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ARGOMENTI DI MEDICINA CLINICA                                         

 Ultimo aggiornamento: 23.12.2013

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LA TERAPIA CON FARMACI ANTIAGGREGANTI  PIASTRINICI

 

La valutazione di farmaci capaci di inibire la funzione piastrinica è resa particolarmente difficile da vari ordini di problemi. In primo luogo è da considerarsi la complessità dei meccanismi biochimici responsabili del fenomeno di aggregazione piastrinica. L'aggregazione è infatti un fenomeno complesso che segue almeno quattro vie indipendenti tra loro e che portano alla formazione di più di un mediatore finale. I meccanismi sono rispettivamente: i movimenti dell'adenosindifosfato (ADP) dall'interno all'esterno delle piastrine e viceversa; la formazione di eicosanoidi derivanti dall'acido arachidonico, in particolare il trombossano A2 (TXA2); la liberazione di PAF (platelet activating factor) reso disponibile nell'uomo soprattutto dai leucociti, e infine una via autonoma per l'aggregazione da trombina (1). In vitro il fenomeno di aggregazione può avvenire attraverso una di queste vie senza che le altre siano coinvolte. Tre delle quattro vie citate hanno un mediatore comune:

la mobilizzazione di ioni calcio nell'interno delle piastrine dal sistema tubolare denso verso il citoplasma. L'inibizione di tale mobilizzazione sembra prevenire l'aggregazione indotta da qualsiasi agente induttore salvo quella da alte dosi di trombina.

In vitro il fenomeno di aggregazione può avvenire attraverso una di queste vie senza che le altre siano coinvolte. Tre delle quattro vie citate hanno un mediatore comune: la mobilizzazione di ioni calcio nell'interno delle piastrine dal sistema tubolare denso verso il citoplasma. L'inibizione di tale mobilizzazione sembra prevenire l'aggregazione indotta da qualsiasi agente induttore salvo quella da alte dosi di trombina.

In vivo, a seconda della natura dello stimolo proaggregante, l'importanza di una via può prevalere sulle altre, ma in generale si ammette che esistano notevoli interazioni tra i diversi meccanismi (es. l'interazione fra trombossano, calcio e livelli di AMP ciclico).

In secondo luogo vi è il problema della relazione tra i vari farmaci attivi e del loro effetto sui diversi parametri della funzionalità piastrinica. Infatti sebbene esistano vari test per esplorare un'alterata funzionalità piastrinica, il loro significato clinico è a tutt'oggi oggetto di discussione e studio. I test di funzione piastrinica esplorano infatti aspetti isolati e parziali del fenomeno di aggregazione per cui l'effetto dei farmaci su di essi è variabile. Così solo alcuni farmaci normalizzano il tempo di sopravvivenza delle piastrine; altri invece allungano il tempo di stillicidio o inibiscono in varia misura la liberazione di sostanze intrapiastriniche. Resta del tutto da stabilire quale sia la corrispondenza tra gli effetti dei farmaci sulle varie espressioni funzionali piastriniche, e l'efficacia clinica dei farmaci medesimi. Va inoltre ricordato che i farmaci antiaggreganti finora utilizzati nella prevenzione di malattie vascolari modificano solo alcuni dei meccanismi dell'aggregazione (metabolismo dell'acido arachidonico, regolazione dell'AMP ciclico), e sono assai deboli inibitori dell'aggregazione indotta da trombina, che svolge invece un ruolo importante nella trombogenesi.

Un terzo importante problema si incontra nella valutazione clinica dell'efficacia dei farmaci antiaggreganti. In questo campo, molteplici sono le difficoltà che si pongono nell'impostare e analizzare correttamente uno studio clinico. Infatti gli endpoints clinici, ovvero gli obiettivi da misurare (mortalità, occorrenza di un secondo evento ischemico, di complicanze tromboemboliche ecc.) presentano grande variabilità di incidenza a seconda dei criteri di selezione delle casistiche, dell'entità del rischio, del tempo intercorso tra l'evento qualificante (ad esempio infarto miocardico) e l'arruolamento del paziente.

La scelta di obiettivi sempre più consistenti e trancianti (hard endpoints) come la mortalità cardiovascolare o addirittura la mortalità totale, pur giustificata da una visione medico-sociale dei problemi sanitari, non deve essere esclusiva, poiché introduce elementi di natura non trombotica non influenzabili dalla terapia, e perde di vista il valore fondamentale della qualità della sopravvivenza.

   

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Meccanismi di aggregazione piastrinica ed azione dei farmaci antiaggreganti

 

INTERAZIONE TRA PIASTRINE E PROTEINE ADESIVE

 

La membrana piastrinica possiede glicoproteine che sono fondamentali per le funzioni della cellula. Queste molecole sono in grado di mediare numerose ed importanti attività della membrana quali le interazioni delle piastrine tra loro e con la superficie sottoendoteliale. Di particolare importanza è il complesso glicoproteico IIa-IIIb calcio-dipendente, che rappresenta il recettore per alcune proteine adesive come il fibrinogeno e la fibronectina (2). Il legame delle piastrine al fibrinogeno è una tappa essenziale per il fenomeno di aggregazione. Infatti in seguito ad attivazione piastrinica si evidenziano sulla superficie della membrana piastrinica i siti di legame per il fibrinogeno. In presenza di ioni calcio si realizza quindi una interazione tra i siti recettoriali piastrinici per il fibrinogeno e i vari agonisti dell'aggregazione. Una molecola di fibrinogeno forma un "ponte" tra due piastrine e dà così inizio al fenomeno di aggregazione (fase reversibile). Il complesso fibrinogeno-glicoproteina IIb-IIIa viene ulteriormente stabilizzato da altre proteine adesive, liberate dai granuli endopiastrinici e in particolare dalla trombospondina (fase irreversibile dell'aggregazione piastrinica). In assenza di tali interazioni con il fibrinogeno non si osserva aggregazione, come nel caso della malattia di Glanzmann, una affezione emorragica congenita.

 

 

AMP CICLICO

 

L'AMP ciclico gioca un ruolo importante quale "secondo messaggero" nella regolazione di molte funzioni cellulari ed anche dell'aggregazione piastrinica. In particolare un aumento di AMP ciclico si accompagna ad inibizione della mobilizzazione del calcio e dell'aggregazione mentre una sua diminuzione favorisce il processo di aggregazione piastrinica . I livelli intracellulari di AMP ciclico sono regolati da due sistemi enzimatici L'AMP ciclico si forma infatti dall'AMP per azione dell'enzima adenilciclasi ed è degradato a 5'-AMP attraverso l'enzima fosfodiesterasi. La concentrazione di AMP ciclico intracellulare è dunque il risultato di un apporto e di una degradazione continua. Aumenti di AMP ciclico possono essere dovuti quindi sia a stimolazione di adenilciclasi sia ad inibizione di fosfodiesterasi. Gli attivatori fisiologici o sintetici dell'adenilciclasi sono tuttavia instabili e la stimolazione di tale enzima comporta soltanto un aumento transitorio di AMP ciclico. Il blocco delle fosfodiesterasi al contrario costituisce il meccanismo fisiologico e farmacologico che consente un aumento più stabile dei livelli intrapiastrinici di AMP ciclico, con conseguente messa a riposo della piastrina. Questi concetti vengono rappresentati nella fig.01x.

 

 

SISTEMA PROSTAGLANDINICO

 

Quando le piastrine sono stimolate da collageno, ADP e trombina si ha attivazione di alcune fosfolipasi della membrana piastrinica, con liberazione di acido arachidonico, che viene degradato da due sistemi enzimatici: la cicloossigenasi (presente in tutte le cellule eccetto negli eritrociti) e la lipoossigenasi (presente in piastrine, cellule endoteliali, leucociti). La lipoossigenasi degrada l'acido arachidonico in acido 12-idrossi, 5-8-10-14 eicosatetraenoico (12 HETE) e leucotrieni, composti con proprietà chemiotattiche. La cicloossigenasi invece degrada l'acido arachidonico in due endoperossidi molto instabili (PGG2 e PGH2) ad azione aggregante e vasocostrittrice. Gli endoperossidi si isomerizzano nelle prostaglandine, acidi grassi insaturi a 20 atomi di carbonio (PGD2, PGF2a, e PGE2) e/o in presenza di un enzima, la trombossanosintetasi, formano trombossano A2 (TXA2), una potente sostanza aggregante e vasocostrittrice misurabile come trombossano B2 (TXB2), il suo metabolita inattivo. Gli stessi endoperossidi, formatisi invece nelle cellule endoteliali, per effetto di un enzima detto prostaciclino-sintetasi si trasformano principalmente in prostaciclina (PGI2), il più potente inibitore fisiologico dell'aggregazione piastrinica, dotato anche di azione vasodilatatrice (3). La prostaciclina ha emivita biologica assai breve e si trasforma spontaneamente in alcuni metaboliti inattivi e dosabili: la 6-keto PGF1a e i dinor derivati. Queste trasformazioni sono rappresentate nella fig.02x.

Il meccanismo per il quale il TXA2 provoca e la PGI2 inibisce l'aggregazione piastrinica è basato in parte sulla loro interazione con la formazione o degradazione dell'AMP ciclico endopiastrinico. Il TXA2 provoca una diminuzione nei livelli piastrinici di AMP ciclico associata a mobilizzazione del calcio intracellulare, liberazione di ADP, serotonina e altre sostanze aggreganti che amplificano il processo dell'aggregazione piastrinica . La PGI2, al contrario, aumenta i livelli piastrinici di AMP ciclico: tale aumento inibisce la mobilizzazione del calcio, la secrezione dai granuli e anche la fosfolipasi, e quindi la stessa liberazione di acido arachidonico. Le interazioni tra AMP ciclico, prostaglandine e Ca++ sono riportate nella fig.03x.

 

 

Farmaci antiaggreganti

 

Sebbene molti agenti farmacologici siano in grado di inibire la funzionalità piastrinica in vitro, soltanto pochi sono realmente efficaci ex vivo come antiaggreganti, anche prescindendo dalla reale efficacia clinica. Saranno perciò esaminati in dettaglio solo quei farmaci che meritano la definizione di "antiaggreganti maggiori".

Alcune caratteristiche dei vari farmaci antiaggreganti sono riassunte nella tab.01x.

Distinguiamo i farmaci antiaggreganti in tre categorie a seconda del meccanismo d'azione:

1) induzione di aumento dei livelli piastrinici di AMP ciclico;

2) inibizione del metabolismo dell'acido arachidonico;

3) effetto sui rapporti tra recettori piastrinici e proteine adesive.

 

 

FARMACI AGENTI ATTRAVERSO LA MODULAZIONE DELL'AMP CICLICO

 

 

Dipiridamolo

 

Il dipiridamolo, un composto pirimidopirimidinico con proprietà coronarodilatanti aumenta i livelli di AMP ciclico intrapiastrinico attraverso meccanismi diversi. In concentrazioni molto elevate, esso è un potente inibitore delle fosfodiesterasi. Tuttavia questo meccanismo non sembra rilevante per le comuni dosi terapeutiche. Il dipiridamolo sarebbe anche capace di indurre liberazione di prostaciclina dalle cellule endoteliali e di potenziarne gli effetti con conseguente aumento delle concentrazioni di AMP ciclico intrapiastrinico. Più recentemente è stato dimostrato che il dipiridamolo inibisce la captazione di adenosina, un inibitore fisiologico della funzione piastrinica, da parte di varie cellule ematiche. L'adenosina così accumulata a livello dei recettori della membrana piastrinica stimolerebbe quindi l'enzima adenilcidasi con conseguente aumento dei livelli di AMP ciclico (4).

Il dipiridamolo non prolunga il tempo di emorragia ma normalizza l'emivita delle piastrine accorciata, come ad esempio in pazienti portatori di valvole cardiache artificiali. Il farmaco a dosi elevate sembra inoltre in grado di ridurre l'adesione piastrinica al sottoendotelio.

 

 

Altri farmaci

 

Fra gli stimolatori di adenilciclasi vi sono alcune prostaglandine naturali derivanti dal metabolismo dell'acido arachidonico (PGD2, PGI2) o diomogammalinoleico (PGE1). La PGE1 e la PGI2 sintetiche hanno già trovato applicazione clinica. La somministrazione di PGI2 (epoprostenol) si è dimostrata efficace nel ridurre la deposizione piastrinica negli apparati di circolazione extracorporea.

Tuttavia l'impiego dell'epoprostenolo è limitato da una grande instabilità chimica e una emivita breve, e da presenza di effetti vasodilatanti e ipotensivi. Sono quindi stati prodotti analoghi strutturali dotati di attività antiaggregante ma con minori effetti cardiovascolari (carbaciclina). Un'altra importante prospettiva è data da farmaci che stimolano la produzione endogena di PGI2 (defibrotide, nafazatrom). Mentre l'uso clinico di PGI2 e PGE1 esula dalla vera e propria profilassi con antiaggreganti in quanto si applica prevalentemente a situazioni di ischemia critica, l'uso di farmaci stimolatori della prostaciclina endogena potrebbe avere potenzialità profilattiche, comunque per ora inesplorate.

 

 

FARMACI CHE INTERFERISCONO CON IL METABOLISMO DELL'ACIDO ARACHIDONICO

 

Aspirina

 

L'azione antiaggregante dell'aspirina (ASA) è attribuita all'inibizione della cicloossigenasi. Il farmaco esercita il suo effetto antiaggregante bloccando la sintesi degli endoperossidi e quindi del trombossano A2 per acetilazione irreversibile di un residuo serinico dell'enzima cicloossigenasi (5). Poiché le piastrine sono cellule anucleate e non sono in grado di rigenerare la cicloossigenasi, l'effetto inibitore dell'aspirina persiste per tutta la vita della piastrina lesa; infatti dopo assunzione di ASA l'aggregazione piastrinica resta inibita fino a 7 giorni. D'altro canto l'ASA, inibendo la cicloossigenasi a livello vascolare, blocca la sintesi di PGI2, ma tale inibizione non è definitiva essendo le cellule endoteliali provviste di nucleo e quindi in grado di risintetizzare la cicloossigenasi in poche ore.

A causa del blocco simultaneo degli endoperossidi e del trombossano A2 nelle piastrine e della PGI2 negli endoteli, l'impiego di ASA come antiaggregante sembrava porre un problema importante nella scelta della dose ottimale. Tale problema è stato dibattuto come "il dilemma dell'aspirina".

Sebbene si ritenga in generale che basse dosi di ASA (40-80 mg/die) siano in grado di agire in maniera selettiva sul processo di produzione di TXA2 piastrinico rispetto alla PGI2 vascolare, una maggiore efficacia clinica di questi dosaggi non è provata. I risultati degli studi clinici indicano infatti un'efficacia antitrombotica del farmaco tra i 30 e i 1500 mg/die.

L'ASA determina allungamento del tempo di sanguinamento ma non agisce sulla sopravvivenza piastrinica né sull'adesione piastrinica al subendotelio.

 

 

 

Indobufene

 

Si tratta di un derivato a struttura indolica dell'acido butirrico che agisce come potente inibitore dell'enzima cicloossigenasi (6). Tuttavia, il blocco della cicloossigenasi piastrinica da indobufene è reversibile: infatti gli effetti antiaggreganti scompaiono dopo circa 12 ore dalla somministrazione. A livello endoteliale, la produzione di prostaciclina è solo moderatamente ridotta dal farmaco, anche quando si osserva completa inibizione dell'aggregazione piastrinica e della sintesi di TXA2. L'indobufene allunga il tempo di sanguinamento; l'entità di tale allungamento è tuttavia modesta se paragonata a quella osservata con ASA. Lo spiccato effetto antiaggregante dall'indobufene lascia prevedere un'efficacia dinica, che risulta già comprovata dagll studi terapeutici disponibili.

 

 

Sulfinpirazone

 

Il sulfinpirazone è stato introdotto inizialmente in clinica come agente uricosurico e solo successivamente impiegato come antiaggregante (7) in base all'osservazione che il farmaco prolungava il tempo di sopravvivenza piastrinica in pazienti affetti da gotta. Esso appartiene al gruppo dei farmaci antiinfiammatori non steroidei (FANS) essendo un derivato del fenilbutazone. A dosi terapeutiche non inibisce in maniera significativa l'aggregazione piastrinica in vitro: gli effetti antiaggreganti osservati in vivo sono per tanto attribuibili alla formazione di metaboliti attivi che perdurano in circolo fino a 18 ore dopo la somministrazione. Il sulfinpirazone esercita un debole effetto inibitorio sulla cicloossigenasi piastrinica, reversibile e di durata in vivo relativamente breve. A livello endoteliale, il sulfinpirazone non blocca la sintesi di prostaciclina, anche a dosi pienamente efficaci sulla cicloossigenasi piastrinica.

A livello clinico il sulfinpirazone si differenzia dall'ASA e dagli altri FANS in quanto non allunga il tempo di sanguinamento ma è in grado di normalizzare il turnover piastrinico in pazienti affetti da disordini tromboembolici.

 

 

Altri farmaci

 

Numerosi sforzi sono stati compiuti per ottenere farmaci che agiscano più selettivamente sul metabolismo dell'acido arachidonico. In questo quadro si collocano gli inibitori del TXA2 che si dividono essenzialmente in: inibitori dell'enzima trombossano-sintetasi, antagonisti dei recettori piastrinici per il TXA2, e farmaci ad effetto combinato.

Gli inibitori della trombossano-sintetasi (es. dazoxiben), bloccano la produzione di TXA2 in maniera selettiva riducendo in modo variabile l'aggregazione piastrinica. Sono privi di effetti inibitori sulla sintesi di PGI2 vasale, al contrario accentuandola attraverso un riarrangiamento degli endoperossidi resi disponibili. Anche a livello piastrinico si osserva riarrangiamento degli endoperossidi verso la formazione di PGD2 e PGE2, prostaglandine che si comportano come potenti (PGD2) o modesti (PGE2) inibitori dell'aggregazione piastrinica (8).

Gli antagonisti recettoriali competono con il TXA2 e l'endoperossido PGH2 a livello dei recettori piastrinici e forse endoteliali inibendo cosi i loro effetti proaggreganti e vasocostrittori. Tra questi agenti ricordiamo la picotamide e il BM 13.177. L'efficacia clinica degli inibitori selettivi del TXA2 è ancora oggetto di studio e di discussione.

 

 

FARMACI ATTIVI SULLA INTERAZIONE TRA PIASTRINE E PROTEINE ADESIVE

 

Ticlopidina

 

Un posto a parte tra i farmaci antiaggreganti spetta alla ticlopidina per la sua struttura chimica e per il suo meccanismo d'azione (9). Si tratta di un derivato della piridina (5,2 clorobenzil - 4,5,6,7 tetraidrotriene 3,2 C piridina) dotato di marcato effetto antiaggregante.

La ticlopidina somministrata in vivo inibisce l'aggregazione piastrinica indotta da un gran numero di agenti induttori: ADP, collageno, epinefrina, acido arachidonico, TXA2, endoperossidi, PAF-acetere. Tali inibizioni non sono osservate in vitro se non a concentrazioni soprafarmacologiche. Nell'animale, in diversi modelli di trombosi sperimentale, la ticlopidina esercita un effetto antitrombotico netto anche sui modelli in cui l'ASA e il dipiridamolo sono inefficaci come nella morte tromboembolica indotta da ADP nell'animale.

La ticlopidina interferisce con il processo di aggregazione attraverso meccanismi che non coinvolgono in modo diretto il metabolismo dell'acido arachidonico. Il meccanismo d'azione suggerito per la ticlopidina è l'inibizione del legame specifico del fibrinogeno alla membrana. Più recentemente, studi farmacologici hanno dimostrato che la ticlopidina esercita il suo effetto antiaggregante attraverso una complessa interazione con la via dell'ADP. Infatti il farmaco esercita un effetto bloccante specifico sull'ADP sia esogeno sia endogeno, tale da provocare poi l'inibizione della esposizione del recettore per il fibrinogeno.

La ticlopidina inibisce l'adesività piastrinica sia nell'animale che nell'uomo, prolunga il tempo di emorragia, e normalizza il tempo di emivita piastrinico. Nell'uomo dopo somministrazione orale gli effetti antiaggreganti si evidenziano in maniera significativa dopo somministrazioni ripetute per alcuni giorni e persistono sino a 4 giorni dopo interruzione del trattamento. L'assenza di attività antiaggregante in vitro e l'intervallo di comparsa degli effetti antiaggreganti suggeriscono che gli effetti in vivo sono in gran parte dovuti alla comparsa in circolo di uno o più metaboliti attivi.

 

 

Significato delle piastrine nella trombogenesi

 

Come è noto, la patogenesi e l'evoluzione del fenomeno trombotico presentano numerose differenze a seconda della sua sede arteriosa o venosa.

 

 

TROMBOSI ARTERIOSA

 

Nella trombogenesi arteriosa le condizioni reologiche di flusso elevato e alto shearrate determinano una concentrazione delle piastrine nelle lamine di flusso ematico più vicine alla parete vascolare. In presenza di danno endoteliale viene così fortemente favorita l'adesione e l'aggregazione piastrinica. La formazione di trombina locale è precoce e costituisce un ulteriore importante stimolo all'aggregazione piastrinica. Interviene quindi la formazione di fibrina, in parte limitata per opera dei fattori emodinamici. Fenomeni di release di sostanze endopiastriniche intervengono già in fase precoce (attivazione piastrinica), con liberazione dagli a granuli di p-tromboglobulina, di fattore piastrinico IV, di platelet derived growth factor (PDGF). Questo fattore è responsabile di fenomeni di iperplasia e migrazione verso la superficie di cellule muscolari liscie sottoendoteliali, contribuendo così all'isto-patogenesi della lesione aterotrombotica.

In una fase più avanzata, quando le piastrine vanno incontro all'aggregazione irreversibile con perdita della identità cellulare, si ha dismissione di prodotti immagazzinati-nei granuli densi tra i quali i nucleotidi, la serotonina, il trombossano A2, e di enzimi lisosomiali con attività endotelio-lesiva.

L'alta pressione laterale che regna nelle arterie esercita un'azione modellante, plastica sul trombo arterioso che diviene così un trombo murale, scarsamente vulnerabile alla fibrinolisi, del resto scarsa nell'intima arteriosa. Il suo destino regolare è la riendotelizzazione e incorporazione nella parete arteriosa, con esito quindi in stenosi del lume.

 

In questa fase di stato, il processo diviene inattivo dal punto di vista emostatico e si osservano soltano fenomeni di riduzione del flusso. Tuttavia il processo può improvvisamente riaccendersi a causa di fenomeni di fissurazione della placca atero-trombotica, che intervengono per cause emodinamiche, pressorie, nutrizionali, flogistiche o immunitarie. A livello della fissura si può avere una emorragia intraintimale: l'ADP eritrocitario e probabilmente altri prodotti derivati dal sangue e dai leucociti (trombina, trombossani, PAF) riattivano fenomeni di aggregazione piastrinica alla superficie della placca fissurata .

La liberazione locale di Hb e di Fe++ inibisce la produzione endoteliale di prostaciclina e di ossido nitroso, il fattore rilassante endoteliale. Questi fenomeni determinano una grande instabilità emostatica alla superficie della placca medesima, con fenomeni di aggregazione e disaggregazione, possibile migrazione di emboli piastrinici verso la periferia e processi anche molto rapidi di trombogenesi endoluminale con possibile occlusione totale del vaso arterioso.

Abbiamo così visto l'intervento delle piastrine come fondamentale sia in fasi precoci della istogenesi della lesione aterotrombotica, sia nelle fasi piu avanzate della cosiddetta placca instabile e della trombosi arteriosa occlusiva. Pertanto il trattamento con antiaggreganti piastrinici trova giustificazione in diverse fasi evolutive della lesione trombotica arteriosa.

 

 

TROMBOSI VENOSA

 

Nella trombogenesi a livello delle vene profonde il fattore parietale di danno endoteliale e la conseguente attivazione piastrinica sono pure presenti, ma in un contesto nel quale l'attivazione della coagulazione del sangue e la partecipazione degli eritrociti e dei leucociti assume un'importanza maggiore che nelle arterie. L'aggregazione piastrinica avviene a livello di focolai di danno endoteliale, soprattutto localizzati nelle tasche valvolari, ma le condizioni di basso flusso, bassa pressione e basso shear-rate favoriscono una preponderante attivazione della coagulazione ematica e la formazione di un trombo non murale ma endoluminale. L'aggregazione piastrinica può ancora avere un ruolo importante nell'accrescimento del trombo medesimo lungo il lume vascolare. Probabilmente si tratta in gran parte di una aggregazione mediata dalla trombina.

Il trombo venoso è anche più vulnerabile alla fibrinolisi, attività di cui l'endotelio è ricco, ed è più soggetto sia ad una graduale, parziale ricanalizzazione, sia a fenomeni di embolizzazione prevalentemente fibrinica.

Esistono però condizioni, anche nella trombogenesi venosa, in cui il danno endoteliale di tipo meccanico, flogistico o immunologico, con aggregazione leucocitaria, e probabilmente con produzione di PAF, leucotrieni, anioni superossido, coinvolge in modo assai marcato la componente piastrinica. Ciò può avvenire in determinate forme eziologiche di tromboflebite superficiale o talora anche profonda, ad esempio di tipo collagenosico, infiammatorio, neoplastico, ed è la regola nelle tromboflebiti delle vene oftalmiche, nelle quali il danno intimale con rigonfiamento e desquamazione delle cellule endoteliali prevale sull'attivazione emocoagulativa.

 

 

Trattamento con antiaggreganti piastrinici nelle diverse condizioni cliniche

 

 

CARDIOPATIA ISCHEMICA

 

Il razionale della terapia antiaggregante nella prevenzione secondaria della cardiopatia ischemica si basa su correlazioni anatomo-cliniche, derivate da studi patologici, angiografici e di angioscopia coronarica (10,11,12).

La trombosi occlusiva o subocclusiva coronarica è causa di almeno il 90% dei casi di infarto miocardico transmurale.

La trombosi murale instabile in zone di fissurazione di placche atero-trombotiche coronariche sembra essere il substrato anatomico dell'angina instabile e forse di un certo numero di casi di morte improvvisa coronarica: ma in quest'ultima hanno certamente un significato importante anche fattori non direttamente collegati alla trombosi, quali le turbe del ritmo.

La trombosi murale stabilizzata, con trombo "sepolto", che comporta una stenosi coronarica, è invece alla base del quadro clinico della angina stabile da sforzo.

I risultati della terapia antiaggregante nella cardiopatia ischemica presentano aspetti diversi a seconda del tipo di casistica e di indicazione considerata .

 

 

Prevenzione secondaria degli eventi in pazienti che hanno superato un episodio di infarto miocardico

 

Le casistiche selezionate in base al requisito di aver superato un infarto miocardico (IM) si prestano ad alcune considerazioni. Secondo i dati della letteratura (13), la mortalità cumulativa durante il primo mese dopo un IM (inclusa la morte improvvisa da infarto) è di circa il 30%. Nel restante 70% di soggetti sopravvissuti, la mortalità entro il primo anno è del 10% (di cui 2/3 entro i primi 6 mesi), mentre negli anni successivi si stabilizza sul 3-5% all'anno. Inoltre la mortalità è correlata, nel singolo caso, a condizioni fisiopatologiche e cliniche non sempre facilmente valutabili, come il grado di compromissione ventricolare sinistra, la presenza di aritmie ecc. Si comprende quindi come in questi studi il risultato sia influenzato da vari fattori tra cui il tempo intercorso tra l'evento qualificante (infarto) e l'ingresso nello studio, il corretto bilanciamento dei gruppi ecc.

Inoltre la stessa scelta della mortalità come obiettivo principale non è esente da critiche. Infatti mentre la mortalità cardiovascolare dopo un primo infarto può riconoscere momenti eziopatogenetici diversi dalla trombosi, l'incidenza di IM fatale o non fatale sembra essere un endpoint più direttamente collegato alla trombosi.

Non deve quindi stupire che su 6 trial (14) che hanno valutato l'effetto dell'aspirina (ASA) da sola o associata al dipiridamolo, solo in tre studi si sia osservata una riduzione della mortalità. In almeno due studi la mortalità presentava una riduzione significativa solo nei pazienti arruolati entro 6 mesi dall'infarto. Una valutazione cumulativa dei trial con il metodo della meta-analisi (15) ha permesso di stabilire che la riduzione globale del rischio di mortalità cardiovascolare con ASA è del 16% mentre la riduzione del rischio di reinfarto fatale e non fatale raggiunge il 21%. Nella metanalisi dell'Antiplatelet Trialists' Collaboration (APTC) (16) gli antiaggreganti piastrinici hanno mostrato di ridurre l'incidenza di infarto non fatale del 31% e quella di morte vascolare del 13%. In uno studio recente, non ancora pubblicato per esteso (17), su 1634 pazienti arruolati entro 8 giorni dall'evento, l'ASA alla dose di 50 mg, in associazione con dipiridamolo o ticlopidina riduceva del 44% gli eventi cardiovascolari rispetto al placebo. Due importanti studi, uno americano (ART) (18) e uno italiano (ARIS) (19) erano stati effettuati con il sulfinpirazone, ma i loro risultati furono difficilmente comparabili. Nello studio italiano con ammissione dei pazienti da 15 a 25 giorni dopo l'IM, si era registrata una significativa riduzione del reinfarto fatale e non fatale (-56%).

 

In sostanza, si può rilevare che l'ASA ha mostrato, soprattutto utilizzando il metodo della meta-analisi di tutti gli studi randomizzati, una significativa efficacia nel prevenire la mortalità e gli eventi cardiovascolari negli infartuati. Pertanto l'inclusione dell'ASA nel programma profilattico del paziente che ha superato un infarto è giustificata in particolare nei soggetti che non hanno superato il 6° mese dall'evento acuto. Recentemente poi, una seconda metanalisi dell'APTC, non ancora pubblicata (comunicazione personale) condotta su 11 trial per un totale di 15.529 pazienti con pregresso infarto, ha nuovamente mostrato nei trattati con antiaggreganti una riduzione del rischio combinato di ictus, infarto miocardico e morte vascolare del 24% rispetto ai non trattati.

 

 

Prevenzione degli eventi cardiovascolari nell'angina instabile

 

Si definisce angina instabile (AI) un angor di recente esordio, di tipo ingravescente indipendentemente dall'attività fisica, con una frequenza di uno o più episodi giornalieri accompagnati da segni elettrocardiografici di ischemia ma non da elevazione degli enzimi. Nel 10-14% dei casi l'angina instabile esita in infarto o morte cardiovascolare entro 36 mesi dalla insorgenza dei sintomi.

Studi angiografici e autoptici hanno messo in rilievo il ruolo delle piastrine nell'AI suggerendo, come meccanismo patogenetico, la formazione di aggregati piastrinici e trombi in evoluzione in sede di placche fissurate all'interno di arterie coronariche. La rottura della placca aterosclerotica per emorragia subintimale e per opera di elevati shear stress espone il subendotelio della parete vasale agli elementi cellulari del sangue (linfociti, monociti, piastrine) che sono fortemente attivati, inducendo così la formazione di trombi. La liberazione di trombossano A2 e di serotonina determinano, inoltre, una vasocostrizione. La somma di questi eventi porta ad una trombosi murale di tipo altamente dinamico, responsabile della sintomatologia accessionale.

A partire dal 1975 numerosi studi hanno cercato di validare il trattamento antiaggregante nella prevenzione dell'infarto e della morte cardiovascolare in questa condizione di concentrata incidenza di eventi.

L'ASA, a dosi comprese tra i 300 mg/ die e i 1300 mg/die a seconda degli studi, si è dimostrata altamente efficace riducendo gli eventi (infarto fatale e non fatale) del 51-55% sia a breve (3 mesi) sia a lungo termine (18 mesi di osservazione) (20), (21), tanto da divenire un trattamento standard dell'angina instabile. Secondo i dati di uno studio svedese recentemente pubblicato l'aspirina è risultata efficace anche a bassa dose (75 mg/die). L'effetto protettivo dell' ASA è stato confermato da un altro studio randomizzato in doppio cieco (23) in cui l'ASA alla dose di 325 mg b.i.d. era confrontato con: eparina per via infusionale a dose piena, oppure associazione eparina e ASA, in 403 pazienti affetti da angina instabile. Alla sospensione del trattamento, avvenuta dopo 6 giorni, il gruppo trattato con la sola eparina presentava riattivazione dell'angina nel 13% dei pazienti, una proporzione tre volte superiore a quella riscontrata negli altri tre gruppi, mentre l'associazione di ASA all'eparina riduceva fortemente i fenomeni di riattivazione.

Tuttavia, i limiti dell'ASA nell'angina instabile sono stati messi in evidenza in un altro studio (24) su 399 pazienti affetti da angina instabile, refrattaria alla terapia convenzionale, suddivisi in tre gruppi rispettivamente trattati con eparina per infusione, ASA 325 mg/die, o alteplase (attivatore tessutale del plasminogeno). In tale studio l'ASA non ebbe alcuna efficacia sulla prevenzione della ischemia miocardica nonostante una quasi completa inibizione della produzione di TxA2, mentre i risultati migliori sulle recidive di episodi ischemici si ebbero con l'eparina. Tale risultato terapeutico conferma che la produzione di trombina ha un ruolo primario nel mantenimento dell'ischemia nell'angina instabile. In sostanza si può affermare che l'aspirina è sicuramente efficace nel prevenire gli eventi e la morte cardiovascolare nell'angina instabile, ma non è altrettanto efficace nel prevenire gli episodi di ischemia miocardica, che vengono invece ridotti dalla infusione di eparina a dosi terapeutiche.

La ticlopidina è stata testata sulla prevenzione degli eventi nello studio STAI (25) con risultati positivi: una riduzione del 46% del rischio di infarto miocardico e di morte vascolare rispetto al placebo.

Può essere qui utile citare che una revisione dello stesso studio che ha meglio selezionato i pazienti con angina instabile a riposo accompagnata da segni elettrocardiografici di ischemia, ha messo in evidenza una riduzione della morte cardiovascolare e dell'infarto miocardico acuto (IMA) del 54%, e una riduzione del solo IMA fatale e non fatale del 65% (17).

 

 

 

Prevenzione degli eventi cardiovascolari nell'angina stabile

 

Si definisce come angina stabile un angor che insorge dopo un esercizio fisico anche di scarsa o moderata intensità. L'incidenza di mortalità cardiovascolare si aggira intorno al 2-10% per anno e sembra dipendere dal grado di tolleranza all'esercizio fisico e dal numero di vasi ostruiti. La terapia antianginosa si è mostrata efficace nel controllo dei sintomi, ma non nella prevenzione degli eventi cardiovascolari. Sebbene farmaci antiaggreganti siano spesso somministrati in tale patologia, solo recentemente si sono resi disponibili dati di studi relativi alla efficacia di tale trattamento.

Nell'ambito del Physicians' Health Study (27)è stata valutata l'efficacia dell'ASA a 325 mg a dì alterni nella prevenzione primaria dell'infarto miocardico in soggetti con angina stabile, osservando una riduzione dell'87% nei trattati rispetto al gruppo placebo.

Dati analoghi erano emersi anche da uno studio di Chesebro (28) nel quale l'ASA associato a dipiridamolo riduceva l'incidenza di infarto miocardico e almeno apparentemente lo sviluppo di nuove lesioni aterosclerotiche senza però influenzare la progressione delle lesioni preesistenti nei pazienti con angina stabile. Più recentemente lo studio SAPAT (29) ha valutato l'efficacia dell'ASA alla dose di 75 mg/die rispetto al placebo in pazienti con angina stabile trattati con terapia convenzionale. In questo studio si è ottenuta una riduzione di infarto miocardico e di morte improwisa del 34% nel gruppo trattato rispetto al placebo, mentre l'incidenza di effetti indesiderati tra cui le emorragie maggiori non era significativamente differente nei due gruppi.

 

 

Prevenzione dell'occlusione dei by-pass aorto-coronarici

 

L'incidenza di occlusione precoce dei by-pass coronarici di vena safena, secondo le casistiche più accreditate, è del 10% circa alla fine del primo mese e del 15-25% dopo 12-18 mesi. Le occlusioni precoci sono di tipo trombotico mentre quelle tardive sono legate a danno endoteliale cronico e iperplasia fibromuscolare subintimale. Il trattamento antiaggregante dà risultati assai positivi, sia esso condotto con l'associazione ASA-dipiridamolo, iniziato quest'ultimo prima dell'intervento (30), sia con ASA da solo purché iniziato precocemente dopo l'intervento. La riduzione della incidenza di occlusioni è del 50-60% sia per le precoci che per le tardive. Circa 10 anni fa il VA Study (31) confrontava ASA 325 mg 3 volte al giorno contro l'associazione ASA-dipiridamolo, o sulfinpirazone. L'effetto protettivo si confermava analogo per l'ASA e per l'associazione ASA dipiridamolo mentre risultava nullo per il sulfinpirazone. I farmaci venivano iniziati prima dell'intervento, 12 ore per l'ASA e 48 per dipiridamolo e sulfinpirazone.

 

Un più recente studio (32) comprendente 1112 pazienti trattati con ASA 150 mg/die da solo o associato a dipiridamolo 225 mg/die (iniziato quest'ultimo 48 ore prima dell'intervento) evidenziava un significativo beneficio solo nel gruppo trattato con l'associazione ASA-dipiridamolo.

In effetti altri studi in passato avevano già confermato la validità del trattamento ad inizio pre-operatorio (33) anche se gravato da qualche complicanza emorragica. Ad esempio (34) il dipiridamolo iniziato 2 giorni prima dell'intervento alla dose di 400 mg/die e proseguito poi alla stessa dose in associazione con ASA a 50 mg/die è stato confrontato con il trattamento anticoagulante iniziato il giorno dopo l'intervento. I trattamenti furono valutati dopo 3 o 12 mesi. La terapia antiaggregante risultò di efficacia almeno pari a quella anticoagulante nel prevenire l'occlusione precoce e tardiva del trapianto purché condotta per almeno un anno dopo l'intervento.

Da tempo, tuttavia, era noto che la circolazione extracorporea provoca una trombocitopenia con alterata funzionalità piastrinica (rilascio selettivo dagli alfagranuli) che si protrae per alcune ore dopo l'intervento (35). Queste osservazioni hanno ridimensionato l'importanza del trattamento ad inizio perioperatorio, perché tale procedura si accompagna ad un maggior rischio emorragico (36).

Due studi molto recenti hanno infatti validato l'efficacia di un trattamento con aspirina, soltanto post-operatorio, purché iniziato precocemente e cioè tra la 1a e la 6a ora dopo l'intervento (37,38). In uno di questi Studi (Goldman, 38) è stata infatti valutata l'effficacia dell'ASA (325 mg/rdie) iniziato prima o dopo l'intervento. Le due modalità di somministrazione non portarono a differenze statisticamente significative sulla pervietà del by-pass, ma il trattamento preoperatorio con ASA si accompagnava ad un maggior numero di complicanze emorragiche.

Anche la ticlopidina alla dose di 250 mg 2 volte al giorno iniziata dopo l'intervento, si è dimostrata efficace in questa indicazione (39). Infine l'indobufene (400 mg/die) è stato confrontato con successo con l'associazione ASA-dipiridamolo mostrando, a distanza di un anno, una pari efficacia con minori effetti collaterali (40).

Per quanto riguarda la durata del trattamento antiaggregante esso deve essere proseguito per circa 1 anno dopo l'intervento di bypass. Dopo tale periodo l'incidenza di occlusione è sovrapponibile nei pazienti trattati e non trattati (37,41).

 

 

Protesi valvolari

 

Nei pazienti con protesi valvolari vi è associazione di trombi fibrinosi e di trombi piastrinici. I primi prevalentemente endocavitari o a partenza dell'endocardio parietale, sono legati alla stasi ematica intracardiaca, alla dilatazione atriale sinistra e alla fibrillazione atriale. I secondi si localizzano direttamente sulla superficie delle valvole artificiali e nelle zone endocardiche contigue a causa delle condizioni di alto shear stress prevalenti in tali regioni. L'attivazione e aggregazione piastrinica è documentata in questi soggetti dal rilievo di un accorciamento dell'emivita piastrinica . Non si verificano invece condizioni di spiccata attivazione piastrinica nelle valvole di origine naturale e in esse i fenomeni tromboembolici sono più rari.

Nelle protesi valvolari meccaniche, vi è accordo generale sulle necessità di trattare i pazienti con terapia anticoagulante orale (TAO). Ma nonostante la TAO, persiste un rischio tromboembolico piuttosto elevato, valutabile intorno al 25% in 5 anni, con una maggiore incidenza nel primo anno (circa il 14%). Queste incidenze si riferiscono ai portatori di valvole mitraliche tipo Starr-Edwards mentre risultano inferiori per le valvole tipo Bjork-Shiley, e ancora assai inferiori per le valvole biologiche. Pazienti con valvole tipo Starr-Edwards in posizione aortica, trattati con TAO, hanno invece una incidenza embolica del 10% in 5 anni. Il rischio di complicazioni emboliche nei pazienti con valvole meccaniche è influenzato anzitutto dalla correttezza del trattamento anticoagulante.

Sono stati condotti in questa condizione almeno 6 importanti studi randomizzati di associazione anticoagulanti-antiaggreganti piastrinici. Sia il dipiridamolo che l'ASA associati alla TAO si sono dimostrati efficaci nel ridurre ulteriormente l'incidenza di manifestazioni emboliche. In uno studio della durata di un anno (33) l'incidenza di fenomeni embolici si è ridotta dal 14% nei pazienti con la sola TAO all'1,3% in quelli trattati anche con dipiridamolo. Anche l'ASA si è dimostrato efficace, ma a prezzo di una incidenza un po' più elevata di emorragie gastrointestinali.

I buoni risultati ottenuti con l'associazione del dipiridamolo sono confortanti in quanto permettono di usare un antiaggregante che non allunga il tempo di sanguinamento e che non aumenta il rischio emorragico.

 

 

MALATTIA CEREBROVASCOLARE

 

L'ictus cerebrale costituisce la terza causa singola di morte nelle società ad alto tenore di vita. Circa 1'80% di tutti gli ictus è di natura aterotrombotica o cardioembolica, e può pertanto risentire positivamente di una profilassi con farmaci antitrombotici. L'indagine epidemiologica mette in evidenza che i pazienti che hanno presentato uno o più accessi ischemici transitori (TIA) o ricorrenti (RIA) sono ad un rischio di ictus cerebrale completo del 20-30% entro 5 anni dal primo evento transitorio, con massima incidenza nel primo anno (10-15%) e incidenza successiva del 5% annuo (43).Va sottolineato inoltre che la mortalità per infarto miocardico nei pazienti con TIA è altrettanto importante di quella per ictus cerebrale.

Gli studi di prevenzione secondaria con farmaci antiaggreganti sono assai numerosi: il giudizio non è semplice in quanto le casistiche sono composite e gli endpoints non sempre correttamente valutabili. Nonostante alcuni studi negativi, la maggior parte dei trials ha evidenziato un effetto protettivo dell'ASA da solo o associato al dipiridamolo soprattutto nei confronti dell'ictus non fatale, con un effetto decisamente meno importante sull'ictus fatale e sulla mortalità vascolare.

Rispetto alla utilità del dipiridamolo associato all'ASA, lo studio Americano-Canadese (44) condotto con ASA 1300 mg/die versus ASA più dipiridamolo 225 mg/die su 890 pazienti con TIA carotidei, non ha messo in evidenza differenze tra i due trattamenti riguardo l'incidenza di ictus, infarto retinico e mortalità generale.

Tuttavia uno studio europeo (European Stroke Prevention Study) (45) ha valutato l'effetto dell'associazione ASA 975 mg e dipiridamolo 225 mg/die, nei confronti del placebo su 2500 pazienti con TIA o ictus minore, rilevando una riduzione globale della frequenza degli endpoints (ictus e mortalità totale) del 33% in due anni di osservazione; la riduzione degli ictus fatali risultò del 50%, quella degli ictus totali del 38%, tutte riduzioni significative. La riduzione della mortalità per infarto miocardico (del 37%) non è invece risultata significativa.

Un altro studio di grande importanza (UK-TIA study) (46) ha confrontato due dosaggi di ASA (1200 e 300 mg/die) con il placebo seguendo per un periodo medio di 4 anni 2435 pazienti. Lo studio ha dimostrato anzitutto che i due dosaggi di ASA sono equivalenti. L'ASA riduceva del 18% gli eventi globali (ictus non fatale, infarto non fatale e mortalità vascolare e non vascolare) considerati assieme, mentre non riduceva la mortalità vascolare presa da sola o in combinazione con l'ictus inabilitante. Da questo studio è emersa quindi l'osservazione che l'ASA protegge più effficacemente dagli eventi meno gravi, non fatali, che da quelli fatali, introducendo anche la questione della eventuale responsabilità del farmaco nel favorire un certo numero di ictus emorragici.

 

Recentemente uno studio svedese (il SALT: Swedish Aspirin Low-dose Trial) (47) ha valutato 1'efficacia dell'ASA a basso dosaggio (75 mg/die) rispetto al placebo nella prevenzione dell'ictus e degli eventi fatali, in 1360 pazienti con TIA o ictus minore. Il gruppo trattato con ASA mostrava una riduzione del 18% di ictus e mortalità. Tuttavia le basse dosi usate in questo studio non sembrano annullare gli effetti collaterali emorragici pur riducendoli rispetto a quelli riscontrati con dosi più alte. Quasi contemporaneamente venivano pubblicati anche i dati di un gruppo olandese (Dutch TIA Trial) (48) sul confronto tra ASA a due differenti dosaggi (30 o 283 mg) nella prevenzione secondaria degli eventi nei pazienti con TIA. I due gruppi, per un totale di 3131 pazienti seguiti per 30 mesi, mostrarono una incidenza analoga di eventi cardiovascolari. Gli effetti collaterali furono notevolmente ridotti, ma ancora una volta non annullati nel gruppo trattato con 30 mg di aspirina. Per quanto riguarda l'ictus completo, uno studio nel quale i pazienti erano stati arruolati per aver superato appunto un ictus completo (Swedish Coop. Study, 49), in cui l'ASA a 1500 mg/die era testato contro placebo, non aveva mostrato alcuna efficacia dell'aspirina nella prevenzione di ictus fatali o non fatali, mortalità vascolare e infarto miocardico in questi pazienti più severi. Al contrario, nel Canadian American Ticlopidine Study (CATS) (50), la ticlopidina ha dimostrato una riduzione del 30% di eventi vascolari maggiori (infarto miocardico, morte vascolare, ictus cerebrale) in 1053 pazienti con pregresso ictus. Un confronto diretto tra ticlopidina e aspirina (studio TASS, 51) condotto in pazienti con TIA o ictus minore, ha documentato una modesta superiorità della ticlopidina, sebbene con una discreta maggior incidenza di effetti collaterali.

I risultati degli studi in pazienti cerebrovascolari sono stati valutati nella meta-analisi pubblicata nel 1988 dal gruppo APTC (16) condotta su 8.689 pazienti entrati nei vari studi per TIA o Ictus. La terapia antiaggregante sembra poter ridurre il rischio di infarto, ictus e morte vascolare del 22%, con una diminuzione del rischio di ictus non fatale della stessa misura.

Una seconda metanalisi condotta più recentemente dallo stesso gruppo, su 9530 pazienti con pregresso TIA o stroke tromboembolico, ha messo in evidenza una riduzione del rischio combinato di ictus, infarto miocardico e morte vascolare del 24% nel gruppo trattato con antiaggreganti, rispetto al placebo. L'effetto protettivo sembra essere massimo nel primo anno, per diminuire poi progressivamente durante il secondo e il terzo anno di trattamento.

In conclusione, il trattamento con antiaggreganti e particolarmente ASA con o senza dipiridamolo, o ticlopidina, è in grado di ridurre notevolmente l'incidenza di ictus non fatale in pazienti cardiovascolari, mentre la sua efficacia è più limitata nel prevenire gli ictus fatali o altamente inabilitanti e la mortalità cardiovascolare. Dosi di aspirina inferiori a quelle tradizionali (75 o addirittura 30 mg) sembrano mantenere una efficacia preventiva. Tuttavia l'aspirina non sembra essere la soluzione ottimale per questi pazienti, in quanto la sua efficacia non è del tutto provata nella riduzione degli ictus più gravi o mortali, specie nei pazienti che hanno già avuto un ictus completo. Assume perciò valore, in quest'ultima categoria di pazienti, l'effetto positivo ottenuto con la ticlopidina.

 

 

ARTERIOPATIE PERIFERICHE E PROTESI VASCOLARI

 

Nelle arteriopatie obliteranti degli arti inferiori, durante il secondo stadio della malattia, gli obiettivi di impiego degli antiaggreganti possono essere elencati come segue:

1) miglioramento della distanza di marcia e del flusso ematico negli arti;

2) rallentamento della progressione della malattia tromboaterosclerotica;

3) riduzione degli eventi cardiovascolari maggiori fatali e non fatali.

Per quanto riguarda il primo obiettivo occorre sottolineare che stabilire la reale efficacia dei farmaci sulla distanza di marcia rappresenta un problema di non facile soluzione sia per le difficoltà di standardizzazione della misurazione di tale parametro, sia per la tendenza, in molti pazienti ad un miglioramento spontaneo della claudicatio.

In un nostro studio policentrico (52) in doppio cieco su 151 arteriopatici al secondo stadio, la ticlopidina ha aumentato significativamente sia la distanza di marcia che l'indice pressorio alle caviglie. Precedentemente un altro studio (53) aveva rilevato l'efficacia dell'associazione ASA (600 mg) e dipiridamolo (225 mg) rispetto alla sola aspirina nell'aumentare significativamente la distanza di marcia ma non gli indici pressori alle caviglie. Dati positivi sono emersi dagli studi fin qui condotti con l'indobufene (54)che hanno evidenziato la capacità anche di tale farmaco di incrementare la distanza di marcia degli arteriopatici (55).

La ketanserina, un antagonista degli S2 recettori per la serotonina, che inibisce l'aggregazione piastrinica da serotonina, ha esercitato effetti contradditori in numerosi studi di scarsa numerosità.

Nel vasto studio PACK condotto con ketanserina versus placebo il farmaco non si è invece dimostrato in grado di aumentare la distanza di marcia (56).

Il secondo obiettivo, ossia il rallentamento della progressione della malattia aterosclerotica, è stato ottenuto già nel 1985 in uno studio prospettico nel quale l'ASA (57) da solo alla dose di 330 mg/ die o in associazione con dipiridamolo 225 mg/die veniva confrontato con placebo per due anni in 240 arteriopatici. L'ASA, e ancor più la combinazione ASA-dipiridamolo appariva in grado di ridurre significativamente la progressione delle lesioni aterotrombonche valutate obiettivamente mediante angiografia.

Anche una revisione dei dati del Physician's Health Study (58) ha confermato l'efficacia dell'ASA a 325 mg a dì alterni per 5 anni, che ha portato in tale periodo ad una riduzione dell'incidenza di chirurgia arteriosa periferica rispetto al placebo. Tale riduzione è stata più significativa nei soggetti già affetti da claudicatio intermittens al momento di ingresso nello studio.

  È probabile che le basse dosi di ASA abbiano un ruolo importante nel condizionare la progressione dell'occlusione non tanto inibendo l'aterogenesi, ma prevenendo la formazione di trombi o microtrombi in vasi con stenosi severe. In tal modo l'ASA apporterebbe un considerevole beneficio negli stadi più avanzati della malattia.

Tra gli altri antiaggreganti la ticlopidina (59) nel complesso degli studi fino ad oggi condotti su pazienti con claudicatio ha ridotto del 2,8-8% pazienti/anno la necessità di amputazione. Anche la ketanserina ha dato risultati posinvi a questo riguardo (60).

La verifica dell'effficacia dei farmaci antipiastrinici nella prevenzione degli eventi cardiovascolari fatali e non fatali nei pazienti arteriopatici richiede studi prospettici con un notevole numero di pazienti e finora solo pochi studi hanno risposto a tale requisito. Dati aggiuntivi sono però stati ottenuti con la metanalisi.

 

Nello STIMS (61), studio randomizzato in doppio cieco con ticlopidina contro placebo, della durata media di 5 anni, l'incidenza di infarto miocardico fatale fu del 4,3% nel gruppo trattato e del 7,6% nel gruppo placebo all'analisi "intention to treat" e rispettivamente del 1,8% e del 5,3% in quella "on treatment", mentre non fu rilevata alcuna differenza tra i due gruppi sull'incidenza di stroke fatale e non, e di infarto miocardico non fatale. Questi risultati non vengono considerati del tutto conclusivi in una recente revisione critica degli studi sulla tidopidina (62).

Dai dati emersi dallo studio PACK (60) la ketanserina all'analisi primaria non sembrava avere effetto rispetto al placebo nella prevenzione degli eventi fatali e non fatali; successivamente l'esclusione dall'analisi dei pazienti trattati con diuretici metteva in evidenza un effetto favorevole del farmaco. Questo però non può essere considerato correttamente dimostrato, essendo il risultato scaturito da un riesame "a posteriori".

Con lo studio ADEP, (63) la picotamide, inibitore della trombossano sintetasi e dei recettori del trombossano, è stata testata su 2.330 pazienti seguiti per 18 mesi. All'analisi "on treatment", nei pazienti trattati vi è stata una riduzione del 23 % degli eventi cardiovascolari maggiori e minori assieme considerati, ma all'analisi "intention to treat" la riduzione non è risultata statisticamente significativa .

La metanalisi condotta dall'APTC ha evidenziato una riduzione del 41 più o meno l'8% di infarto miocardico, di ictus e di mortalità cardiovascolare nei gruppi di arteriopatici trattati con antiaggreganti, sottolineando anche la maggiore efficacia del trattamento nel primo anno.

Dai dati fin qui esposti emerge l'utilità della ticlopidina nel migliorare la distanza di marcia e dell'ASA associato a dipiridamolo nel rallentare la progressione distrettuale della malattia. La riduzione degli eventi cardiovascolari risulta chiara nella metanalisi, ma non è ancora dimostrata in modo incontrovertibile in un singolo studio con antiaggreganti, eccetto che nello studio STIMS con ticlopidina (61), fatte salve le riserve già espresse (62).

Nelle arteriopatie in terzo (dolore a riposo) e in quarto stadio (lesioni trofiche) si sta accumulando esperienza con l'uso di un analogo stabile della prostaciclina (carbaciclina o iloprost) e con la prostaglandina E1, ma i risultati non possono ancora dirsi conclusivi, sebbene siano assai promettenti.

I farmaci antipiastrinici sembrano oggi trovare indicazione anche nella prevenzione della occlusione di by-pass vascolari.

  È noto che i maggiori rischi di occlusione si hanno nelle protesi di diametro interno inferiore ai 5 mm. L'occlusione può essere precoce (trombotica) o tardiva; in questo caso, la zona critica è costituita dalla giunzione anastomotica nella quale si sviluppa un processo di iperplasia subintimale stenosante.

L'ASA, a diversi dosaggi, da solo o in associazione con dipiridamolo (64,65)e la ticlopidina, sono in grado di ridurre del 41% il rischio di occlusione del by-pass. Anche l'indobufene alle dosi di 400 mg/die ha dimostrato di essere efficace, e meglio tollerato dell'associazione ASA-dipiridamolo (66).

Il problema tuttavia non può dirsi ancora risolto specie per le occlusioni tardive ed è soggetto a costante evoluzione tecnologica per i nuovi materiali impiegati.

 

 

TROMBOSI VENOSE

 

Quanto espresso nel paragrafo sulle basi razionali del trattamento antiaggregante a proposito della "trombogenesi venosa" rende ragione delle scarse applicazioni dei farmaci antiaggreganti in tale patologia. Il trattamento antiaggregante con ASA è stato studiato, da solo o in associazione all'eparina a basse dosi, nella profilassi della trombosi venosa in interventi di artroprotesi di anca (67), un settore chirurgico nel quale la profilassi eparinica non fornisce risultati del tutto soddisfacenti. I risultati dell'associazione sono migliori di quelli ottenuti con l'eparina da sola, testimoniando che le piastrine hanno comunque un ruolo nella trombogenesi venosa.

Anche l'indobufene è stato recentemente valutato con risultati positivi (68), nella profilassi della trombosi venosa profonda (TVP) ricorrente e anche nella profilassi della (TVP) nell'infarto miocardico acuto (69). Del resto, la più recente meta-analisi di tutti i trial clinici con antiaggreganti conferma una certa efficacia di questi farmaci anche nella profilassi della TVP. Naturalmente, la grande, provata efficacia delle eparine standard e a basso peso molecolare in questa indicazione non permette di consigliare al momento attuale l'uso alternativo di antiaggreganti. Piuttosto, l'informazione data dalla meta-analisi dovrebbe stimolare nuovi studi clinici con antiaggreganti, da soli o associati all'eparina, nella profilassi di particolari tipi di TVP.

Un razionale particolare sottende Un razionale particolare sottende all'uso di farmaci antiaggreganti nella terapia delle sequele e nella profilassi delle recidive delle trombosi venose retiniche (TVR). Infatti è noto che nella patogenesi delle TVR, oltre a fattori emodinamici e meccanici, hanno grande importanza momenti di danno intimale, con rigonfiamento e desquamazione delle cellule endoteliali e probabili interazioni endotelio-piastrine. Uno studio con la ticlopidina (70) ha dimostrato preliminarmente un positivo effetto del farmaco sull'acuità visiva in pazienti con TVR di ramo.

 

 

ALTRE INDICAZIONI

 

Per quanto riguarda la più complessa situazione vascolare della retinopatia diabetica gli studi finora condotti con antiaggreganti hanno dato risultati incoraggianti, ma non conclusivi.

  È noto, infatti, che i soggetti affetti da diabete mellito presentano una alterata funzionalità piastrinica con un aumento della produzione di trombossano e di altri metaboliti dell'acido arachidonico, con una maggiore incidenza di patologia vascolare. Tuttavia nell'ETDRS (Early Treatment Diabetic Retinopathy Study Report) (71), studio randomizzato in doppio cieco condotto su 3711 diabetici, l'ASA a 325 mg due volte al giorno non si è dimostrata in grado di prevenire lo sviluppo della retinopatia proliferativa mentre ha portato ad una piccola e non significativa riduzione degli eventi cardiovascolari.

Lo studio DAMAD (Dipyridamole Aspirin Microangiopathy of Diabetes) (72) in doppio cieco, vs placebo, su 475 pazienti affetti da rennopatia diabetica, ha invece dimostrato l'efflcacia dell'ASA da solo, alla dose di 1 g al giorno, o in associazione con dipiridamolo 225 mg nel ridurre significativamente la progressione delle lesioni in tali soggetti.

Analoghi risultati sono stati ottenuti nel TIMAD (Tidopidine in Microangiopathy of Diabetes) (73) condotto con ticlopidina 500 mg contro placebo, per tre anni, in pazienti con retinopatia diabetica non proliferativa .

Negli shunt arterovenosi artificiali degli emodializzati si ha con notevole frequenza la formazione di un trombo prevalentemente piastrinico, che diventa occlusivo anche per effetto di una iperplasia intimale nella sede della inserzione venosa dello shunt. Questa complicanza costituisce un modello naturale di occlusione trombotica, a frequenza ben prevedibile, ed è quindi utile per lo studio dell'efflcacia di farmaci antitrombotici. In tali condizioni è stata documentata l'efflcacia dell'aspirina ed anche del sulfinpirazone. Tuttavia l'effetto non è di enutà così rilevante da far ritenere definitivamente risolto il problema.

 

Nelle microangiopatie trombotiche e nella preeclampsia si verificano condizioni di danno endoteliale grave e diffuso, tale da implicare marcati fenomeni di attivazione e aggregazione piastrinica. Nella gravidanza non complicata, vi è già una attivazione piastrinica con aumentata formazione di trombossano A2, potente agente aggregante e vasocostrittore la cui azione verrebbe però "bilanciata" da un corrispondente aumento di produzione di prostaciclina. Tale meccanismo di compenso sarebbe marcatamente alterato nella preeclampsia e nel ritardo di crescita fetale.

L'ASA a basse dosi è in grado di sopprimere selettivamente la sintesi del trombossano; a tale proposito esiste una documentazione positiva per l'aspirina a basso dosaggio nella pre-eclampsia (74) e nel ritardo di crescita fetale, dati confermati anche da una metanalisi recentemente pubblicata (75). Al contrario, uno studio italiano (76) ancora più recente, condotto su 1106 pazienti, con ASA a bassa dose (50mg/die contro placebo), non ha evidenziato differenze significative tra i due gruppi in termini di peso alla nascita dei neonati e di incidenza di ipertensione con o senza proteinuria. Si tratta di uno studio importante per numerosità: la discrepanza con i precedenti può essere dovuta alla minore entità di rischio delle donne arruolate.

Attualmente non sono ancora noti i dati dell'UK-based Collaborative Low-dose Aspirin Study in Pregnancy condotto su 9.000 pazienti.

In condizioni di microangiotrombosi è stato praticato l'uso di dipiridamolo, ASA o defibrotide, pur non essendovi evidenze conclusive dato il particolare tipo di casistica .

Nella glomerulonefrite membranosa proliferativa, è stato messo in evidenza un ruolo delle piastrine nel condizionare sia gli aspetti flogistici che quelli proliferativi della malattia, attraverso le interazioni leucociti-piastrine/endotelio dei vasi glomerulari e la produzione di trombossano e di PGDF, che sembrano avere un importante significato istopatogenetico. In tale condizione sono riportati risultati positivi per l'associazione ASA-dipiridamolo. Nel rigetto di trapianti renali si hanno analoghe condizioni di attivazione e aggregazione piastrinica che hanno stimolato studi col dipiridamolo e col defibrotide.

In certe emopatie o alterazioni ematologiche, come la policitemia, le trombocitemie e le trombocitosi, determinate anemie emolitiche, l'anemia a cellule falciformi, l'emoglobinuria parossistica notturna, le complesse interazioni tra gli eritrociti, i leucociti e le piastrine favoriscono uno stato di attivazione piastrinica che predispone a fenomeni micro- (o macro-) trombotici. Nella prevenzione di tale fenomeno è da considerarsi attentamente il possibile significato di una terapia antiaggregante, anche se gli studi in queste patologie non sono conclusivi.

Nell'insufficienza respiratoria cronica, infine, si verificano condizioni di importante attivazione piastrinica a livello del letto circolatorio polmonare. In condizioni di ipertensione polmonare è descritto un aumento della produzione di prostanoidi (PGI2 e TXA2) da parte degli endoteli dei vasi polmonari. Positive esperienze di terapia antiaggregante sono state riportate, ma esse non possono dirsi ancora conclusive. Infine, nella prevenzione della restenosi tardiva dopo angioplastica ?transluminale coronarica o periferica, non vi sono convincenti evidenze di un effetto positivo degli antiaggreganti piastrinici.

 

 

GIUDIZIO GLOBALE SUL TRATTAMENTO ANTIAGGREGANTE

 

Prevenzione secondaria

 

Per quanto la procedura della metanalisi sia criticata da parecchi biostatistici, i suoi risultati non possono essere ignorati. Due sono fino ad oggi i grandi studi di metanalisi sulla prevenzione secondaria: il primo di questi (16), a cui si è già accennato nei vari capitoli, ha preso in considerazione 31 trials randomizzati, riguardanti 29.000 pazienti con storia di TIA, ictus, infarto miocardico, angina instabile. I risultati hanno dimostrato che la prevenzione con antiaggreganti può evitare in media circa il 33% degli eventi vascolari non fatali (principalmente infarto e ictus) e il 16% di quelli fatali. Risultati analoghi, non ancora pubblicati, sono stati ottenuti da una seconda metanalisi (comunicazione personale) che ha considerato 189 trial per un totale di 90.297 pazienti. Ovviamente la riduzione percentuale ha un maggiore peso clinico laddove il rischio assoluto è più elevato, come ad esempio in pazienti con angina instabile o durante i primi 6 mesi dopo un infarto miocardico. In questo senso la "potenza" preventiva degli antiaggreganti non è inferiore a quella dei beta-bloccanti nel decorso post-infartuale o a quello dei tiazidici in soggetti anziani con ipertensione diastolica .

 

 

Prevenzione primaria

 

Considerando i risultati globalmente positivi della prevenzione secondaria, viene spontaneo porsi la domanda se un trattamento con antiaggreganti piastrinici possa o debba essere instaurato in soggetti che non hanno ancora presentato un episodio clinico di tipo cardio- o cerebro-vascolare. In soggetti sani di media età, il rischio di un simile episodio si aggira intorno all'1% annuo, ragion per cui uno studio appropriato richiede una assai elevata numerosità del campione. Va peraltro detto che l'eventuale scelta di medicalizzare una intera popolazione di soggetti normali lascia piuttosto perplessi, anche in vista dei rischi connessi ad ogni trattamento farmacologico e al trattamento antiaggregante in particolare. Evidentemente, i rischi emorragici del trattamento antiaggregante, sia pure contenuti, possono essere eticamente accettabili nella prevenzione secondaria , in presenza di una soddisfacente riduzione del rischio assoluto di eventi trombonici; ma non sono altrettanto accettabili nella prevenzione primaria, in presenza di deboli rischi assoluti. Si aggiunga che, a differenza dei soggetti normali, i pazienti vengono di regola trattati anche con altri farmaci, che possono ridurre svariati rischi associati (es.: betabloccanti, Ca-antagonisti, antiaritmici, antipertensivi, antidislipidemici) con una possibile sommazione di effetti positivi, che rende più accettabili gli eventuali effetti avversi degli antiaggreganti.

Tenendo presenti queste limitazioni di fondo, si possono leggere con maggiore spirito critico i risultati di due importanti ricerche cliniche di grande numerosità. In una esperienza nordamericana di autoterapia su più di 22.000 medici non sintomatici per vasculopatia (77) l'assunzione di aspirina (300 mg a giorni alterni) per un tempo medio di 5 anni si è accompagnata ad una riduzione altamente significativa degli infarti miocardici fatali (da 18 a 5) e non fatali (da 171 a 99). Tuttavia, nessun beneficio veniva riscontrato riguardo alla mortalità e al numero di ictus cerebrali e, anzi, veniva osservato un aumento degli ictus emorragici severi o mortali (da 2 a 10). Per quanto combinando tutti gli eventi vascolari (infarto e ictus non fatali più mortalità cardiovascolare) persista con l'aspirina una riduzione significativa del rischio (del 23%), il tributo di un sovrappiù di 8 ictus cerebrali emorragici probabilmente causati o concausati dal farmaco in soggetti altrimenti sani, rispetto a un risparmio di 13 infarti miocardici fatali, pone senza dubbio un pesante problema etico. Le perplessità sono aumentate dal fatto che in una parallela esperienza di autoterapia su poco più di 5.000 medici inglesi apparentemente sani (78), l'assunzione giornaliera di 500 mg di aspirina non ha invece prodotto una differenza significativa nell'incidenza di infarto miocardico o ictus non fatale.

 

Una valutazione globale ci porta a concludere che, per quanto sia probabile che gli antiaggreganti possano prevenire gli eventi clinici di tipo trombotico della malattia aterosclerotica anche in soggetti sani, i rischi connessi al trattamento antiaggregante hanno un peso etico e sociale assai maggiore nei soggetti sani che non nei soggetti clinicamente affetti da cardio-vasculopatie. In futuro si dovranno impostare trials preventivi in cui i soggetti da trattare, per quanto clinicamente non ancora sintomatici, siano a "rischio" almeno mediamente elevato, in quanto selezionati attraverso comprovati indici di rischio (ipercolesterolemia, iperfibrinogenemia ecc.).

Al momento attuale riteniamo che i primi risultati di prevenzione primaria, per quanto interessanti, non siano tali da incoraggiare un uso degli antiaggreganti allargato alla popolazione "normale".

 

 

EFFETTI AVVERSI DEI FARMACI ANTIAGGREGANTI

 

Anche per gli antiaggreganti sussiste la fondamentale esigenza di procedere ad una accurata valutazione del rapporto rischi-benefici al fine di stabilire correttamente l'indicazione clinica, la scelta del farmaco e la condotta della terapia. I princìpi razionali per la valutazione di questo bilancio sono:

1) la considerazione che tanto minore è il rischio assoluto di eventi trombotici, tanto maggiore è il peso degli eventuali effetti avversi;

2) la consapevolezza che, in pazienti trattati con più farmaci, aumenta il rischio assoluto di effetti avversi;

3) la necessità di usare le dosi minime efficaci per ogni farmaco, se conosciute, al fine di ridurre la tossicità dose-dipendente.

 

 

Dipiridamolo

 

Non ha effetto proemorragico e non allunga il tempo di emorragia. La tossicità gastrointestinale è bassa. Sono invece più frequenti: cefalea, vertigini, ipotensione e turbe gastriche funzionali o transitorie (nausea, vomito). In soggetti con angina può talora verificarsi un aumento paradosso degli accessi anginosi.

Il dipiridamolo è l'unico antiaggregante che può essere associato agli anticoagulanti senza aumentare il rischio emorragico.

 

 

Aspirina

 

Gli effetti avversi collegati al meccanismo dell'azione antitrombotica sono quelli emorragici, soprattutto a carico del tratto gastroenterico. La lesività gastroenterica è legata alla stessa azione dell'aspirina sul metabolismo dell'acido arachidonico.

Il trattamento prolungato a dosi elevate produce edema della mucosa gastrica in una percentuale molto alta di casi, con vere ulcerazioni nel 15% circa dei casi. La gastrolesività è dose-dipendente. L'intolleranza all'aspirina invece non è dose-dipendente e si manifesta con asma bronchiale e/o orticaria sino all'edema angio-neurotico. In gravidanza, l'aspirina può determinare maggiore incidenza di emorragie neonatali.

 

 

Indobufene

 

Questo farmaco ha effetti collaterali gastrolesivi inferiori a quelli dell'aspirina, e si avvantaggia anche della sua azione reversibile sulla cicloossigenasi piastrinica risultando meno pro-emorragico. Sono segnalate rare reazioni di ipersensiblità.

 

 

Sulfinpirazone

 

Anche nel caso del sulfinpirazone i disturbi più frequentemente osservati sono gastroenterici, inferiori comunque a quelli dell'aspirina . Sono descritti inoltre rari effetti tossici a livello ematico quali anemia, leucopenia, agranulocitosi; e a livello renale, calcolosi urica, insufficienza renale. L'effetto litogeno è legato all'azione uricosurica e può essere ridotto iniziando il trattamento con posologia scalare. Inoltre il sulfinpirazone potenzia l'effetto degli anticoagulanti orali per competizione sul legame con le proteine plasmatiche.

 

 

Ticlopidina

 

Effetti avversi collegati al meccanismo di azione sono possibili, soprattutto come emorragie mucose, sanguinamento postoperatorio, ecchimosi. I disturbi più frequenti sono a livello gastroenterico e non sono gravi. Le reazioni avverse più gravi, ma di rara osservazione, sono quelle di natura ematologica: sono stati descritti casi di agranulocitosi e/o trombocitopenia reversibili con la sospensione del farmaco, e rarissimi casi di pancitopenia aplastica non reversibili. Le complicanze ematologiche gravi si concentrano nei primi tre mesi di trattamento, durante i quali è raccomandata l'esecuzione di controlli ematologici. La frequenza di danni ematologici gravi associati all'uso di ticlopidina si valuta intorno a 1 caso su circa 70.000 pazienti/mese di trattamento e non è dose-dipendente. Rari casi di aumento di enzimi epatici sono pure descritti. Il farmaco non va comunque associato ad altri antiaggreganti e tanto meno ad anticoagulanti, e si deve tener conto del suo effetto prolungato (4-7 giorni dopo la sospensione).

 

 

CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE SUI MAGGIORI FARMACI ANTIAGGREGANTI

 

Da quanto sopra esposto, si possono così riassumere le attuali indicazioni preferianziali dei singoli farmaci antiaggreganti.

 

 

Aspirina

 

Ha dato i risultati più brillanti nella profilassi della mortalità e del reinfarto nell'infarto acuto o in pazienti con angina instabile; e nella prevenzione dell'ictus non mortale nei pazienti con TIA. Il dosaggio dimostratosi efficace in studi clinici è compreso fra i 30 e i 1.300 mg, il dosaggio oggi raccomandabile è tra i 100 e i 300 mg/die. I risultati della seconda metanalisi hanno confermato parità di effetti tra le dosi alte ( > 500 mg/ die) e quelle medie (minore o uguale 325 mg/die). L'efficacia protettiva del farmaco è massima nel primo anno di trattamento, con un ulteriore beneficio nel secondo anno e tende a ridursi pur rimanendo ancora positiva nel terzo anno. L'effetto dell'aspirina perdura almeno una settimana dopo l'ultima somministrazione.

 

 

Aspirina più dipiridamolo

 

La combinazione ha dato i risultati più brillanti nella prevenzione della ostruzione di by-pass aorto-coronarici, nella prevenzione dell'ictus nei pazienti con TIA e nel rallentamento della progressione della aterotrombosi nelle arteriopatie periferiche. Dosaggio attualmente raccomandato: aspirina 300 mg + dipiridamolo 400 mg.

 

 

Dipiridamolo

 

Associato agli anticoagulanti orali, ha dato buoni risultati nella profilassi del trombo-embolismo in portatori di protesi valvolari alla dose di 400 mg/die.

 

 

Ticlopidina

 

Ha dimostrato efficacia nella prevenzione di mortalità ed eventi in pazienti con ictus cerebrale e con angina instabile. Inoltre aumenta la distanza di marcia, e probabilmente riduce gli eventi nelle arteriopatie periferiche. Dose raccomandata: 500 mg in due somministrazioni giornaliere.

 

 

Indobufene

 

Studi recenti hanno messo in evidenza l'efficacia clinica di questo farmaco nella prevenzione della occlusione di by-pass aorto-coronarici e femoro-poplitei. La dose usata in terapia è di 200-400 mg.

 

 

Picotamide

 

Questo farmaco, inibitore della sintesi del trombossano e dei recettQuesto farmaco, inibitore della sintesi del trombossano e dei recettori per lo stesso trombossano, ha potuto ridurre la somma di tutti gli eventi maggiori e minori in soggetti arteriopatici. Sono naturalmente necessarie ulteriori conferme di efficacia.Questo farmaco, inibitore della sintesi del trombossano e dei recettori per lo stesso trombossano, ha potuto ridurre la somma di tutti gli eventi maggiori e minori in soggetti arteriopatici. Sono naturalmente necessarie ulteriori conferme di efficacia.Questo farmaco, inibitore della sintesi del trombossano e dei recettori per lo stesso trombossano, ha potuto ridurre la somma di tutti gli eventi maggiori e minori in soggetti arteriopatici. Sono naturalmente necessarie ulteriori conferme di efficacia.Questo farmaco, inibitore della sintesi del trombossano e dei recettori per lo stesso trombossano, ha potuto ridurre la somma di tutti gli eventi maggiori e minori in soggetti arteriopatici. Sono naturalmente necessarie ulteriori conferme di efficacia.Questo farmaco, inibitore della sintesi del trombossano e dei recettori per lo stesso trombossano, ha potuto ridurre la somma di tutti gli eventi maggiori e minori in soggetti arteriopatici. Sono naturalmente necessarie ulteriori conferme di efficacia.

 

 

Altri farmaci

 

Un giudizio clinico è ancora prematuro per il Trapidil, un antiaggregante dotato di particolare attività bloccante sul fattore di crescita di origine piastrinica. Uno studio in corso sulla restenosi dopo angioplastica transluminale potrà definire la valenza clinica di tale effetto. Per quanto riguarda Defibrotide, il suo meccanismo d'azione più complesso ci esime dal trattarne in questa sede. I preparati a base di grassi marini hanno anch'essi numerosi effetti sull'emostasi e estranei all'emostasi per cui non vengono trattati in questa sede.

 

 

 

CONDOTTA DELLA TERAPIA ANTIAGGREGANTE

 

Nella pratica clinica, l'indicazione ad una terapia antiaggregante non deve essere posta a partire da test di aggregazione, che sono sempre di difficile interpretazione e di dubbio valore nel dimostrare una iperaggregazione. Altri test di funzione piastrinica come la beta-tromboglobulina possono essere di ausilio, ma nemmeno essi debbono condizionare l'indicazione. Questa viene posta semplicemente in base al razionale, ben noto, della partecipazione piastrinica alla patogenesi dell'atero-trombosi.

Si deve raccomandare di attenersi, a grandi linee, ma senza rigidità, ai risultati dei trials più accreditati. Occorre anche tener presente che i singoli farmaci antiaggreganti hanno certamente delle indicazioni preferenziali.

Ciò vuol dire che l'indicazione individuale potrà essere gestita su base clinica tenendo presenti condizioni varie inerenti al paziente, eventuali controindicazioni, idiosincrasie, allergie e presenza di farmaci associati. Nel passaggio da un antiaggregante ad un altro, occorre tenere presente la lunga durata dell'effetto di alcuni di essi, come l'aspirina e la ticlopidina .

Riportiamo qui alcune raccomandazioni (da Hirsh, 79, modificato) sulla conduzione della terapia antiaggregante, e sulla scelta del tipo di farmaco.

1) L'aspirina è indicata particolarmente in pazienti con angina stabile, angina instabile, infarto miocardico acuto, post infarto miocardico, attacchi ischemici transitori.

2) Una dose da 160 a 325 mg/die dovrebbe essere usata per tutte le indicazioni eccetto nei pazienti con malattia cerebrovascolare.

3) Per pazienti con malattia cerebrovascolare, anche se vi sono studi positivi con dosi molto basse (fino a 30 mg/rdie), dosi più alte (975 mg/rdie) potrebbero essere più efficaci, almeno secondo alcuni gruppi di neurologi.

4) L'associazione di aspirina (160 mg/r die) agli anticoagulanti orali è indicata nei pazienti con protesi valvolari meccaniche resistenti alla terapia anucoagulante orale.

5) L'aspirina può essere data a pazienti con fibrillazione atriale non reumatica nei quali vi sia controindicazione alla terapia anticoagulante orale.

6) La ticlopidina (250 mgx2) può essere usata, in tutte le indicazioni dell'aspirina, nei pazienti con allergia o con intolleranza all'aspirina stessa, oppure in pazienti che continuano a presentare eventi trombotici o embolici nonostante siano in trattamento con aspirina . Inoltre la ticlopidina è specificamente indicata dopo un ictus completo e nelle arteriopatie periferiche.

7) La ticlopidina non deve mai essere usata in associazione con la terapia anticoagulante orale.

8) Nei pazienti con protesi valvolari meccaniche resistenti alla terapia anticoagulante orale e che non possono asumere l'aspirina, deve essere usato, sempre in associazione agli anticoagulanti, il dipiridamolo (225 mg/die).

La durata della terapia antiaggregante non è prescritta da alcuna sperimentazione specifica, ma solo suggerita . Essa non deve essere inferiore ad un anno e può essere mantenuta per almeno tre anni.

Vogliamo comunque sottolineare, alla fine di questa rassegna, che i trials clinici sono grandi modelli che ci forniscono informazioni obiettive, essenziali per la formazione della nostra cultura. Dobbiamo però tenere presente che la terapia del singolo paziente non potrà mai essere la "fotocopia" di quanto leggiamo negli studi clinici controllati, ma piuttosto una intelligente e flessibile trasposizione al caso particolare delle indicazioni generali ricavate da una lettura critica dei trials medesimi.

 

   

Letture consigliate

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