della ghiandola dimostrando la presenza di modificazioni duttali di
tipo stenotico o dilatativo e l'eventuale presenza dei precipitati
intracanalari, con una accuratezza prossima al 90%; la metodica, inoltre,
visualizza l'albero biliare, precisandone l'eventuale compromissione ed il suo
grado (fig.14x).
Nella
descrizione dei quadri pancreatografici sono state proposte numerose
classificazioni, tra cui una delle più diffuse è quella di Kasugai che
classifica le pancreatiti croniche in forme lievi, quando le modificazioni in
senso sclerotico interessano solo i dotti più periferici, moderate, quando
dilatazioni e stenosi interessano il dotto principale (fig.15x), e gravi
quando questo quadro risulta particolarmente marcato e sono presenti cisti.
Tuttavia la correlazione tra modificazioni morfologiche della CPRE e il danno
funzionale ghiandolare risulta evidente solo nelle forme avanzate di
pancreatopatia, mentre il riconoscimento e la classificazione delle forme lievi
di pancreatite cronica rappresenta tuttora un problema diagnostico e clinico.
Per
ciò che concerne il riconoscimento delle alterazioni indotte dal processo
pancreatitico, la TAC risulta in parte sovrapponibile all'ecografia: essa
delinea le alterazioni di volume e forma della ghiandola pancreatica,
dimostrando la presenza di cisti e dilatazioni del dotto pancreatico (fig.16xfig.17x)
ed eventuale interessamento delle strutture anatomiche in contiguità (stenosi
della via biliare principale, trombosi del sistema portale o pseudoaneurismi
arteriosi), con una accuratezza prossima al 90%. Anche per la tomografia,
tuttavia, vi è il limite della risoluzione nelle piccole dilatazioni del dotto
pancreatico, ossia nella identificazione delle forme lievi di pancreatopatia.
Rispetto
alla ecografia la TAC presenta il vantaggio di fornire informazioni sul pattern
vascolare dell'organo in esame e quindi di dare indicazioni di diagnosi
differenziale nel caso di massa pancreatica dove vi sia il dubbio di malignità.
Va inoltre ricordato come sia la ecografia sia la TAC consentono l'esecuzione di
biopsie guidate per la diagnosi citologica od istologica di lesioni focali
intraparenchimali.
La
Risonanza Nucleare Magnetica ha invece uno spazio ancora limitato nella
diagnostica della pancreatite cronica, ed in particolare non è in grado di
visualizzare in modo accurato le calcificazioni né le dilatazioni del Wirsung.
In
conclusione si può schematizzare l'approccio diagnostico alla pancreatite
cronica nella seguente modalità: nel paziente che presenti il sospetto di
pancreatite cronica con dolore quale sintomo più eclatante, va eseguita una
CPRE; laddove la sintomatologia sia invece caratterizzata più da segni di
insufficienza esocrina, vanno dapprima eseguiti i test di funzionalità
indiretta. Se entrambi questi esami risultano negativi ma permane il dubbio
diagnostico, allora vi è l'indicazione all'esecuzione di un test diretto di
funzionalità pancreatica, la cui sensibilità è la più elevata nelle forme
iniziali. Posta la diagnosi, la CPRE sarà utilizzata come metodica per la
visualizzazione morfologica dell'albero pancreatico, mentre ecografia e TAC
risulteranno utili soprattutto per la dimostrazione di complicanze legate al
processo infiammatorio cronico. La ecografia perendoscopica sarà, in questo
protocollo diagnostico, elettiva nei casi in cui si sia rilevata la presenza di
una piccola massa parenchimale per la diagnosi differenziale con una neoplasia
mediante l'esecuzione di un esame citologico per agoaspirato ecoguidato.
Terapia
Il
trattamento della pancreatite cronica è volto sostanzialmente alla correzione
dei sintomi, mentre esso sembra poter influenzare poco la storia naturale della
malattia la cui progressione verso l’insufficienza pancreatica terminale
avviene inesorabilmente.È
forse solo nelle forme
iniziali
di pancreatopatia che un trattamento medico ben condotto e l'assoluta
sospensione dell'alcool possono arrestare l'evoluzione del processo
infiammatorio.
La
terapia della pancreatite cronica si propone di alleviare il. dolore e di
correggere l'insufficienza esocrina ed endocrina.
L'approccio
al trattamento del dolore è dapprima medico e/o parachirurgico, e poi, ove
indicato, chirurgico. L'aspetto più importante nella terapia medica della
pancreatite alcolica è rappresentato dall'assoluta sospensione dell'assunzione
di alcool, elemento questo che consente di rallentare il deterioramento della
funzionalità pancreatica. L'influenza dell'alcool sul dolore è legata alla sua
azione quale potente secretagogo e la percentuale di pazienti in cui tale
sintomatologia dolorosa scompare o diminuisce è maggiore tra quelli che hanno
sospeso l'alcool.
Nel
trattamento del dolore pancreatico, la diagnostica gioca un ruolo fondamentale
in quanto in grado di dimostrare la presenza di complicanze del processo
patologico che sono alla base della specifica sintomatologia, quali pseudocisti
o ostruzioni biliari, e che richiedono un intervento, generalmente chirurgico o
parachirurgico, adeguato.
Il
trattamento medico del dolore pancreatico comprende la somministrazione di
analgesici dapprima minori, eventualmente associato ad ansiolitici, e quindi
maggiori. La somministrazione di tali farmaci deve generalmente essere
effettuata prima dei pasti in modo da alleviare le crisi postprandiali. Effetto
analgesico è stato attribuito alla terapia sostitutiva con enzimi pancreatici
in virtù del fatto che essi ristabilirebbero il meccanismo di feedback negativo
interrotto dalla condizione di insufficienza esocrina. Infatti, se in condizioni
normali la presenza in duodeno di enzimi pancreatici inibisce la immissione in
circolo dei secretagoghi quali la colecistochinina e la secretina, nel corso
della pancreatite cronica con insufficienza esocrina la mancanza di tali enzimi
non regola la increzione di questi ormoni.
La
correzione dell'insufficienza esocrina, quindi della steatorrea e del
malassorbimento, si basa sulla somministrazione di estratti pancreatici
associata a quella di farmaci H2-bloccanti in quanto gli enzimi pancreatici
vengono denaturati irreversibilmente a pH inferiore a 4. Gli estratti
pancreatici devono essere somministrati in dosaggio sufficiente a fornire almeno
100.000 unità FIP (Fédération Intern ation ale Pharmaccutique) di lipasi; le
preparazioni in commercio attualmente in Italia hanno un contenuto medio di
9.000-10.000 unità FIP di lipasi, e vanno quindi somministrate in dosi
multiple. la somministrazione degli enzimi, oltre a correggere almeno
parzialmente il malassorbimento, può contribuire a diminuire, come già detto,
la frequenza delle crisi dolorose, agendo sul meccanismo di feed-back nella
regolazione della secrezione pancreatica.
La
correzione dell'insufficienza endocrina si riassume sostanzialmente nel
controllo dell'iperglicemia da insufficiente produzione di insulina; le restanti
alterazioni dell'equilibrio ormonale, pur evidenziabili, sono di minore
importanza clinica.Il regime ipocalorico, a causa del frequente malassorbimento
coesistente, è mal applicabile in questi pazienti ed il trattamento
dell'iperglicemia viene effettuato con la somministrazione di insulina sotto
costante controllo della glicemia per il rischio di crisi ipoglicemiche acute,
legate in parte alla irregolarità nell'assunzione di cibo, a sua volta
correlato agli episodi depressivi caratteristici di questi pazienti e al
tentativo di evitare la comparsa delle crisi dolorose, in parte alle alterazioni
della produzione di glucagone.
Le
metodiche parachirurgiche comprendono soprattutto i procedimenti di
alcolizzazione percutanea dei gangli celiaci, anche se la reale efficacia di
tale procedura non è mai stata obiettivamente dimostrata in trial clinici
controllati ed il suo effetto sembra essere solo transitorio e di breve
durata.Oltre a ciò vanno ricordate le tecniche di drenaggio perendoscopico
dell'albero pancreatico, che tuttavia sono ancora in ambito strettamente
sperimentale.
Anche
la chirurgia, così come il trattamento medico, non è in grado di modificare la
progressione della malattia, ma si propone di correggerne la sintomatologia e di
trattare le complicanze; sono queste ultime che guidano le indicazioni
all'intervento chirurgico e non la presenza di alterazioni anatomiche in assenza
di sintomi. Unica eccezione è quella del dubbio diagnostico differenziale nel
caso di una massa nel contesto della ghiandola pancreatica tra tessuto
infiammatorio e neoplasia.
L'indicazione
elettiva all'intervento chirurgico è dunque rappresentata dal dolore
pancreatico resistente alla terapia medica, in un soggetto che abbia sospeso
l'assunzione alcolica. La scelta del tipo di intervento si basa allora su dati
anatomici.È chiaro che la
dimostrazione di compromissioni anatomiche in grado di spiegare questa
sintomatologia, quale la presenza di cisti, pseudocisti, ostruzioni della via
biliare, e la loro correzione, guidano la scelta dell'intervento chirurgico. Ma
è soprattutto la visualizzazione dell'albero duttale pancreatico con le sue
modificazioni fornita dalla CPRE che guida la scelta tra un intervento
derivativo ed uno resettivo. In circa il 45-50% dei soggetti con pancreatite
cronica, la radiologia dimostra infatti un dotto pancreatico dilatato (superiore
o uguale a 1 cm) (fig.18x);
in questi casi, ove la genesi del dolore si ritiene legata all'incremento
pressorio endoduttale, l'intervento derivativo di pancreatico-digiunostomia ha
un'efficacia elevata (fig.19x), prossima all'85%, con una mortalità operatoria ed una morbilità
molto contenute.
Laddove
invece la CPRE dimostra un pancreas con dotti sclerotici e piccoli, oppure vi
sia la presenza di una o più lesioni a distribuzione peculiare settoriale quali
cisti o masse di natura non certa, o nei casi di inefficacia degli interventi di
drenaggio, l'intervento resettivo trova la sua indicazione specifica.
Le
resezioni cefaliche (intervento di Whipple) (fig.20x)
hanno ormai, nei Centri con esperienza di chirurgia pancreatica, una mortalità
operatoria ed una morbilità contenute, e una elevata efficacia nei casi di
corretta indicazione (70% di scomparsa del dolore a distanza dall'intervento).
La tecnica che prevede poi la conservazione del piloro (intervento di
longmire-Traverso) e quindi conserva integralmente lo stomaco (fig.21x),
dà dei risultati funzionali ottimali, ed è di evidente indicazione soprattutto
per questa patologia in cui il deficit pancreatico comporta già una forma di
malassorbimento.
Nelle
localizzazioni corpocaudali del processo pancreatico è possibile un intervento
di pancreatectomia distale con successiva pancreatico - digiunostomia
(intervento di Puestow).
I
risultati a distanza della terapia chirurgica della pancreatite cronica sono
comunque condizonati in gran parte dalla effettiva sospensione dell'assunzione
di alcool da parte del paziente; la prosecuzione del consumo d'alcool infatti,
determina un aggravamento più rapido della malattia, la frequente recidiva del
dolore ed una minore sopravvivenza a distanza.
Letture consigliate
Beger
H. G., Buechler M., Ditschuneit e Coll.: Chronic Pancreatitis. Springer-Verlag,
Berlino, 1990.
Bernades
P.: histoire naturelle de la pancréatite chronique. Méd. EtHyg., 47, 2657-2651, 1989.
Bevilacqua
G., DeRai P.: La pancreatite acuta. In V. Staudacher, G. Bevilacqua, B.
Andreoni: “Manuale di Chirurgia d’Urgenza e Terapia Intensiva Chirurgica”,
Masson, Milano, 393-414, 1987.
Sarles
H.: Classification et définition des pancréatites. Marseille, Rome,
1988; Gastroenterol. Clin. Biol., 13, 857-859, 1989.
Sarles
H., De Caro A. Multigner L. e Coll.: La pancréatite chronique calcifiante:
une réalité anatomo-pathologique parvenue au stade moléculaire de la
connaissance. Gastroenterol.
Clin. Biol., 7, 4-7, 1983.