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ARGOMENTI DI MEDICINA CLINICA
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Ultimo aggiornamento: 23.06.2007
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Lo
sviluppo del trombo avviene nei vasi sanguigni per la costituzione di una massa
solida composta da piastrine e da fibrina, nella quale restano inglobate cellule
ematiche.
Il
primo evento è generalmente rappresentato dall'adesione delle piastrine alla
parete del vaso e dalla loro aggregazione; l'attivazione dei fattori plasmatici
porta intanto alla produzione di una rete di fibrina che si estende
progressivamente trattenendo emazie nel suo contesto.
Nella
costituzione del trombo debbono quindi essere considerate come fasi fondamentali
l'adesione delle piastrine alla superficie del vaso, l'aggregazione delle
piastrine fra di loro, l'attivazione della coagulazione del sangue, che ha come
fenomeno finale la formazione della fibrina.
Le
piastrine aderiscono all'endotelio danneggiato o al subendotelio esposto dalla
lesione, modificano la loro forma, manifestano i recettori per i vari
attivatori, preparano la loro superficie per il coinvolgimento dei fattori
coagulativi.
Per
la concomitante attivazione dei fattori di contatto (meccanismo
"intrinseco") si scatena il meccanismo coagulativo plasmatico, che si
svolge attraverso le eccitazioni progressive dei fattori XII, XI, IX (con la
mediazione del fattore VIII) ed infine X. Più importante però è l'intervento
del Fattore Tissutale, il quale, assieme al fattore VII (meccanismo
"estrinseco"), accelera gli eventi coagulativi, shuntando la prima
fase della successione di attivazioni ed arrivando direttamente alla
stimolazione dei fattori IX e X.
La
trombina promuove la trasformazione del fibrinogeno in fibrina, che avviene per
polimerizzazione delle molecole di fibrinogeno.
Lo
svolgimento delle reazioni piastriniche e plasmatiche è controllato da una
serie di funzioni inibitorie che comprendono l'intervento della prostaciclina,
degli eparani parietali, della proteina C/proteina S, dell'antitrombina e di
altri inibitori delle proteasi plasmatiche.
Il
trombo può successivamente organizzarsi od andare incontro a dissoluzione a
causa dei dispositivi fibrinolitici ematici, rappresentati essenzialmente dalla
trasformazione a plasmina di un precursore inerte, il plasminogeno, ad opera
degli attivatori tessutali. Anche in questo caso il processo è condizionato
dall'influenza ostacolante delle antiplasmine.
La
genesi della trombosi riconosce ancor oggi i suoi momenti basilari negli
elementi della triade di Virchow: danneggiamento della parete vasale,
modificazione della corrente ematica, alterazioni ipercoagulative del sangue.
È però assodato che non è necessaria la partecipazione di tutti e tre
gli elementi perché si abbia la trombosi.
La
lesione intimale è senz'altro il più importante dei tre elementi, se non altro
per la possibilità di precipitare e di localizzare la trombosi. Essa induce
l'innesco sia del processo di aggregazione delle piastrine sia del processo di
coagulazione del plasma; inoltre la deformazione parietale (ad esempio la placca
ateromasica) dà luogo a mutamenti del flusso.
La
modificazione del flusso può avvenire per la creazione di flusso turbolento o
di flusso rallentato. Nel flusso turbolento il normale comportamento laminare si
trasforma in vorticoso; si creano, tangenzialmente all'ostacolo, zone di
differente velocità che possono portare le piastrine contro la parete, o
sottoporre le cellule ematiche a stress eccessivi, con liberazione di ADP dai
globuli rossi e dalle piastrine stesse; le zone vorticose a valle dell'ostacolo
rappresentano aree protette dall'effetto diluente della corrente, in cui le
piastrine ed i fattori attivati permangono il tempo sufficiente per realizzare
la deposizione dei primi nuclei trombotici. Il flusso rallentato favorisce la
trombosi facilitando la marginazione delle piastrine e riducendo
l'allontanamento dei fattori emocoagulativi attivati e dei filamenti di fibrina.
L'ipercoagulabilità
ematica è legata soprattutto al momento postoperatorio, al puerperio, a traumi
o anche a condizioni morbose come il diabete
mellito o all'assunzione di farmaci come i contraccettivi orali.
Attualmente si dà molta importanza agli stati di ipercoagulabilità congenita,
per difetto degli anticoagulanti fisiologici (carenza di antitrombina, di
proteina C ed S, resistenza alla proteina C) o per altre malattie ereditarie
(quali l'omocistinuria), o agli stati di ipercoagulabilità acquisita, legati
all'intervento di anticorpi antifosfolipidi (tipici del lupus eritematoso, ma
presenti anche in altre condizioni morbose). Essa dà luogo a trombosi
solitamente quando esiste una situazione locale, o di rallentamento del flusso o
di alterazione parietale, che ne accentui l'influenza.
È noto come le occasioni più intense di ipercoagulabilità possano
invece modificare in modo tale l'equilibrio omeostatico da creare, attraverso il
consumo di trombociti e di fibrinogeno, le premesse di una sindrome emorragica.
Un
eventuale aumento della viscosità del sangue per poliglobulia o iperprotidemia
può contribuire a ridurre la velocità della corrente ematica.
È importante distinguere la formazione del trombo nel settore arterioso
rispetto al settore venoso.Il trombo arterioso, sviluppandosi in condizioni di
rapido flusso circolatorio, è condizionato dalla presenza di un'alterazione
parietale (spesso la placca ateromatosa, talvolta deformata o fissurata) che
induce progressivamente l'adesione e l'aggregazione delle piastrine; il rapido
dilavamento delle proteine coagulative rende più tardiva e più difficile la
deposizione della fibrina. Il trombo venoso non riconosce spesso alcuna
derivazione da zone parietali danneggiate: ha invece nel rallentamento della
circolazione la sua causa più importante, in concomitanza con
l'ipercoagulabilità ematica: perciò nella sua generazione l'ingerenza delle
piastrine è scarsa e nel trombo esse si presentano distribuite assieme agli
altri elementi ematici in un reticolo uniforme di fibrina.
Da
quanto abbiamo finora delineato appare evidente come la terapia della trombosi
non possa essere univoca, in quanto non sono univoci i procedimenti, locali e
generali, che alla trombosi conducono.
È anche da considerare la fondamentale differenza tra prevenzione della
trombosi-nel senso di trattamento inteso ad impedire o comunque ostacolare la
comparsa e lo sviluppo del trombo-e terapia della trombosi, nel senso di cura
del fatto trombotico già instaurato.
A
seconda degli obiettivi, sono diversi i farmaci impiegabili: sostanze
ostacolanti le funzioni piastriniche, antivitamine K inibenti la formazione di
vari fattori di produzione epatica, eparina e sostanze eparinosimili a vari
dosaggi e a corrispondentemente vari effetti trombolitici, direttamente attivi
sul trombo già formato.
Questo
termine è entrato nell'uso per indicare i farmaci che ostacolano le funzioni
piastriniche (in particolare l'aggregabilità, nonché talvolta l'adesività
alla parete). Essi trovano indicazione prevalentemente nell'ambito della
prevenzione a lunga scadenza della trombosi, anche perché la semplicità di
somministrazione e la scarsità di effetti collaterali ne facilitano l'adozione
in trattamenti prolungati.
Il
loro impiego sembra appropriato soprattutto nelle diatesi trombogene ad
estrinsecazione arteriosa, nelle quali è preminente la partecipazione
trombocitaria, e naturalmente precipuamente nelle condizioni in cui è
documentabile un aumento dell'aggregabilità delle piastrine. Tuttavia essi
talvolta vengono usati nell'ambito di un orientamento terapeutico più vasto,
generalmente inteso come intervento nel meccanismo emostatico globale: in realtà
è logico ritenere che l'effetto antipiastrinico influenzi anche le altre fasi
della coagulazione, sia perchè le piastrine rappresentano una causa promuovente
e localizzante, sia infine perchè piastrine, parete, fattori plasmatici, eventi
emoreologici interferiscono tra di loro nel determinismo del processo
emocoagulativo.
La
capacità antirombotica dei farmaci antipiastrinici è di solito moderata,
nettamente inferiore a quella dell'eparina e degli anticoagulanti orali: è per
questo che le applicazioni sono più frequenti nell'ambito della prevenzione
dell'insorgenza della trombosi piuttosto che nel trattamento della trombosi in
atto, dal momento che l'antiaggregante riesce ad esercitare ben poca influenza
sul trombo già formato.
Attitudini
antiaggreganti sono state poste in evidenza per molti rimedi comunemente in uso
per le cure di forme morbose di vario tipo: di solito esse sono state
considerate come azioni collaterali, spesso favorevole complemento agli scopi
terapeutici principali, altre volte implicanti fastidiosi ed indesiderati
inconvenienti: molti antiinfiammatori, vasodilatatori, ipocolesterolemizzanti,
betabloccanti, calcioantagonisti, alcuni diuretici, antidiabetici orali,
chemioterapici, antimalarici hanno rivelato proprietà ostacolanti la
funzionalità piastrinica.
Se
è chiaro che questi farmaci possono provocare disturbi dell'emostasi, più
difficile è però dimostrare che essi siano realmente efficaci nella
prevenzione delle trombosi: in questo senso non hanno significato le impressioni
o le casistiche comunque non selezionate e non controllate.
In
base al meccanismo d'azione prevalente, gli agenti antipiastrinici possono
essere suddivisi in:
-inibitori
dell'adesione: destrano a basso peso molecolare, ticlopidina, prostaciclina.
-inibitori
della ciclossigenasi: aspirina, sulfinpirazone, indobufene.
-inibitori
del recettore per il trombossano: picotamide, trapidil.
-inibitori
del recettore per il fibrinogeno: ticlopidina.
-farmaci
che aumentano la disponibilità per l'AMP ciclico: prostaciclina, dipiridamolo.
-farmaci
che modificano i fosfolipidi di membrana: acidi grassi poliinsaturi omega 3.
Acido
acetilsalicilico. L'aspirina agisce come inibitore della cicloossigenasi
piastrinica e quindi della sintesi del trombossano A2, induttore della
aggregazione mediante la via amplificativa prostaglandinica. Si fissa
stabilmente alla cicloossigenasi mediante il suo acetile: le piastrine, non
avendo sintesi proteica, non possono produrre nuova cicloossigenasi e
conseguentemente mantengono fino alla loro scomparsa la preclusione
all'aggregazione: in relazione alla loro vita media, l'effetto perciò persiste
nel sangue, sia pure decadendo progressivamente, per 4-7 giorni.
È da notare però che l'ostacolo si estende su tutti i meccanismi
prostaglandinici dipendenti dalla cicloossigenasi, e quindi anche sulla
produzione di prostaciclina, potente antiaggregante, da parte delle cellule
dell'endotelio vascolare. Questa constatazione ha provocato parecchi dubbi e
discussioni (il cosiddetto Aspirin Dilemma) sulla reale efficacia complessiva
dell'acido acetilsalicilico e sulle dosi da usare. Poiché si è osservato che
la cicloossigenasi delle cellule endoteliali è meno sensibile alla inibizione
esercitata dall'aspirina, e che ad ogni modo le cellule endoteliali, provviste
di nucleo, sono in grado di ricostituire nuova cicloossigenasi con relativa
rapidità, si è pensato di utilizzare dosaggi molto bassi, allo scopo di
ottenere il solo blocco della formazione del trombossano piastrinico. Si è così
visto che la soppressione completa delle funzioni piastriniche può essere
ottenuta con dosi quotidiane intorno ai 50 mg, le quali non esercitano alcun
blocco sulla produzione endoteliale di prostaciclina.
È tuttavia da tener presente che il problema della contemporanea
interdizione della produzione di prostaciclina è apparso sopravvalutato alla
luce dell'esperienza clinica: le vecchie sperimentazioni controllate effettuate
coi dosaggi più elevati (1000-1500 mg al dì) hanno dimostrato che l'aspirina
anche a queste dosi esercitava effetti antitrombotici. Le posologie minori hanno
comunque l'indiscutibile vantaggio di ridurre i disturbi collaterali
(gastralgie, sanguinamento gastrointestinale).
Anche
altri antinfiammatori non steroidei mostrano capacità antiaggreganti,
solitamente molto minori e con durata d'azione molto più breve, per l'assenza
di un legame irreversibile con le piastrine stesse. In particolare è usato in
questo senso l'indobufene.
Il
sulfinpirazone, attualmente poco impiegato, causa pure il blocco della
cicloossigenasi piastrinica; è tuttavia probabile che vi partecipino altri
meccanismi e che l'effetto sia collegato al coinvolgimento di metaboliti.
Ticlopidina.
Sembra agire sulla membrana delle piastrine interferendo con il legame dei
recettori alle proteine adesive, soprattutto al fibrinogeno. Riduce anche
l'adesione delle piastrine al subendotelio. Il suo effetto, di notevole intensità,
si manifesta due-tre giorni dopo l'inizio della somministrazione e dura parecchi
giorni dopo la sospensione: ciò è compatibile con la trasformazione del
farmaco in metaboliti attivi.
La
ticlopidina è responsabile della comparsa di neutropenia (reversibile) nell'1%
circa dei soggetti trattati, particolarmente durante i primi mesi di cura: è
dunque necessario monitorare la terapia con attenti controlli ematologici.
E'
attualmente in avanzata sperimentazione clinica il clopidogrel, derivato della
ticlopidina ad effetto diretto.
Picotamide.L'adozione
degli inibitori della trombossanosinteasi, pure teoricamente interessante per la
possibilità di contrastare la formazione del trombossano senza ostacolare le
precedenti fasi di attività della cicloossigenasi, non è andata a buon fine:
infatti i farmaci con tali proprietà (derivati della benzidamina e
dell'imidazolo) hanno mostrato scarsissima efficacia (essenzialmente per
meccanismi di cortocircuito dell'effetto farmacologico). E' apparsa invece degna
di attenzione l'utilizzazione di sostanze con la proprietà di inibire i
recettori del trombossano. La più usata è la picotamide, derivato dell'acido
nattalico. Il trapidil, derivato pirimidimico il cui originario impiego
terapeutico si è sviluppato nell'ambito dell'insufficienza coronarica, potrebbe
pure esercitare un effetto simile.
Destrano
a basso peso molecolare. Il destrano a peso molecolare 70.000-40.000 è una
delle poche sostanze che riescono a ridurre l'adesione delle piastrine alla
parete. L'effetto compare parecchie ore dopo l'inizio dell'infusione e potrebbe
essere in relazione con metaboliti del farmaco oppure con le alterazioni che
esso può indurre sulla membrana piastrinica o sulle proteine del plasma: è
possibile che sia in relazione con un ostacolo sul fattore Von Willerbrand.
Il
destrano a basso peso molecolare però ha sulla coagulazione un'influenza molto
più complessa, che coinvolge vari altri processi, a causa delle proprietà
chimicofisiche relative alla sua costituzione macromolecolare; vi interferiscono
inoltre fenomeni di emodiluizione e di espansione del volume plasmatico, con
riduzione della viscosità ed aumento del flusso sanguigno.
Prostaciclina.
La prostaciclina è il più potente inibitore dell'adesione e della aggregazione
trombocitaria. Agisce sulle piastrine provocando l'attivazione
dell'adenilciclasi, con conseguente aumento dell'AMP ciclico intrapiastrinico,
Presenta contemporaneamente importanti capacità divasodilatazione.
Poiché
la sua adozione terapeutica è risultata praticamente impossibile, per l'emivita
brevissima e la facilità con cui provoca ipotensione, sono stati elaborati
derivati a maggior stabilità ed a minore effetto ipotensivo; in particolare
l'iloprost ha raggiunto applicazione clinica con buoni risultati nel trattamento
della malattia arteriosa periferica e con effetto perdurante nel tempo (forse
però con meccanismi non collegati con l'inibizione piastrinica).
Dipiridamolo.
Anche il dipiridamolo, almeno alle concentrazioni maggiori, agisce elevando il
livello intrapiastrinico dell'AMPc, mediante l'inibizione della fosfodiestersi;
a concentrazioni minori incrementa il tasso di adenosina nel plasma.
Da
solo appare scarsamente efficace (forse unicamente nel trattamento delle
arteriopatie periferiche). E' spesso usato insieme con l'aspirina, con risultati
non sempre bene documentabili, comprovati sufficientemente nel distretto
cerebrale e per la protezione della pervietà dei by-pass coronarici.
Un
modello d'azione simile presenta il dilazep.
Acidi
grassi poliinsaturi omega 3. La loro adozione terapeutica è stata conseguente
alla constatazione che in genere la popolazione a dieta prevalentemente ittica
si ammala di infarto e di forme vascolari con una frequenza minore della norma.
In particolare ciò è stato dimostrato nei Groenlandesi, i quali conservano
un'alimentazione ricca di pesci come il tonno, il merluzzo ed il salmone.
Tale
dieta comporta l'assunzione di quantità elevate di acido linolenico (omega 3),
al contrario della normale dieta europea che contiene soprattutto acido
linoleico (omega 6). Il nostro acido linoleico viene trasformato in acido
arachidonico, che viene poi elaborati nelle piastrine in trombossano A2 e nelle
cellule endoteliali in prostaciclina I/2. Invece l'acido linolenico viene
trasformato in acido cicosa-pentaeonico ed in acido docoesaenoico, che vengono
elaborati in trombossano A3 nelle piastrine ed in prostaciclina I/3 nelle
cellule endoteliali; la presenza di questi derivati nelle piastrine assicura
minore facilità all'aggregazione, mentre nelle cellule endoteliali le proprietà
antiaggreganti rimangono simili.
La
realtà di queste osservazioni è stata confermata da ricerche di tipo dietetico
ed attualmente dalla somministrazione di preparati contenenti acidi grassi
poliinsaturi omega 3 sotto forma di acido eicosapentaenoico e acido
docoesaeonico.
I
farmaci derivati dal dicumarolo (warfarin, acenocumarolo) sono detti
antivitamine K per il meccanismo della loro azione, o anticoagulanti orali per
l'usuale via di somministrazione.
Essi
agiscono ostacolando l'influsso della vitamina K sulle cellule epatiche ed
impedendo così la sintesi completa dei fattori vitamina k dipendenti
(protrombina o fattore II, fattori VII, IX, X): non essendo consentita la
carbossilazione dei residui di acido glutammico a livello dell'estremità aminoacidica dei fattori
coagulativi, viene preclusa l'assunzione da
parte loro di legami con gli ioni Ca++ ed il conseguente aggancio alle superfici
fosfolipidiche.
Il
tipo di ipocoagulabilità che i derivati della dicumarolo vengono ad indurre
(piuttosto intensa ma molto graduabile), nonché l'assunzione orale, sono
elementi di favore per la loro adozione nelle cure anticoagulanti di durata
anche molto lunga, nelle quali d'altronde il pericolo di trombosi (o di embolia)
sia sempre realmente imminente e quindi si possano considerare superabili gli
inconvenienti del trattamento, rappresentati dalla necessità di controlli
periodici e dal rischio, sia pur abbastanza remoto, di evenienze emorragiche:
l'indicazione è quindi soprattutto nel decorso dell'aterosclerosi coronarica e
periferica, o nella prevenzione della comparsa di embolie nei pazienti
presentanti fibrillazione atriale o portatori di protesi valvolari cardiache; a
più breve periodo nelle fasi subacute-subcroniche delle trombosi venose. Per la
possibilità di emorragia è invece rischiosa la profilassi antitrombotica in
condizioni post-chirurgiche o post-traumatiche o post-partum.
L'effetto
ipocoagulante delle antivitamine K si manifesta con una latenza di un paio di
giorni, in relazione alla progressiva caduta
della quota funzionalmente attiva dei fattori K-dipendenti. Il più
precocemente influenzato (5/6 ore dalla prima somministrazione) è il fattore
VII, che ha la più breve emivita biologica, mentre il fattore II, che ha
l'emivita più lunga, è quello che decade più lentamente (48/60 ore dalla
prima somministrazione).All'interruzione della terapia anche il recupero dei
fattori ai normali livelli è proporzionalmente lento, in relazione alla loro
velocità di produzione ed alla velocità di scomparsa dei farmaci dopo la
cessazione della somministrazione: l'emivita del warfin è di circa 30 ore,
mentre per l'acenocumarolo è di 10 ore.
Tuttavia
è da ricordare che il loro impiego influenza anche la produzione da parte della
cellula epatica di due dei principali fattori di inibizione fisiologica dei
processi coagulativi ematici: la proteina C e la proteina S (che esercitano un
effetto anticoagulante attraverso l'inibizione dei fattori V e VIII).
Il
dubbio che la riduzione contemporanea di queste attività ostacolanti dia luogo
ad una interferenza protrombotica è stato risolto grazie alle vecchie e nuove
documentazioni sulla reale efficacia antitrombotica della terapia con i derivati
dicumarolici e sulla mancanza di segnalazioni di eventi trombotici nelle terapie
protratte.
Non
solo: nella profilassi a lungo termine delle manifestazioni trombotiche nei
soggetti con difetti parziali congeniti di proteina C e di proteina S, si è
visto che l'anticoagulazione orale rappresenta un efficace provvedimento.
Però
in almeno una condizione la responsabilità della caduta degli anticoagulanti
fisiologici ad opera delle antivitamine k appare identificabile: le necrosi
cutanee, che possono comparire durante le primissime fasi della terapia, sono in
relazione con la troppo rapida ed intensa deplezione della proteina C la quale,
avendo un'emivita breve (circa 8 ore), scompare dal sangue più rapidamente dei
fattori coagulativi IX, X e II, ed induce quindi un iniziale squilibrio
ipercoagulativo, specialmente nei soggetti che già di base presentano tassi
ridotti di proteina C per deficit parziali.
E'
per questo che oggi si preferisce iniziare la cura anticoagulante orale con
dosaggi bassi, che evitino iniziali grossi scompensi nell'assetto dei vari
fattori ed antifattori, e -se possibile- embricare l'inizio della cura con dosi
progressivamente decrescenti di eparina, le quali per un paio di giorni
assicurino l'anticoagulazione fino alla realizzazione dell'effetto ipocoagulante
totale delle antivitamine K.
A
causa della variabilità della risposta individuale il trattamento con
antivitamine K deve essere seguito con controlli di laboratorio, i quali
permettano di regolare il dosaggio in modo da prefissare il grado di
ipocoagulabilità ritenuto più opportuno: i tests debbono
consentire di tenere i fattori influenzati dalla terapia entro un
determinato "range terapeutico", inteso come quella estensione di
valori al di sotto dei quali la cura può apparire inefficace ed al di sopra dei
quali può dar luogo a pericoli emorragici.
Fra
le varie prove proposte per il monitoraggio, è praticamente ormai da tutti
usato il "tempo di protrombina" ("PT"). Precedentemente (ed
ancora oggi nelle determinazioni eseguite per altri motivi, non in relazione con
il trattamento anticoagulante) il risultato era espresso come "attività
protrombinica": si consideravano come limiti terapeutici livelli tra il 15
e il 30%.
Tuttavia
è ormai reputata più opportuna l'espressione dei risultati secondo una
"ratio" ("PT ratio") che consiste nel rapporto fra
PT del paziente ed il PT di un pool di plasmi normali. Poichè la PT
ratio si presta tuttavia ad errori, dovuti al fatto che le tromboplastine usate
nei vari laboratori hanno potenza (sensibilità) diversa ( cioè hanno diverso
l'International Sensitivity Index o ISI, vale a dire l'indice di sensibilità
ottenuto mediante la comparazione della tromboplastina usata e la tromboplastina
di riferimento internazionale), la PT ratio di ogni laboratorio è sostituita
con la INR (International Normalized Ratio), costituita dalla PT ratio del
laboratorio moltiplicata per l'ISI della tromboplastina impiegata. In altri
termini l'uso dell'INR per la valutazione del risultato permette una
standardizzazione assoluta e generale del rilevamento del tempo di protrombina,
indipendentemente dal laboratorio in cui è stato eseguito.
Attualmente
i coagulometri automatici sono predisposti in modo di fornire direttamente
l'INR.
La
recente disponibilità di preparati di tromboplastina ricombinante con ISI di
1.0 offre la possibilità che l'INR del laboratorio corrisponda direttamente
alla standardizzazione generale.
Il
range entro il quale dovrebbe essere mantenuto l'INR è compreso, secondo gli
schemi tradizionali, tra 2 e 4,5. Peraltro attualmente è in atto una
riconsiderazione, con tendenza a ridurre i valori: si pensa che normalmente
siano sufficienti INR tra 2 e 3 (o, nel caso della profilassi a lunga scadenza,
tra 1,5 e 2,5). In alcune condizioni, come la prevenzione delle embolie nelle
protesi valvolari meccaniche, si adottano valori un po' maggiori.
Inoltre
nelle terapie croniche è ritenuto possibile non servirsi di trattamenti con
dosaggi variabili entro i range previsti, ma di adottare dosaggi minimali fissi
(tipicamente 1 mg di wafarin al giorno): sottolineo l'opportunità che anche in
questi casi non venga abbandonata l'abitudine ai controlli periodici, in quanto
la sensibilità agli anticoagulanti orali può comunque modificarsi notevolmente
nel tempo.
Le
antivitamine k possono - sia pure raramente- indurre complicanze emorragiche.
Esse contemplano numerosissime possibilità di estrinsecazione. Nell'adozione
degli anticoagulanti orali è importante indagare l'esistenza di situazioni
morbose facilitanti le emorragie, a carattere generale (età avanzata,
ipertensione arteriosa, insufficienza epatica, alterato assorbimento
intestinale), o a carattere locale (ulcere gastrointestinali, calcolosi renale,
neoplasie potenzialmente sanguinanti, vasculopatie cerebrali).
È del tutto evidente la sommazione che si verifica in occasione dell'uso
contemporaneo di sostanze agenti a livelli diversi del processo emostatico:
antiaggreganti, eparina, fibrinolitici. Si tratta di conseguenze spesso
indesiderate e potenzialmente pericolose, ma talvolta appositamente ricercate
proprio allo scopo di ottenere ipocoagulabilità spinte ed estese.
Ma
sono da tener presenti con attenzione anche le interazioni con farmaci non
direttamente interferenti col meccanismo emocoagulativo.
Esistono
farmaci che diminuiscono il potere anticoagulante delle antivitamine K.
Si
tratta dei barbiturici, della glutetimide, della carbamazepina, di
griseofulvina, di rifampicina, spironolattone. Essi agiscono per induzione
enzimatica, cioè stimolano la sintesi epatica di enzimi degradativi, i quali
incrementano la velocità del metabolismo degli anticoagulanti.
Più
numerosa è la serie dei farmaci che elevano il grado di effetto degli
anticoagulanti indiretti, e più vario è il meccanismo secondo il quale
agiscono.
Molte
sono le sostanze che intervengono spostando gli anticoagulanti dai legami colle
proteine e quindi rendendoli più rapidamente disponibili. In questi casi si ha
un potenziamento immediato dell'effetto, ma la semivita biologica
dell'anticoagulante viene abbreviata. In tale modo agiscono molti
antiinfiammatori non steroidei, i derivati dei fibrati, le difenildantoine.
Molti
rimedi diminuiscono la disponibilità di vitamina K. Così molti antibiotici e
chemioterapici orali possono avere influenza distruggendo la flora batterica
produttrice di vitamina K.
Ci
sono degli agenti, come la tolbutamide e la stessa difenilidantoina, che
competono con i dicumarolici per i medesimi recettori epatici, ritardandone di
conseguenza l'utilizzazione.
Altri
medicamenti aumentano l'attività
degli anticoagulanti bloccandone la
degradazione metabolica: tali il feniramidolo, il disulfiram, il
cloroamfenicolo, l'allopurinolo, la cimetidina, il cotrimossazolo.
Infine
alcuni farmaci sembrano agire incrementando l'affinità dei recettori epatici
verso gli anticoagulanti orali: si tratta della destrotiroxina, dei fibrati, di
alcuni steroidi anabolizzanti, probabilmente della chinidina.
Un
particolare problema riguarda l'uso degli anticoagulanti orali nella gravidanza.
È dimostrato che i derivati della cumarina attraversano la placenta. Nei
primi tre mesi di gravidanza essi sono facilmente responsabili di turbe
dell'organogenesi. Durante il parto possono provocare emorragie intracraniche
nel feto. Perciò nella gravidanza le antivitamine K potrebbero essere
consentite solamente nel periodo centrale, fra il IV e l'VIII mese.
Gli
anticoagulanti orali vengono escreti anche nel latte, sebbene in quantità
ridotte: è quindi conveniente che le pazienti sottoposte alla somministrazione
di antivitamine K evitino l'allattamento.
L'eparina
è costituita da mucopolisaccaridi acidi contenenti gruppi solforati.
Ha
un effetto diretto, che consiste nell'esaltazione dell'attività
dell'antitrombina III, inibitore naturale presente nel sangue. Mentre in assenza
di eparina l'inattivazione delle serinproteasi (trombina, fattori attivati X,
IX, XI, XII)da parte dell'antirombina procede molto lentamente, in presenza di
eparina l'antitrombina acquista
capacità di blocco estremamente più rapide.
L'azione
dell'eparina appare di tipo catalitico: dopo aver partecipato alla
neutralizzazione delle serinproteasi mediante la formazione di un complesso con
l'antitrombina, l'eparina se ne dissocia e può andare ad agire su altre
molecole disponibili di antitrombina. Il potenziamento della neutralizzazione
delle serinproteasi è però di grado differente: appare massimo per la
trombina, un po' minore per il fattore X attivato, molto minore ancora per i
fattori IX, XI, XII.
L'eparina
può interagire con un'altra sostanza, il cofattore eparinico II; questa
interazione sembra però evidente solo quando le concentrazioni di eparina sono
particolarmente alte e mostra proprietà inibenti solo verso la trombina.
L'attività
anticoagulante plasmatica dell'eparina è completata da un'altra non meno
importante attività antitrombotica svolgentesi a livello della parete
vascolare: l'eparina iniettata in circolo è captata dalle cellule endoteliali e
sulla loro superficie esercita la funzione di inibizione della trombina e sul
fattore X attivato; il legame con l'endotelio avviene molto velocemente, in modo
tale che l'apporto iniziale o le basse concentrazioni di eparina servono solo
alla saturazione dei legami endoteliali e non lasciano eparina libera nel
plasma: è solo dopo che l'assunzione parietale di eparina è stata completata
che essa può comparire nel sangue circolante ed esercitare la sua influenza
generale sulla coagulazione plasmatica.
Ciò
rende ragione della possibilità di ottenere con diversi dosaggi del farmaco
diversi risultati terapeutici: i bassi dosaggi, tali da consentire il deposito
sulla parete senza intervenire in circolo, possono offrire capacità locali di
prevenzione della costituzione del trombo, mentre non hanno influenza sul trombo
già in sviluppo; le dosi piene, tali da sovrastare la saturazione parietale e
fornire l'effetto anticoagulante plasmatico, si possono dimostrare in grado di
ostacolare l'ulteriore estensione di un trombo già in via di formazione.
Così,
a seconda delle finalità terapeutiche, si potranno scegliere le varie tecniche
di somministrazione dell'eparina.
Eparina
a dosaggio pieno. L'infusione endovenosa continua permette appunto di sfruttare
in toto l'effetto anticoagulante ematico dell'eparina. Ciò si ottiene quando il
tasso della sostanza nel plasma è superiore a 0,2 micron/ml, e l'APTT (tempo di
tromboplastina parziale attivata, che rappresenta il metodo più frequentemente
adottato per il controllo della terapia) è superiore al doppio del valore
normale: in genere sono necessarie posologie di 1200-1800 unità all'ora. Il
monitoraggio del trattamento è in questi casi necessario, perché la sensibilità
individuale all'eparina è molto variabile.
Qualora
il trattamento endovenoso non fosse realizzabile o non fosse mantenibile per il
tempo opportuno, è attuabile un trattamento sottocutaneo a dosi piene: in
questo caso il rischio emorragico è però maggiore e soprattutto è molto più
aleatoria la condotta da tenersi in caso di emorragia: infatti se l'emorragia
interviene in corso di infusione continua, è generalmente sufficiente
l'interruzione dell'infusione perché in breve la coagulazione plasmatica torni
alla norma; se interviene in corso di somministrazione sottocutanea non si può
evitare il permanere della dismissione dell'anticoagulante e bisogna ricorrere
all'uso ripetuto di solfato di protamina. In effetti quando la via endovenosa è
impraticabile, può essere consigliabile l'impiego per via sottocutanea di dosi
non alte (25.000 unità al giorno), le quali non dovrebbero essere in grado di
sviluppare un'elevata ipocoagulabilità ematica ma pongono minori problemi di
rischio emorragico.
La
condotta terapeutica a dosi elevate conduce quindi ad un effetto anticoagulante
intenso che coinvolge le varie fasi del processo emocoagulativo, ed in
particolare la reazione trombina-fibrinogeno.
È perciò indicata soprattutto nella profilassi a breve termine delle
trombosi (quindi nella prevenzione di una trombosi non ancora avvenuta ma
presumibilmente in via di formazione) o nella cura delle trombosi già in atto.
In questo caso l'eparina in verità non è in grado di aggredire il trombo già
costituito: in realtà essa mantiene il suo carattere di farmaco ad azione
preventiva, contrastando l'ulteriore deposizione di fibrina e la conseguente
estensione del trombo, impedendo la formazione di embolie e la comparsa di nuove
trombosi, infine mantenendo la pervietà delle reti circolatorie collaterali.
È pur vero che questo impegno profilattico molto spesso può giungere a
risultati effettivamente terapeutici, in quanto facilita l'intervento delle
attività naturali che possono ridurre od eliminare il trombo già costituito.
Questo
concetto del fondamentale carattere protettivo dei trattamenti anticoagulanti è
da tener ben presente quando ci si accinge ad interpretare i risultati ottenuti
nelle varie situazioni tromboemboliche. Il chiedere agli anticoagulanti la
"terapia " della trombosi è equivoco, perché è chieder loro più di
quanto essi siano in grado di fare: si tratta di farmaci la cui possibilità di
effetto entra in funzione al momento della somministrazione e non può quindi
comprendere una capacità retroattiva che possa ovviare a quanto è già
avvenuto. A questi farmaci si deve chiedere di evitare che la situazione venga
aggravata da ulteriori eventi od evoluzioni di tipo trombotico e di permettere
quindi che altri meccanismi-naturali od artificiali-sopravvengano a compensare
quanto è già accaduto.
Eparina
a basso dosaggio. Quando invece è presente solo uno stato iniziale e diffuso di
ipercoagolabilità che può precludere alla creazione di una trombosi
(generalmente venosa), ma in realtà la trombosi non è in atto e la possibilità
del suo verificarsi è solo frutto di una induzione probabilistica, la dose di
eparina necessaria è minore: come già abbiamo detto, è sufficiente quella
quantità che possa saturare l'endotelio e prevenire all'attivazione locale
della trombina e del fattore X.
In
queste circostante è conveniente che l'eparina sia data per via sottocutanea
(solitamente 5000 unità di soluzione concentrata al 25% ogni dodici ore o anche
ogni otto ore). In questi casi la concentrazione dell'eparina nel sangue
raggiunge un picco dopo 4 ore e si mantiene per 8-12 ore; tuttavia non è tale
da provocare modificazioni evidenti dei test di coagulabilità (APTT) per cui
non sono necessari controlli.
L'uso
dei bassi dosaggi per via sottocutanea è quindi legato alle sole condizioni,
relativamente acute, di predisposizione alla trombosi. Queste minidosi hanno il
vantaggio di poter essere impiegate molto largamente, anche in situazioni di
pericolo emorragico locale come dopo traumi, parti, interventi chirurgici: ciò
perché la loro influenza antitrombotica parietale non riesce ad ostacolare la
generazione di trombina in quelle zone (ferite, suture, ecc.) dove la ressi
vascolare consente una rapida ed elevata formazione di trombina.
Eparina
a basso peso molecolare. L'eparina convenzionale ad uso commerciale è
costituita da una miscela eterogenea di eparine, con varie proprietà
funzionali, con peso molecolare che varia da 4.000 a 30.000.
Le
eparine a basso peso molecolare (LMWH=Low-Molecular-Weight-Heparins) sono
ricavate dall'eparina convenzionale con il procedimento di depolimerizzazione
enziamtica o chimica. A seconda del procedimento usato, ne derivano eparina di
p.m. da 4.000 a 9.000, con caratteristiche simili ma non del tutto
sovrapponibili.
Il
loro impiego, soprattutto per l'uso sottocutaneo e la prevenzione di trombosi,
presenta qualche vantaggio sia come facilità di somministrazione sia come minor
frequenza di effetti collaterali.Ultimamente se ne è dimostrata l'utilità
anche nel trattamento delle trombosi in atto, a dosi piene.
A
causa della brevità della catena, esse riescono a formare con più facilità il
complesso binario con antitrombina e fattore Xa rispetto al complesso ternario
colla trombina: il rapporto di inibizione del fattore Xa è almeno doppio
rispetto a quello della trombina. Ciò permetterebbe un effetto più intenso
sugli stadi precoci dell'attivazione ipercoagulativa, con minori interferenze
sull'attivazione ematica finale.
Rispetto
all'eparina commerciale standard esse, dopo la somministrazione sottocutanea,
appaiono assorbite più completamente e più lentamente, risultandone una
persistenza in circolo doppia e permettendo così una unica iniezione ogni 24
ore.
Le
LMWH sono eterogenee: possiedono quindi differenti capacità di inibizione della
trombina e del fattore Xa e anche differenti profili di persistenza in circolo:
ciò rende problematico il controllo fra di loro con l'eparina standard.
Presentano
una certa attualità alcuni eparinoidi sintetici e semisintetici a basso peso
molecolare, quali il pentosan-polifosfato ed il dermatansolfato: essi sembrano
offrire qualità antitrombotiche connesse con la capacità di interazione col
cofattore eparinico II e colla attitudine a penetrare nella parete vascolare e
ad esplicarvi effetti simileparinici.
Effetti
collaterali. Tra gli effetti collaterali indesiderati che comporta l'uso di
eparina hanno naturalmente prevalenza le complicanze emorragiche che si possono
manifestare con i dosaggi pieni (i bassi dosaggi al più danno luogo ad ematomi
non gravi).
Tra
le complicanze non emorragiche è da tenere presente la possibilità di reazioni
allergiche e la comparsa di trombocitopenia: una trombicitopenia modesta può
esser rilevata nel 5% dei trattamenti, compare precocemente ed appare in
relazione all'influsso aggregante sulle piastrine posseduto dall'eparina; una
trombocitopenia grave è rarissima, compare più tardivamente (dopo 4-10
giorni), ed è in connessione a meccanismi immunologici che comportano la
formazione di aggregati piastrinici e quindi -paradossalmente- la conseguente
provocazione di manifestazioni tromboemboliche.
Le
eparine a basso peso molecolare presentano un minor effetto sulle piastrine e
sembrano coinvolte molto più raramente nella comparsa delle trombocitopenie
gravi.
Dopo
cure protratte può svilupparsi osteoporosi.
L'eparina
può essere utile nella anticoagulazione a lungo termine durante la gravidanza.
Essa non supera la placenta, non presenta effetto teratogeno, ed è facilmente
interrompibile; non si ritrova nel latte materno.
Finora
abbiamo visto che i farmaci analizzati esercitano nei confronti della trombosi
un'azione essenzialmente preventiva, poiché o cercano di impedire fin
dall'inizio la formazione del trombo o tendono ad ostacolarne l'estensione ed il
consolidamento.
Gli
agenti trombolitici invece mostrano capacità effettivamente aggressive verso il
trombo già formato, avendo il fine di provocare una concreta dissoluzione del
trombo mediante la progressiva lisi della fibrina che lo costituisce. In questo
senso è giustificato il termine di fibrinolitici con cui spesso sono chiamati,
in quanto è appunto attraverso la fibrinolisi che il farmaco giunge alla
trombolisi.
Gli
agenti trombolitici a nostra disposizione sono rappresentati dalla
streptochinasi, urochinasi, attivatore tessutale del plasminogeno (rtPA), APSAC,
scuPA. In realtà queste sostanze hanno tutte la funzione fondamentale di
attivatori del plasminogeno: esse agiscono trasformando il plasminogeno in
plasmina, enzima attivo, la quale ha il compito di demolire la fibrina: la
differenza fondamentale fra di esse è rappresentata essenzialmente dal grado di
specificità con cui limitano la loro azione alla fibrina, riducendo il
contemporaneo effetto litico sul fibrinogeno circolante: in questo senso la meno
specifica è la streptochinasi ed il più specifico è l'rtPA. Da non
dimenticare anche le differenze di costi: meno cara la streptochinasi, molto più
costosi urochinasi ed rtPA.
I
limiti della terapia trombolitica sono in effetti rappresentati dalla
contemporanea lisi del fibrinogeno circolante, occasione di rischio emorragico
sia per la fibrinogenopenia sia per la creazione dei prodotti di degradazione
del fibrinogeno ad influenza anticoagulante: in questo senso è però opportuno
riconoscere che in realtà il minor effetto litico in generale non è sembrato
comportare da parte dell'rtPA una marcata riduzione dell'incidenza di
complicazioni emorragiche. Comunque è pur vero che anche un fibrinolitico
ideale, che agisca cioè solo sulla fibrina senza modificare il fibrinogeno,
oltre che beneficamente distruggere il trombo, demolisce pur sempre dannosamente
qualsiasi altra formazione fibrinica incontri, e quindi anche il coagulo
emostaticamente utile che si è formato o che si sta formando su ferite
operatorie o traumatiche o su materiali protesici vascolari.
È infine da rammentare che non sempre alla scomparsa del trombo
corrisponde la guarigione della malattia trombotica, perché la
rivascolarizzazione può compiersi su territori nei quali l'ischemia ha ormai
prodotto modificazioni irreversibili.
L'efficacia
della trombolisi dipende anche da alcune condizioni inerenti il trombo stesso:
posizione, superficie, struttura interna, età del trombo. Sono più sensibili i
trombi ai quali l'attivatore può arrivare facilmente, attraverso collaterali
numerose o aggredendo superfici sufficientemente ampie; i trombi a prevalente
costituzione fibrinica; i trombi freschi che non presentano ancora modificazioni
fibrose; ovviamente i trombi di dimensioni minori.
Il
trattamento con trombolitici comporta il pericolo di emorragie.
È quindi importante avere dati sulla situazione emocoagulativa del
soggetto, nonchè accertarsi sulla presenza di controindicazioni: interventi
operatori, parti, traumi avvenuti 7-10 giorni prima, precedente esecuzione di
biopsie o di punture arteriose, pregressi fatti vascolari cerebrali, ulcere
gastrointestinali, ipertensione severa, epatopatie e nefropatie gravi.
Streptochinasi.
E' una sostanza prodotta dagli streptococchi emolitici, che opera indirettamente
come attivatore del plasminogeno. Il meccanismo della sua azione è in realtà
piuttosto complicato: la streptochinasi (che funge quindi da proattivatore) si
lega al plasminogeno stesso, formando un complesso streptochinasi-plasminogeno
che acquista la capacità di attivatore; a sua volta questo complesso va ad
attivare altro plasminogeno trasformandolo in plasmina.
Ciò
significa che per ottenere in circolo un alto tasso di attivatore (sotto forma
di complesso streptochinasi-plasminogeno) è necessario dare quantità di
streptochinasi sufficientemente elevate: solo così si potrà ottenere il più
possibile di attivatore che vada a permeare il trombo e il meno possibile di
plasmina nel circolo generale che attacchi il fibrinogeno plasmatico. In questo
senso lo schema di mantenimento comunemente usato è di 100.000 unità all'ora.
E'
necessario ricordare che nell'organismo possono esistere anticorpi
antistreptochinasi (che rendono necessarie dosi di attacco maggiori e che
possono essere responsabili di intolleranze iniziali) e che comunque questi si
formano dopo qualche giorno di trattamento.
Urochinasi.
E' invece un'attivatore diretto del plasminogeno, estraibile dalle urine ed ora
ottenuto con tecnica ricombinante. Rispetto alla streptochinasi ha il vantaggio
di non avere proprietà antigeniche, di non dover competere con eventuali
anticorpi formatisi in precedenza, di presentare un meccanismo d'azione molto più
semplice, poiché provoca senza reazioni intermedie la trasformazione del
plasminogeno in plasmina. In più, è stato dimostrato che l'urochinasi possiede
effettivamente una certa tendenza ad agire preferenzialmente in presenza di
fibrina.
La
dose piena efficace è stata stabilita in 4400 unità per kg e per ora;
posologie più basse, sulle 100.000 unità all'ora, sembrano pure efficaci.
APSAC.
L'APSAC (Complesso acilato strptochinasi-plasminogeno) in realtà agisce in
quanto contiene streptochinasi; tuttavia offre alcuni vantaggi di
localizzazione. Infatti la forma acilata del complesso è inattiva e il
complesso streptochinasi-plasminogeno può agire preferenzialmente a livello
della fibrina (in realtà anche per l'APSAC si registra un effetto
fibrinogenolitico evidente). Inoltre l'azione perdura per un tempo molto più
lungo, il che rende possibile anche la somministrazione in bolo unico.
rtPA.
Il recombinant tissue Plasminogen Activator è quello che agisce più
chiaramente a livello della fibrina del trombo, con minori influenze
fibrinogenolitiche.
Tuttavia
bisogna riconoscere che la sua somministrazione provoca ugualmente un evidente
grado di fibrinogenolisi.
Il
termine di terapia della trombosi sottintende, come abbiamo detto, possibilità
in parte preventive ed in parte realmente curative. Possiamo in pratica
distinguere: una profilassi a lungo termine (primaria e secondaria), una
prevenzione a breve termine, un trattamento della trombosi in atto in senso
anticoagulante ed in senso fibrinolitico.
Nell'armamentario
terapeutico dell'angina stabile appare utile l'integrazione con gli
antiaggreganti piastrinici (essenzialmente aspirina a dosi basse), che sembra
portare ad una riduzione della frequenza dell'evoluzione infartuale.
Nell'angina
instabile gli antiaggreganti (aspirina anche a dosaggi bassi, ticlopidina) sono
apparsi in grado di diminuire l'incidenza di infarto e la mortalità; non hanno
mostrato influenza sulla sintomatologia dolorosa. Invece l'eparina (a dosaggi
pieni) ha dato luogo ad un incremento della comparsa e della gravità degli
episodi anginosi, ma è apparsa più discutibile nell'opporsi all'evoluzione
infartuale.
Nella
prevenzione della trombosi dopo by-pass aortocoronarico sono stati rieriti
risultati di una certa positività con l'aspirina, tuttavia più evidenti se il
trattamento antiaggregante viene iniziato il più presto possibile (addirittura
precedentemente all'operazione, mediante la somministrazione di dipiridamolo).
La prevenzione della riocclusione dopo angioplastica coronarica si è rivelata
particolarmente problematica: in questo senso sembrano non mostrare beneficio
l'eparina e gli anticoagulanti orali, ed anche gli antiaggreganti sono apparsi
di scarsa efficacia (maggiore se associati a diete ricche di pesce o a preparati
contenenti acidi grassi insaturi omega 3).
E'
stata tentata una prevenzione primaria dell'infarto del miocardio con aspirina,
sollecitata da ricerche storiche secondo cui gli "aspirinieaters", cioè
i consumatori abutuali di aspirina, presentavano un minore rischio di infarto.
Tuttavia i due grandi trial, effettuati uno sui medici statunitensi ed uno sui
medici inglesi, ambedue con aspirina a dosi medio-basse, hanno fornito dati
dubbi nella riduzione della comparsa di infarto miocardico (positivi solo nello
studio americano) e dato ai limiti della significatività per un incremento
dello sviluppo di incidenti emorragici cerebrali.
Resta
naturalmente l'importanza della prevenzione dei fattori di rischio.
Nei
riguardi della terapia dell'infarto acuto del miocardio (IMA), e limitandoci ai
problemi sollevati dal trattamento anticoagulante e fibrinolitico, dobbiamo
ricordare come la necessità della sua attuazione fu chiara ai cardiologi solo
dopo il 1980, quando De Wood dimostrò angiograficamente che nell'85% almeno
degli infarti era ritrovabile all'interno delle coronarie un trombo ostruttivo.
Ciò indusse all'elaborazione di molti studi multicentrici, dei quali il primo e
più importante fu l'italiano GISSI 1 del 1986 (che utilizzò le
streptochinasi).
Essi
hanno permesso di concludere che l'impiego precoce dei trombolitici è in grado
di ridurre la mortalità del 25-50% entro i primi trenta giorni. Questa
riduzione si avvera se il trattamento è sufficientemente precoce, vale a dire
se viene instaurato entro 6 ore dall'insorgenza della sintomatologia. La terapia
loco-regionale intracoronarica non fornisce risultati differenti rispetto alla
somministrazione endovenosa. Non esistono differenze chiare tra le risposte
ottenute con streptochinasi, urochinasi, APSAC ed rtPA. Forse l'rtPA fornisce
una percentuale di disostruzioni leggermente maggiore ma anche una maggiore
frequenza di retrombosi: ciò probabilmente è in relazione al fatto che esso
induce una fibrinolisi più specifica ma anche una ipocoagulabilità minore.
Fra
gli end-points secondari, è stato verificato che la riperfusione coronarica
precoce si associa ad una migliore conservazione della funzionalità miocardica.
E'
presumibile che esistano possibilità di migliorare i risultati con
modificazioni degli schemi terapeutici. Il trial denominato GUSTO 1993 ha
dimostrato che una strategia accelerata di rtPA consente una ulteriore riduzione
della mortalità, una ricanalizzazione più precoce, una più netta
conservazione della contrattilità ventricolare.
Per
consentire una più ancora rapida applicazione della terapia trombolitica, è
stato proposto (ed è spesso attuato) che il trattamento venga iniziato ancor
prima del ricovero ospedaliero, a domicilio o durante il trasporto con
l'autoambulanza: presupposto è però una chiara valutazione delle
controindicazioni ed una diagnosi sufficientemente sicura (ecg a lettura
computerizzata, questionario, comunicazione con il medico del pronto soccorso).
Riguardo
all'associazione con altri anticoagulanti, l'efficacia dell'aspirina è ormai
fuori discussione. L'aggiunta dell'eparina ha dimostrato la sua utilità solo
nel caso che come trombolitico venga usato l'rtPA: evidentemente essa può agire
nel mantenere meglio la ricanalizzazione nelle condizioni in cui (come avviene
con l'rtPA) la sospensione del fibrinolitico comporta il rapido ristabilimento
di una coagulabilità normale o addirittura, almeno localmente, aumentata.
Le
emorragie sono state riscontrate all'incirca con la stessa frequenza coi vari
trombolitici. Fenomeni emorragici di una certa gravità possono avvenire nel 5%
dei pazienti (ed emorragie cerebrali nello 0,5% dei pazienti).
La
prevenzione secondaria delle recidive di IMA si avvale di numerose risorse
terapeutiche (betabloccanti, ACE-inibitori, nitroderivati) e naturalmente della
correzione dei fattori generici di rischio.
Gli
antiaggreganti -specificatamente l'aspirina- in studi di metanalisi hanno
dimostrato una reale capacità di ridurre la mortalità vascolare e l'infarto
non fatale; il risultato appare indipendente dal sesso e dall'età del paziente,
dall'esistenza dei fattori di rischio e delle dosi di acido acetilsalicilico
impiegate; il risultato sembra particolarmente evidente nel primo anno di
trattamento, e tendenzialmente positivo per qualche anno.
Gli
studi di metanalisi hanno permesso di apprezzare l'efficacia degli
anticoagulanti orali.
Nella
prevenzione a breve termine l'eparina sottocute al dosaggio di 12.500 unità al
giorno ha indotto una significativa riduzione delle recidive (Neri Serneri e
Rovelli); al contrario in questo caso gli anticoagulanti orali non hanno
dimostrato influenza.
Le
protesi valvolari cardiache comportano un tasso di complicanze tromboemboliche
particolarmente elevato per quelle di tipo meccanico, ma che si è
risotto coll'adozione delle protesi biologiche. Comunque ancora oggi esiste il
problema del rischio di tromboembolismo e la necessità della sua prevenzione,
soprattutto quando l'intervento di sostituzione valvolare sia eseguito su atri
ingranditi od in presenza di fibrillazione atriale.
Il
trattamento più adatto è apparso quello con anticoagulanti orali: in
precedenza si riteneva necessario che la terapia dovesse essere tale da
mantenere il tasso di coagulazione a valori di INR di 3-4; attualmente, almeno
per le protesi biologiche, sono sufficienti valori di INR di 2-2,5. Il
dipiridamolo è apparso, in alcuni studi, offrire un vantaggio supplementare se
impiegato insieme alle antivitamine K. Gli altri antiaggreganti non hanno
fornito prove favorevoli; negativa è stata l'esperienza della combinazione
della aspirina con i documarolici: l'incremento dell'incidenza di emorragie
risulta infatti troppo elevato.
Tale
affezione può essere occasione di embolie, prevalentemente cerebrali: la loro
profilassi con antivitamine K può essere proposta in presenza di fattori di
rischio addizionali (atrio dilatato, fibrillazione atriale).
Ormai
è ben evidente l'utilità degli anticoagulanti orali nella conduzione
terapeutica della fibrillazione atriale, in cui l'atrio ipopulsante si riempie
di formazioni trombotiche che facilmente danno luogo ad embolie periferiche o
cerebrali. La somministrazione può essere contaminata a tempo indeterminato nei
pazienti a maggior rischio (con cavità ecograficamente aumentate ed occupate da
trombi) o almeno praticata nei periodi di più grave minaccia embolica, che sono
identificabili colle fasi in cui viene instaurata una terapia dello scompenso.
L'aspirina
è apparsa una discreta alternativa, anche nel complesso meno efficace.
Quando
esistono trombi ventricolari sinistri, di formazione più o meno recente, appare
importante l'adozione di un trattamento con eparina a dosi piene, almeno allo
scopo di facilitare la scomparsa della parte di trombo mobile o protundente.
L'opzione alla trombolisi appare attendibile, ma comporta un certo rischio
(tuttavia accettabile, secondo alcuni Autori) di mobilizzazioni emboliche.
E'
da ricordare che nelle cardiopatie spesso lo scompenso provoca deficit notevoli
della funzione epatica, tali da rendere molto maggiore la sensibilità degli
anticoagulanti (soprattutto antivitamine K); d'altra parte, durante le fasi di
ricompenso, questi deficit tendono a scomparire, causando un aumento della
funzione epatica che rapidamente può elevare la tolleranza agli anticoagulanti
e rendere necessario un incremento progressivo della dose: in questo senso i
cardiopatici in condizioni di scompenso debbono essere controllati molto più
spesso e con più scrupolo.
Gli
accidenti vascolari cerebrali sono in realtà molto eterogenei. Essi possono
essere distinti fondamentalmente secondo la durata e la reversibilità in
attacchi ischemici transitori o TIA, in deficit ischemici reversibili o RIND, in
ictus progressivi e completi: il riconoscimento della loro etiopatogenesi,
localizzazione ed evoluzione è di notevole difficoltà, anche se attualmente
l'esecuzione della TC e della RMN consente diagnosi attendibili.
Nell'ambito
delle forme tromboemboliche non è possibile pensare ad una profilassi
farmacologica primaria: come abbiamo detto, i medici statunitensi arruolati
nello studio di prevenzione primaria dell'infarto con aspirina hanno lamentato
una notevole incidenza di ictus cerebrali emorragici.
Negli
ATTACCHI ISCHEMICI TRANSITORI il fine terapeutico è rivolto alla profilassi
della recidiva.
Il
trattamento anticoagulante con antivitamine K ha dato risultati dubbi in senso
preventivo, e comunque gravati da notevoli complicanze emorragiche.
Più
agevole appare la prevenzione con antiaggreganti. Il complesso dell'esperienza
con aspirina è apparso positivo, sia con dosaggi alti sia con dosaggi bassi;
l'associazione con dipiridamolo sembra offrire qualche vantaggio supplementare.
La ticlopidina, con questa indicazione, ha fornito risultati anche migliori
dell'aspirina. E' da ricordare come in molti casi possa essere considerata
l'alternativa chirurgica, che utilizza l'endoarteriectomia o il by-pass.
Nell'ICTUS
CEREBRALE progressivo o completo il trattamento con anticoagulanti o con
trombolitici è stato spesso proposto - ed alcuni studi ne hanno dimostrato la
validità- ma in pratica non è mai stato accolto per il pericolo emorragico che
comporta.
Soprattutto,
però, è da considerare il fatto che la trasformazione emorragica dello stroke,
evenienza già frequente spontaneamente, diventa facilissima quando il soggetto
venga trattato, anche con successo, con eparina o con trombolitici. La
prevenzione secondaria degli episodi di constatata natura trombotica può avere
positivi riscontri con l'uso dell'aspirina o della ticlopidina.
In
effetti la terapia antitrombotica appare avere un peso maggiore nelle EMBOLIE
CEREBRALI di origine cardiaca, in
cui si agisce su pazienti spesso più giovani, con situazione vascolare
cerebrale integra. L'impiego dell'eparina, comunque a dosaggi prudenti, sembra
accelerare la risoluzione di molti fatti embolici, oltre che evitarne di nuovi;
sempre molto discutibile l'adozione dei trombolitici.
Abbiamo
detto in precedenza delle necessità di una profilassi a lunga scadenza dalle
cause dell'embolia (protesi valvolari, fibrillazione atriale).
Invece
l'uso dell'eparina appare dubbio nel tromboembolismo di natura aterotromboptica.
Una
indicazione interessante all'adozione dei trombolitici è data dalla TROMBOSI
DEI SENI VENOSI CEREBRALI in questi casi sono state notate risoluzioni
drammatiche, tanto più importanti quando si consideri la scarsità delle
alternative terapeutiche.
Anche
nell'ambito delle trombosi venose profonde bisogna tenere nettamente separato il
problema della prevenzione della loro insorgenza dal problema del trattamento
terapeutico vero e proprio. La formazione di trombosi venose profonde agli arti
inferiori (e di conseguenza la possibile produzione di embolie polmonari) è
frequente in quei soggetti a rischio trombotico (pazienti in età avanzata,
obesi, dislipidemici, poliglobulici, affetti da diabete mellito, malattie
neoplastiche, vene varicose) nei quali sopravvengono occasioni precipitanti
(interventi chirurgici, fratture, parti, infarti cardiaci, ictus cerebrali ecc.)
che inducono stasi circolatoria (da immobilizzazione) ed ipercoagulabilità (da
liberazione in circolo di sostanze tissutali).
La
tecnica del fibrinogeno marcato ha permesso di documentare, in queste
situazioni, una incidenza di trombosi venose non sospettabile unicamente
basandosi sull'evidenza clinica: nel 25% dei pazienti ortopedici (frattura del
femore, chirurgia elettiva del ginocchio e dell'anca), nel 27% nei pazienti
colpiti da infarto del miocardio, del 60% nei pazienti sofferenti di ictus
cerebrale. Queste ricerche hanno anche dimostrato come il 45% dei trombi venosi
compaiano nello stesso giorno dell'intervento ed il 43% entro i quattro giorni
successivi.
L'insieme
di questi dati esprime chiaramente l'importanza della PROFILASSI DELLE TROMBOSI
VENOSE in tutte le condizioni sopra citate ; d'altra parte suggerisce anche come
tale profilassi debba essere eseguita con modalità che non provochino lo
sviluppo di ipocoagolabilità generalizzate, gravemente pericolose in pazienti
appena reduci da evenienze potenzialmente emorragiche come il parto, le
operazioni chirurgiche, i traumi.
In
questo senso appare particolarmente appropriato l'impiego dell'eparina standard
o delle eparine a basso peso molecolare, usate con bassi dosaggi e per via
sottocutanea; spazi minori sono riservati agli antiaggreganti.
Nel
decorso postoperatorio l'efficacia di bassi dosaggi di eparina standard (5000
unità due volte al giorno) è ormai comprovata; è apparso molto chiaro come le
complicanze emorragiche siano praticamente assenti. Le eparine a basso peso
molecolare hanno spesso fornito risultati leggermente migliori, in termine di
prevenzione. Gli antiaggreganti non sono sembrati di chiara utilità. Qualche
validità ha evidenziato il destrano a basso peso molecolare, gravato peraltro
da maggiori effetti collaterali. Non sono da dimenticare i benefici ricavabili
da alcune terapie fisiche, quali la stimolazione elettrica e la compressione
pneumatica esterna.
In
ambito ortopedico l'eparina standard, o le eparine a basso peso molecolare,
usate a basso dosaggio, hanno fornito dati positivi ma di minor rilievo
statistico. In queste condizioni hanno rivelato valore preventivo l'aspirina, a
dosaggi piuttosto alti, e la ticlopidina. Le antivitamine K sono apparse
efficaci, ma restano molte perplessità per il loro impiego, a causa del
paventato (anche se in realtà non dimostrato) maggior pericolo emorragico.
Buon
beneficio hanno evidenziato le eparine nella profilassi delle trombosi venose
del puerperio.
Nei
pazienti sofferenti di infarto del miocardio il problema della prevenzione delle
trombosi venose profonde da immobilità non è praticamente avvertito, dal
momento che - a meno di controindicazioni - si tratta di pazienti in piena cura
anticoagulante e trombolitica.
Un
aspetto particolare riveste la prevenzione delle trombosi venose nei pazienti
affetti da diatesi trombogena sostenuta da difetti di inibitori fisiologici
della coagulazione (antitrombina III, proteina C, proteina S, resistenza alla
proteina C attivata.)
In
generale i soggetti sintomatici (i quali abbiano già avuto episodi trombotici)
vengono posti in profilassi a lungo termine con anticoagulanti orali, mentre i
soggetti asintomatici sono posti in profilassi a breve termine solo durante le
situazioni a rischio trombotico.
A
trombosi venose in atto, ove non sussistano controindicazioni (che invece sono
frequentemente presenti, essendo rappresentate dall'intervento chirurgico o dal
parto o dal trauma da poco sopportato), il trattamento assume qualità e
prospettive differenti. In questo caso la terapia ha molte finalità: impedire
l'estensione della trombosi, risolvere la trombosi stessa ricanalizzando il
vaso, proteggere dalla comparsa di embolie polmonari, preservare dalla sindrome
postflebica, garantire da recidive o da ulteriori episodi mediante un'adeguata
profilassi secondaria.
Il
trattamento più diffuso è indubbiamente rappresentato dall'eparina a dosi
piene.
E'
di solito preferita la via endovenosa continua a una patologia tale da sostenere
un aumento dell'APTT da 1,5 a 2 volte il valore normale, protratta per una
giorni circa ed embricata con gli anticoagulanti orali. E' tuttavia bene
applicabile, e senza un aumento delle complicanze emorragiche, la via
sottocutanea, sempre a dosi piene. Esperienze recenti fanno ritenere che le
esparine a basso peso molecolare, a dosaggi pieni, esercitino un'efficacia
almeno simile e siano gravate da un minore rischio emorragico. I dosaggi per le
varie eparine possono essere calcolati in base al peso, prescindendo da un
monitoraggio di laboratorio: ad esempio per la fraxieparina possono essere di
450 U/kg/die e per l'enoxaeparina di 200 U/kg/die, suddivisi in una o due
somministrazioni giornaliere per via sottocutanea.
Il
trattamento trombolitico è in realtà quello che propone i risultati migliori:
tuttavia si espone a parecchie critiche ed allo stato attuale può venire
interpretato come un completamento della terapia principale, rappresentata
dall'eparina. Numerosi sono i motivi perplessità: la necessità di aggredire il
trombo il più precocemente possibile (quando invece le trombosi venose arrivano
al ricovero in periodo piuttosto tardivo) e di agire in condizioni di potenziale
pericolo emorragico (per le vicinanze di operazioni o di traumi); la prospettiva
di un trattamento che duri molti giorni (poichè il trombo venoso è di
dimensioni ampie e necessita pertanto di un certo tempo per essere completamente
lisato); la presenza comunque di un certo rischio e di un certo costo economico
(d'altra parte in un affezione generalmente non tale da mettere direttamente in
pericolo la vita); la possibilità di risolvere solo in parte il problema
fondamentale della prevenzione della sindrome postflebitica.
Le
esperienze cliniche sono state effettuate molto spesso utilizzando la
streptochinasi. Nell'insieme, una dissoluzione sostanziale del trombo è stata
ottenuta in almeno un terzo dei casi; meno favorevoli sono stati i risultati
relativi alla salvaguardia dell'integrità delle valvole semilunari; la
frequenza e la gravità della sindrome postflebitica è sembrata diminuita
(nella maggior parte degli Autori). Qualche dubbio è stato posto sulle
probabilità che il fibrinolitico faciliti la frammentazione del trombo e quindi
la comparsa di embolie, sia pure di minore entità.
Considerazioni
analoghe alla straptochinasi sono state avanzate per l'urochinasi e per l'APSAC.
L'adozione
dell'rtPA non ha modificato i risultati: per questo farmaco non è ancora chiaro
comunque quale possa essere lo schema migliore.
Si
ritiene che le condizioni più favorevoli per il trattamento trombolitico siano:
soggetti giovani, pazienti con trombosi prossimali gravi (i quali non presentino
controindicazioni relative a recenti interventi chirurgici o ad altre possibilità
emorragiche); trombosi che siano insorte da non più di 7-8 giorni e che abbiano
caratteristiche angiografiche di non completa occlusività.
Il
costo economico, il rischio emorragico di una certa rilevanza, ed i risultati
buoni ma non decisivi, inducono spesso a scegliere schemi con posologia ridotta
o con somministrazioni intermittenti, od il trattamento locoregionale.
Ai
fini dell'ottenimento della ricanalizzazione del vaso, l'alternativa alla
terapia trombolitica può essere rappresentata dalla tromboectomia, la quale però
non è scevra ugualmente da
parecchie remore, sia nelle indicazioni sia nell'esecuzione, tali da farne
considerare preferenziale l'adozione solo nei casi più gravi di phlegmasia.
Risolta
l'acuzie, di solito la terapia viene continuata con gli anticoagulanti uguali, a
dosaggi medi (tali da mantenere un INR di 2); si considera che il trattamento
vada continuato per 3-6 mesi.
Quanto
abbiamo detto si riferisce alle trombosi venose profonde. Invece l'indicazione
alla cura anticoagulante appare meno netta nelle tromboflebiti superficiali,
spesso del resto meno aggredibili dagli anticoagulanti per la prevalenza della
componente infiammatoria, e prognosticamente meno gravi per la localizzazione
esterna e la scarsa probabilità di dar luogo ad embolie. In questi casi possono
trovare spazio l'aspirina ed altri antiifiammatori con effetto antiaggregante.
La
prevenzione dell'embolia polmonare rientra innanzitutto nella prevenzione della
trombosi venosa profonda degli arti inferiori e del bacino, da cui in più del
90% dei casi deriva: in questo caso si identifica col trattamento con eparina
(standard o a basso peso molecolare) a bassi dosaggi o con antiaggreganti, a
seconda delle indicazioni.
A
trombosi venosa in atto essa è compresa nella cura della trombosi venosa
stessa, secondo i termini prima esposti. In realtà, come abbiamo segnalato, non
è sicura la validità degli agenti trombolitici nella prevenzione dell'embolia
polmonare: tuttavia l'impressione ricavata dalla valutazione dei grandi trials
è nel complesso favorevole, anche perchè comunque il trombolitico assicura un
contemporaneo intervento curativo sull'embolia che eventualmente si formasse.
E'
anche possibile, nel caso di embolie polmonari che minacciano di recidivare,
l'adozione di filtri cavali temporanei o permanenti che impediscono la
progressione del materiale emboligeno.
Al
verificarsi dell'embolia polmonare, a meno che non esistano nette ed importante
controindicazioni, è ancora più evidente la necessità di un'anticoagulazione
con eparina a dosi piene, al fine di evitare l'estensione della zona trombotica
ed impedire le recidive emboliche.
Da
alcuni si raccomanda un dosaggio particolarmente alto, poiché è documentato un
sensibile accorciamento dell'emivita del farmaco, in rapporto all'incremento di
sostanze antiepariniche liberate dalle piastrine.
La
terapia trombolitica ha trovato nell'embolia polmonare una applicazione
importante. Appaiono ancora fondamentali i due grandi studi statunitensi del
1973-74, intitolati UPET e USPET, di comparazione dell'eparina con
streptochinasi e con urochinasi.
Le
ulteriori ricerche con APSAC ed rtPA nell'insieme hanno portato a risultati
analoghi: le risposte sono apparse simili ai controlli con eparina per quanto
concerne la mortalità, ma hanno dato luogo ad un vantaggio per i trombolitici
su alcuni parametri (volume ematico capillare polmonare) e sulle immagini
angiografiche, nonchè sulla funzionalità polmonare a lungo termine; spesso le
complicanze emorragiche sono apparse notevoli, anche per la frequenza con cui i
pazienti erano sottoposte a manovre invasive. L'infusione locale, nell'albero
arterioso polmonare, non ha presentato vantaggi apprezzabili. Nell'insieme,
anche per nostra esperienza, ci sembra che lo spazio per la fibrinolisi
nell'embolia polmonare esista soprattutto in quei malati nei quali l'embolia
sopravviene su una situazione cardiopolmonare già precedentemente deteriorata:
sono questi i pazienti che più tipicamente, alla comparsa di un ulteriore
evento di compromissione, quale può essere l'embolia polmonare (anche non
massiva), passano da un equilibrio funzionale mantenuto con difficoltà a
condizioni di squilibrio pericolose per la vita: è chiaro come in essi la
rapida eliminazione del disturbo addizionale sia necessaria per ristabilire
condizioni clinicamente accettabili.
Ancor
oggi comunque la terapia trombolitica dell'embolia polmonare pone problemi di
realizzazione pratica, in gran parte legati al fatto che l'embolina polmonare
insorge molto frequentemente in pazienti sottoposti ad interventi chirurgici
ortopedici od osterici, a rischio pertanto di sanguinamento, ed al fatto che è
talvolta difficile una diagnosi sufficientemente pronta e sicura.
L'alternativa
dell'embolectomia chirurgica può essere contemplata in caso di embolie massive
minaccianti la vita del paziente.
Nella
malattia vascolare periferica sono stati utilizzati gli antiaggreganti al fine
di ridurre la velocità di progressione dell'arteriosclerosi: in effetti
l'aspirina ed il dipiridamolo in associazione, e soprattutto la ticlopidina,
sembrano dar luogo ad un rallentamento dell'evoluzione angiografica
dell'infermità. La ticlopidina e l'associazione aspirina+dipiridamolo hanno
dimostrato di poter provocare miglioramenti funzionali con aumenti significativi
dell'intervallo di marcia libero e dell'indice pressorio caviglia-braccio.
Dopo
iloprost è stata constata una riduzione del dolore a riposo.
Invece
gli anticoagulanti orali non sono apparsi in grado di offrire un vantaggio in
termini di miglioramento della perfusione tessutale; può essere però
ragionevole impiegarli in quei casi in cui il processo stenosante sembra
orientato a concludersi rapidamente con un'ostruzione trombotica completa.
Dopo
l'esecuzione di angioplastina può essere raccomandata una terapia
anticoagulante od antiaggregante, anche se le casistiche non danno chiara
evidenza di beneficio.
L'impianto
di by-pass ed in genere di protesi vascolari costituisce anch'essa indicazione
all'eparina od agli antiaggreganti.
In
effetti, l'adozione degli antiaggreganti appare consigliabile soprattutto per le
protesi di piccolo calibro, più facili alla trombizzazione.
La
trombosi che può avvenire dopo endoarteriectomia femoropoplitea appare
contrastata più efficacemente dagli inibitore piastrinici che non dalle
antivitamine K.
Nell'ambito
delle tromboemboline delle arterie periferiche, la scelta della disostruzione
chirurgica è di assoluta priorità e le cure mediche debbono essere concertate
assieme al chirurgo.
L'uso
dei trombolitici può essere preso in considerazione nei fatti tromboembolici
molto periferici e multipli.
Nelle
trombosi acute si è spesso rivelata utile l'applicazione dei trombolitici
(attualmente soprattutto rtPA) per via loco regionale con catetere arterioso:
una variante recente è la tecnica "pulsed spray" con spruzzate ad
alta pressione.
Anche
nelle ostruzioni subacute e croniche il trattamento fibrionolitico può avere
ragioni di opportunità, poichè in queste condizioni si avvera un continuo
sviluppo e rimodellamento del trombo, con quote di formazione relativamente
recente che possono essere sensibili all'intervento litico.
Le
occlusioni tromboemboliche dei vasi dell'occhio pongono in effetti notevoli
difficoltà terapeutiche.
Le
trombosi venose hanno patogenesi complesse (generalmente avvengono in pazienti
ipertesi e diabetici) e sono accompagnate da estese emorragie, che rendono
dubbie le autentiche possibilità della terapia anticoagulante o fibrinolitica,
per cui ogni caso va valutato individualmente.
Nelle
occlusioni acute dell'arteria centrale della retina e delle sue branche, la
trombolisi può essere decisiva, a patto che sia praticata molto precocemente, a
causa della rapida irreversibilità delle lesioni retiniche.
Agnelli
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Venous Thromboembolism, Haematologica, 1995, vol. 80, suppl.
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Atti 95° Congr. Soc. Ital. Medicina Interna, vol. I, pag. 3, Firenze, 1994.
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J., Shafer A.I.: Thrombosis and Haermorrhage, Blackwell S.P., 1994.
Neri
Serveri G.G., Gensini G, F. Abbate R., Prisco D.: Thrombosis: an Update,
Scientific Press, Firenze, 1992.
B.
Bizzi
Direttore
Istituto Semeiotica Medica
Università
Cattolica - Roma
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