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L'antisemitismo si può definire un'avversione nei confronti degli ebrei che si traduce in forme di discriminazione e di persecuzione, spesso cruenta e culminata nel corso della seconda guerra mondiale nello sterminio di milioni di persone. Il termine fu coniato intorno al 1879 per designare l'ideologia e l'atteggiamento persecutorio nei confronti degli ebrei.
L'ideologia antisemita si basa su una teoria razzista, inizialmente formulata in Francia e in Germania alla metà del XIX secolo, secondo la quale le persone della cosiddetta "razza ariana" sarebbero per fisico e temperamento superiori agli ebrei. Questa teoria, sebbene duramente criticata per la sua inconsistenza scientifica, si diffuse ugualmente in particolare attraverso le opere del diplomatico francese Joseph Arthur de Gobineau e quelle del filosofo tedesco Karl Dühring e fu utilizzata per giustificare la persecuzione civile e religiosa che gli ebrei avevano subito attraverso i secoli.
Radici storiche delle persecuzioni antisemite nell'Europa occidentale
Pur essendo attestato già nel mondo greco e romano, l'antisemitismo si diffuse con il cristianesimo e fino alla rivoluzione industriale fu un fenomeno essenzialmente di natura religiosa. Il trionfo del cristianesimo nel IV secolo segnò l'inizio di una lunga persecuzione nei confronti degli ebrei, che vennero segregati in ghetti, obbligati a portare segni di riconoscimento, ostacolati nelle loro attività. Vennero inoltre scacciati da molti paesi: dall'Inghilterra nel 1290, dalla Francia nel 1394, dalla Spagna nel 1492.
Dai cristiani gli ebrei vennero incolpati della morte di Cristo, e, ricorrentemente, nell'Europa medievale, di assassinio rituale di bambini, di profanazione di ostie sacre, di diffusione della peste, di avvelenare le sorgenti d'acqua ecc. Nel XVII e XVIII secolo, in seguito alla diffusione dell'illuminismo e della Rivoluzione francese, la persecuzione religiosa diminuì sensibilmente.
L'antisemitismo politico e razziale
Verso la fine del XIX secolo in Europa si verificò un ritorno del pregiudizio antisemita, ma stavolta su fondamenti diversi; ai motivi religiosi si sostituirono quelli politici ed economici. Questo cambiamento era in qualche misura legato alla diffusione del nazionalismo e alla rivoluzione industriale; infatti, sia per la loro particolarità linguistica (l'uso dello yiddish in Europa centrale) e religiosa (la religione ebraica era praticata da una comunità che ignorava le frontiere; Ebraismo), sia per la supposta preferenza per il liberalismo economico, gli ebrei furono accusati di indebolire l'unità nazionale. Anche lo sviluppo del capitalismo, in cui gli ebrei ebbero un importante ruolo finanziario, contribuì alla diffusione di stereotipi che alimentarono il pregiudizio antisemita. In Francia, Germania e Russia, contemporaneamente alla diffusione di ideologie nazionalistiche e anticapitalistiche, si diffuse, in misura molto maggiore che negli altri stati europei, un forte risentimento nei confronti degli ebrei.
Fu soprattutto in Germania e in Austria che si sviluppò l'antisemitismo moderno. Una prima campagna antisemita fu lanciata in seguito alla grave crisi economica che colpì i due paesi negli anni Settanta e nel 1880 Eugène Dühring pubblicò un saggio violentemente antisemita (La questione ebrea). In Austria il Partito cristiano-sociale vinse le elezioni per il borgomastro della città di Vienna con un programma dichiaratamente antisemita.
Gli argomenti utilizzati dall'antisemitismo tedesco erano fondamentalmente due: il primo, che riprendeva le tesi sviluppate in Francia da Gobineau, affermava la superiorità della "razza ariana" e metteva in guardia dal pericolo di una sua corruzione rappresentato dai matrimoni con individui di razza ebraica; il secondo sosteneva la pericolosità del liberalismo, considerato da una parte dell'élite tedesca come una dottrina squisitamente ebraica. La diffusione dei sentimenti antisemititi fu utilizzata spregiudicatamente da Bismarck contro le opposizioni democratiche e marxiste: indicando gli ebrei come i fomentatori delle lotte sociali, egli pensava di contrastare l'affermazione del movimento socialista.
Da allora sulla scena politica tedesca vi fu sempre almeno un partito apertamente antisemita fino al 1933, anno in cui l'antisemitismo divenne addirittura politica ufficiale del governo nazionalsocialista.
In Francia l'antisemitismo ebbe uno sviluppo analogo: scoppiato in seguito al fallimento di una banca (attribuito al complotto di una supposta "banca ebraica"), si alimentò di sentimenti nazionalisti, anticapitalisti e teorie pseudo-scientifiche sulla razza e culminò nel 1894 nell'affare Dreyfus, l'ufficiale ebreo dell'esercito francese imprigionato con l'accusa di tradimento. Tuttavia in Francia, la forte mobilitazione in difesa di Dreyfus (nel 1898 Emile Zola pubblicò il famoso J'accuse) e la successiva liberazione, segnarono, dopo anni di drammatica tensione fra i democratici e la destra nazionalista, la fine dell'antisemitismo come argomento di propaganda politica.
La persecuzione nell'Europa orientale: i pogrom
A differenza di quanto avvenne nell'Europa occidentale, in quella orientale il processo di emancipazione degli ebrei non ebbe mai luogo. In Russia, ad esempio, ancora nel XIX secolo venivano adottate misure restrittive volte a impedire agli ebrei l'acquisizione di proprietà terriere e a limitare il loro accesso all'istruzione superiore. La persecuzione culminò in una serie di massacri collettivi, noti come pogrom, che iniziarono nel 1881 dopo l'attentato che costò la vita allo zar Alessandro II e coinvolsero centinaia di villaggi e città. Uno dei massacri più feroci si verificò nel 1906, all'indomani del fallimento della prima rivoluzione russa (vedi Russia: La rivoluzione del 1905).
Gli storici convengono sul fatto che i pogrom furono il risultato di una deliberata politica del governo, che preferì volgere al fanatismo religioso il malcontento delle masse russe. A tal fine si ricorse persino a un nuovo tipo di propaganda, che consisteva nella fabbricazione e nella pubblicazione di documenti falsi: i Protocolli dei savi di Sion, ad esempio, avevano la pretesa di rivelare i particolari di una presunta cospirazione internazionale degli ebrei per dominare il mondo. Queste pubblicazioni, che risalgono al 1905 e che contenevano informazioni del tutto false e fantasiose, furono usate anche durante i pogrom successivi alla rivoluzione del 1917, in cui vi furono centinaia di migliaia di vittime.
L'antisemitismo e il genocidio
L'antisemitismo, che nel periodo fra la prima e la seconda guerra mondiale aveva continuato a essere in Europa un sentimento diffuso, ancorché non organizzato, esplose nella Germania degli anni Trenta sotto il regime nazista guidato da Adolf Hitler. Con il nazismo la discriminazione e la persecuzione degli ebrei divennero un vero e proprio obiettivo politico, scientificamente perseguito. Iniziata già nel 1933 con il boicottaggio dei negozi, la persecuzione contro gli ebrei continuò prima con la promulgazione delle leggi di Norimberga del 1935 e con la drammatica notte dei cristalli del 1938, per culminare poi nella "soluzione finale", lo sterminio scientifico di tutti gli ebrei dei territori occupati dai tedeschi tra il 1939 e il 1945 (vedi Olocausto). Alla fine della guerra circa sei milioni di ebrei (due terzi dell'intera popolazione ebraica residente in Europa) erano stati uccisi nei campi di sterminio.
Anche in Italia, nel 1938, vennero promulgate delle Leggi Razziali, sul modello di quelle tedesche, che privarono i 40.000 ebrei italiani dei diritti civili e politici e ne condannarono molti alla deportazione nei campi di concentramento tedeschi, di cui scrisse una drammatica testimonianza Primo Levi nell'opera Se questo è un uomo.
L'orrore della comunità internazionale contro i crimini nazisti fu unanime: i campi della morte furono infatti menzionati nella Dichiarazione universale dei diritti umani, adottata nel 1948 dall'Assemblea generale dell'Organizzazione delle Nazioni Unite. Nel 1945 al primo processo internazionale per i crimini di guerra che si tenne a Norimberga contro alti dirigenti del regime nazista, le persecuzioni compiute contro gli ebrei vennero giudicate come crimini contro l'umanità. I beni e le proprietà sottratti agli ebrei dai nazisti furono tuttavia restituiti soltanto in parte e ancora oggi emergono nuovi elementi sulla responsabilità di nazioni, anche neutrali nella seconda guerra mondiale (come la Svizzera), sulla spoliazione del popolo ebreo.
L'antisemitismo nel dopoguerra
La Chiesa cattolica ha condannato l'antisemitismo e ha cercato di rimuoverne le basi religiose: nel Concilio Vaticano II (1962-1965) infatti fu ufficialmente negata la responsabilità degli ebrei nella morte di Cristo e fu duramente condannato il regime nazista. Recentemente la Chiesa cattolica ha compiuto anche altri passi nel riconoscimento delle proprie responsabilità nella diffusione del pregiudizio antisemita.
Nonostante l'universale sdegno suscitato nell'opinione pubblica dai crimini nazisti, dal dopoguerra a oggi si sono verificati ancora in diversi paesi europei atti di violenza e di ostilità nei confronti degli ebrei, fra cui tristemente comune è la profanazione dei cimiteri ebraici. Dalla fine degli anni Sessanta in poi, gruppi neonazisti hanno continuato a fare propaganda antisemita in Europa e negli Stati Uniti d'America. Anche in America latina, rifugio di molti nazisti fuggiti alla fine della guerra, si sono verificati episodi antisemiti, ad esempio dopo la cattura del criminale nazista Adolf Eichmann, avvenuta in Argentina nel 1960 da parte dei servizi segreti israeliani.
A dispetto dell'enorme patrimonio storiografico, letterario e di testimonianze sul dramma provocato dall'antisemitismo, questo è ancora lontano dall'essere debellato. Nell'Europa occidentale, in quella orientale seguita alla dissoluzione del sistema comunista, negli Stati Uniti, durante gli anni Novanta c'è stato un forte ritorno del pregiudizio antisemita, testimoniato dalla rinascita e dal successo elettorale di partiti dichiaratamente o velatamente neonazisti e razzisti e dalla diffusione e, sfortunatamente, dal successo, di opere di revisionismo storiografico tendenti a negare la realtà stessa dell'Olocausto.
ANTISEMITISMO
- Una devianza dell'umanità |
EBREI |
MASSACRATI |
di Marco Paganoni
I soldati della Decima Legione "Fretensis" che, in un giorno d’estate dell’anno 70 d.C., agli ordini di Tito Flavio, figlio dell’imperatore Vespasiano, dopo lunghi mesi di assedio fecero irruzione nella città di Gerusalemme mettendola a ferro e fuoco e distruggendone l’antico Tempio ebraico, non potevano certo immaginare quanto profonde e durature sarebbero state le conseguenze di quella che, ai loro occhi, doveva sembrare niente più di una semplice vittoria militare. Quattro anni prima, i giudei che abitavano in quella remota provincia dell’Impero si erano rivoltati contro Roma. E Roma aveva reagito da par suo, combattendoli con tenace determinazione fino a sconfiggerli sin dentro la loro capitale. Infrante le loro ambizioni, cancellati i simboli della loro indipendenza, i ribelli sarebbero stati uccisi o deportati, quella piccola nazione cancellata dalla faccia della terra e l’intera faccenda definitivamente conclusa.
Non andò così. Il popolo ebraico – che cinque secoli prima aveva forgiato gran parte della propria identità religiosa e culturale, oggi diremmo del suo "immaginario collettivo", nei cinquant’anni di cattività babilonese – si presentava come un gruppo umano particolarmente ben attrezzato, culturalmente e teologicamente, ad affrontare la dura prova della perdita dell’indipendenza politica, dell’esilio e della dispersione. Con l’avvio della grande elaborazione rabbinico-talmudica, infatti, l’ebraismo seppe dotarsi di una sorta di "ideologia dell’esilio" capace di preservare nel tempo, per secoli, e nella dispersione geografica un’originale concezione di sé e del proprio ruolo nella storia, e di interpretare il disastro nazionale – e le tragedie che sarebbero seguite – non come sconfitte e smentite, ma come motivi di conferma e di rinnovata attesa messianica.
In quello stesso anno 70, un altro gruppo di abitanti dell’Impero – destinato come pochi altri a giocare un ruolo centrale nella storia umana – contemplava con occhi ben diversi la distruzione di Gerusalemme e del Tempio. Per i primi cristiani, la violenta cancellazione dell’intero contesto culturale, religioso e sociale che aveva fatto da sfondo all’avvento di Gesù e che avrebbe dovuto vedere il suo ritorno "nel tempo della nostra vita", l’apparente sconfitta, quindi, di tante profezie e, soprattutto, la fine della Chiesa di Gerusalemme, travolta dalle sorti della guerra giudaica, ponevano problemi formidabili che rendevano necessaria una radicale rielaborazione del proprio pensiero e della propria dottrina.
"La vittoria sulla Giudea Jribelle – scrive lo studioso Cesare Mannucci – viene celebrata a Roma con trionfi spettacolari; tutti i giudei, anche i più quietisti, appaiono sospettabili di scarsa lealtà verso l’Impero; tanto più sono esposti a questo rischio circoli messianici come quelli per i quali il chistos è Gesù. Si pone allora per i cristiani, che sono in grande maggioranza di provenienza gentile [cioè, non ebrei], il problema di distinguersi dai giudei, offrendo di se stessi l’immagine più rassicurante possibile. Il primo tentativo in questo senso viene fatto a Roma, dove le conseguenze della guerra giudaica si fanno particolarmente sentire; e a compierlo è colui che viene indicato con il nome di Marco, il quale viene incontro alle specifiche esigenze della congregazione cristiana di Roma con una nuova narrazione della vita e della morte di Gesù".
LA "QUESTIONE GESÚ"
Anche nella capitale dell’Impero era ormai risaputo che, una quarantina d’anni prima, nella remota Gerusalemme le autorità romane avevano messo a morte per crocifissione un predicatore ebreo di nome Gesù accusato di sedizione, e il fatto non poteva essere taciuto. Ma l’interpretazione del fatto poteva cambiare. Ecco allora che Marco presenta lo spietato procuratore romano Ponzio Pilato come un pavido testimone dell’innocenza di Gesù, e attribuisce ai capi ebrei il progetto di eliminare fin dall’inizio Gesù in quanto Cristo, cioè Messia. Benché ebreo, vissuto e morto da ebreo, Gesù viene messo in contrapposizione a tutto l’ebraismo del suo tempo: è ripudiato dagli ebrei e a sua volta li ripudia.
Gli ebrei diventano "gli assassini di Gesù", cioè del Cristo, cioè di Dio; la loro colpa, quella di essere stati ciechi davanti al Messia. Qualunque tentativo di mantenere vivo il legame originario fra giudaismo e fede cristiana appare, dunque, senza speranza. La rovina del Tempio mette fine al compromesso praticato dai giudeo-cristiani di Gerusalemme, i quali avevano visto Gesù come il Messia destinato a tornare in tempi brevi per ridare vita al Regno d’Israele: per costoro, essere cristiani era stato un modo molto particolare di essere ebrei. Dopo il 70 non c’è più nessun Tempio, tutto Israele sembra giunto alla fine, Gesù acquista senso solo nella concezione paolina di un essere divino, incarnatosi per la salvezza di tutto il genere umano: un redentore che è già venuto per salvare coloro che, al contrario degli ebrei, hanno fede in lui. Cancellata la Chiesa di Gerusalemme, essere cristiani diventa un modo particolare di non essere ebrei: una frattura decisiva, che tenderà ad accentuarsi sempre più, fino a trasformarsi in contrapposizione e, successivamente, in aperta ostilità.
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Nell’antico mondo greco-romano è raro individuare forme di ostilità antiebraica in qualche modo riconducibili – pur con le cautele del caso [si veda la prima parte] – al concetto di antisemitismo. Certo, quando si scatena la sollevazione giudaica del 66-70, l’atteggiamento dei romani verso gli ebrei si irrigidisce. Con la sconfitta, il loro status ufficiale nell’Impero non cambia in modo sostanziale, ma Vespasiano sopprime, oltre al Tempio, l’autorità dei sacerdoti e del Sinedrio e obbliga gli ebrei a versare a Giove Capitolino il tributo che versavano a Gerusalemme. La situazione peggiora con Adriano, che decide di costruire un tempio pagano sulle rovine di quello ebraico e proibisce la circoncisione.
Questi provvedimenti scatenano una seconda rivolta ebraica, capeggiata da Bar Kochba, che impegna le legioni romane dal 132 al 135 d.C. e finisce schiacciata nel sangue, con un ulteriore seguito di uccisioni e deportazioni, fino al divieto per gli ebrei di mettere piede a Gerusalemme. Per la presenza ebraica in terra d’Israele sarà un colpo quasi fatale, da cui si riprenderà solo molto più tardi, e lentamente. Tuttavia, dopo queste turbolenze, la situazione degli ebrei sparsi nella diaspora torna a poco a poco quasi normale, perché i romani rinunciano a vietare la circoncisione e riprendono la loro tradizionale politica di sostanziale tolleranza.
ACCUSATI DI MISANTROPIA - Non mancano, nell’antichità classica, manifestazioni di ostilità verso gli ebrei. Le celebri requisitorie antiebraiche di Tacito, Orazio, Giovenale e Marziale accusano gli ebrei di "misantropia" (per il loro attaccamento a tradizioni che li "separano" dagli altri), di "ateismo" (per il loro rifiuto di adorare divinità pagane) e, ovviamente, di tendenze politiche sediziose, visti i precedenti. Tuttavia, nel mondo classico il giudaismo non viene bersagliato in modo particolare, per lo meno non più di altri gruppi o minoranze, finché non diventa oggetto degli attacchi cristiani. Saranno le esigenze e l’ideologia della cristianità a gettare le basi di una legislazione restrittiva che diventerà, con l’aumento del potere delle Chiesa, sempre più vessatoria, trasformando gli ebrei in cittadini discriminati ed emarginati.
Nel IV secolo, in un arco di tempo di nemmeno settant’anni, la Chiesa passa da organizzazione tollerata di fatto (sebbene a tratti combattuta da qualche imperatore), a istituzione ufficialmente riconosciuta e favorita (da Costantino, con l’editto del 313), infine a religione unica di Stato, con Teodosio I nel 380. "Il proposito di Costantino e degli altri imperatori che condividono le sue idee – spiega Mannucci – è di unificare tutta la popolazione dell’Impero in un’unica religione che serva da nuovo cemento ideologico". Ciò comporta la necessità di combattere tutte le ideologie diverse da quella "cattolica" (cioè, universale): le religioni pagane, le altre chiese cristiane considerate eretiche dopo il Concilio di Nicea (325), e naturalmente il giudaismo.
Contro queste "forze centrifughe" si agisce con la legge. Le prime misure contro gli ebrei vengono emanate già nel 315, e subito appare chiaro l’orientamento di fondo. Come prima cosa viene decretata la pena di morte per gli ebrei che importunino chi si converte "dalla funesta religione" ebraica a quella della Chiesa; subito dopo viene dichiarata delitto la conversione opposta, dal cristianesimo al giudaismo. È iniziata la lunga battaglia contro la persistenza ebraica: si prende atto che l’ebraismo persiste, ma si decreta che l’ebreo debba vivere nella sofferenza, a perpetua testimonianza del suo errore e della gloria della Chiesa trionfante. L’ebraismo sarà dunque tollerato solo come un fenomeno residuale, e la Chiesa condurrà la sua battaglia contro l’influenza ebraica, i testi ebraici, l’eredità ebraica senza esclusione di colpi, fino alle sue estreme possibilità. Non più tardi di 150 anni fa, nello Stato Pontificio, il drammatico caso di Edgardo Mortara – il piccolo bambino ebreo sottratto alla famiglia dalle guardie della Santa Inquisizione, e mai più restituito, col pretesto che era stato battezzato da una giovane domestica analfabeta – avrebbe ricordato a tutto il mondo la spietata ostinazione con cui la Chiesa si dedicava a contrastare la "religione concorrente" [si veda, appena pubblicato, Il caso Mortara di Daniele Scalise, Mondadori, 1997].
GLI INCENDI DELLE SINAGOGHE - Insieme ai decreti, ha inizio la predicazione. Gli ebrei – discriminati dai provvedimenti di legge e additati al pubblico disprezzo come un "popolo deicida" la cui dispersione stessa viene spiegata come punizione divina – a poco a poco diventano oggetto del disprezzo popolare. E la cosa dà presto i suoi frutti. Già al IV secolo risalgono i primi incendi di sinagoghe in varie parti dell’Impero e i primi eccidi, di pari passo con i nuovi divieti: di sposare donne cristiane, di accedere ai pubblici uffici, di costruire nuove sinagoghe.
L’esistenza degli ebrei nell’Europa cristiana nei secoli successivi è caratterizzata da vicende alterne e assai complesse. Secondo i tempi e i luoghi, periodi di relativa tolleranza sono preceduti o seguiti da periodi di persecuzione, momenti di serenità da momenti di terrore. Mentre alla originaria motivazione religiosa si vanno affiancando e aggiungendo altre e diverse motivazioni di ostilità antiebraica, anche gli atteggiamenti e i provvedimenti si modificano. Così come si modificano le attitudini e i comportamenti degli stessi ebrei, sotto il peso delle discriminazioni. Fino al punto di innescare, talvolta, una sorta di circolo vizioso, che dall’ostilità porta al divieto vessatorio, il quale genera un comportamento e un’immagine che a loro volta alimentano il pregiudizio ostile: un circolo vizioso che ha funzionato come un potente meccanismo di perpetuazione dell’atteggiamento antisemita.
Si pensi, per esempio, ai fenomeni del ghetto e dell’usura. Nell’antichità (come oggi, in Israele) gli ebrei erano stati anche agricoltori e manovali. Ma nell’Europa medievale cristiana – dove al generale disprezzo per l’ebreo si unì spesso il divieto esplicito di possedere e coltivare la terra – la necessità e la paura spingevano gli ebrei ad abbandonare le campagne e a concentrarsi nelle città. E, dentro le città, a raccogliersi in alcuni quartieri specifici che divennero noti col nome di "giudecche". Poi, a partire dal XVI secolo, nel pieno del clima persecutorio della Controriforma, alle giudecche si sostituisce l’istituzione coatta del "ghetto" (il primo nel 1516, a Venezia).
IMPRIGIONATI NEI GHETTI - La concentrazione degli ebrei in un quartiere non è più "spontanea", bensì imposta: tutti gli ebrei devono risiedervi e il quartiere viene circondato da mura, le porte d’accesso vengono chiuse di notte e sorvegliate. I ghetti si moltiplicano ovunque, soprattutto in Italia, e la vita al loro interno diventa ben presto penosa, in condizioni di sovraffollamento e di scarsa igiene. Il ghetto mantiene concentrati gli ebrei in un luogo ben definito e riconoscibile, alla mercé di ogni scoppio di ira popolare. Ma, paradossalmente, offre anche una sorta di protezione: nella brutale separazione dal mondo circostante che lo caratterizza, esso garantisce in qualche misura la possibilità di mantenere vive, all’interno, tradizioni e modalità di vita legate alla propria religione. Il ghetto finirà così col diventare molto più di un luogo fisico: diventerà il simbolo stesso della condizione ebraica in Europa e, persino, un tratto della mentalità di cui gli ebrei "emancipati" del secolo scorso e quelli "sionisti" di questo secolo cercheranno faticosamente di liberarsi.
Concentrati nelle giudecche o chiusi nei ghetti, che attività potevano svolgere gli ebrei del Medioevo? Era loro proibito dedicarsi alle professioni (salvo quella di medico), non potevano intraprendere la carriera militare, raramente era loro permesso possedere beni immobili. Restavano poche possibilità. Restavano, in sostanza, quelle attività commerciali e finanziarie che la mentalità medievale considerava con disprezzo: dalla compravendita di stracci e abiti usati (il misero mestiere che occuperà per generazioni tanti ebrei dei ghetti, dall’Italia alla Polonia), fino al prestito di denaro ad interesse. Per la Chiesa il denaro è materia vile e sterile, il prestito a interesse (inizialmente chiamato "usura" qualunque fosse il tasso esercitato) è peccaminoso e viene delegato volentieri a chi è già comunque escluso dalla "salvezza". D’altra parte per gli ebrei, sempre esposti alla minaccia di improvvisi saccheggi ed espulsioni, la tanto vituperata ricchezza "mobile" era l’unica che si potesse sperare di salvaguardare in qualche modo in caso di pericolo.
ASSALTI AI QUARTIERI EBRAICI - A partire dal XII si diffondono, dunque, tra gli ebrei d’Europa, queste attività di intermediazione finanziaria e il termine "usuraio" – con tutto ciò di negativo che porta con sé alle orecchie dei debitori – si sovrappone a quello di "ebreo". Governi, nobili, artigiani, contadini: tutti prima o poi devono ricorrere ai servizi delle famiglie ebree che prestano denaro; tutti coltivano rancore verso di loro e, soprattutto, cedono alla ricorrente tentazione di non restituire quanto dovuto: vuoi con un apposito provvedimento dell’autorità, vuoi con uno "spontaneo" scoppio di violenza popolare che si scaglia contro il quartiere ebraico dopo aver ascoltato qualche infiammato sermone religioso sul martirio di Gesù.
Si può dunque affermare che lo stesso antisemitismo costrinse gli ebrei a trasformarsi in una minoranza etnico-religiosa a carattere prevalentemente urbano, specializzata nelle attività di interscambio, ponendola suo malgrado nelle condizioni socio-culturali migliori per affrontare l’avvento dell’era borghese moderna (tant’è che Karl Marx, invertendo i rapporti di causa-effetto, nel suo libello del 1843 su La questione ebraica credette di poter descrivere la società borghese come l’avvento di una generale "giudaizzazione" della società).
Nell’Europa cristiana pre-borghese e, soprattutto, pre-industriale – che si nutre del mito dei cavalieri "disinteressati", disprezza il lavoro manuale del "vile meccanico", considera la moneta "sterco di Satana" – tutti in realtà hanno continuo bisogno di denaro. Dai re di Francia, d’Inghilterra e di Spagna – che devono finanziare guerre, vita di corte, costruzioni, esplorazioni – giù giù fino all’ultimo nobilotto locale, tutti si ingegnano per trovare il modo di sottrarre quattrini a chi li maneggia. Il mezzo ordinario consiste nell’imporre una tangente: gli ebrei sono costretti a versare notevoli percentuali dei loro guadagni. Poi vi sono i mezzi straordinari. C’è l’arresto in massa, seguito dalla liberazione dietro versamento di grossi riscatti. Vi sono i donativi obbligatori. Vi sono le multe esorbitanti imposte a intere comunità ebraiche, che devono così comprare la propria incolumità dopo che sono state lanciate accuse assurde nei loro confronti (avvelenamento dei pozzi, stregoneria, omicidi rituali).
Una pratica, questa, che verrà rinnovata il 26 settembre del 1943 da Herbert Kappler, comandante locale della Gestapo tedesca, quando imporrà agli ebrei del ghetto di Roma il pagamento di una taglia di 50 kg d’oro da consegnare entro trentasei ore (salvo poi procedere ugualmente, una volta riscosso il riscatto, alla deportazione di tutti gli ebrei romani verso i campi di sterminio il 16 ottobre dello stesso anno).
Vi è infine il metodo più drastico e redditizio: l’espulsione collettiva, seguita dal sequestro dei beni e la loro eventuale restituzione dietro pagamento. Nel 1182 Filippo Augusto re di Francia confisca tutti gli averi degli ebrei. Nel 1290 vengono espulsi gli ebrei dall’Inghilterra. Nel 1306 vengono espulsi dalla Francia una prima volta. Nel 1322, una seconda volta. Nel 1394, una terza. Nel 1492 è la volta dei reali cattolici di Spagna Ferdinando e Isabella che impongono l’aut aut: espulsione o conversione forzata. Duecentomila ebrei lasciano la Spagna, dove avevano vissuto per secoli e avevano contribuito in modo determinante al grande periodo di fioritura economica e culturale di quella terra, soprattutto nei secoli X e XI sotto dominazione araba. Pochi anni dopo, nel 1496, sono cacciati gli ebrei dal Portogallo e nel 1541 l’avvento del dominio spagnolo determinerà la fine della presenza ebraica in Italia meridionale.
A NAPOLI IL VICOLO "SCANNAGIUDEI" - Leggi discriminatorie, provvedimenti di espulsione, pubblico disprezzo sfociarono ripetutamente nella violenza fisica: com’è noto, la storia degli ebrei in Europa è dolorosamente costellata di massacri. Il primo grande eccidio in Italia di cui si abbia notizia ebbe luogo in Meridione nel XIII secolo, su istigazione della monarchia angioina. Furono uccise migliaia di persone. Resta, come un agghiacciante ricordo di quelle stragi, il vicolo Scannagiudei, a Napoli. Altre uccisioni si ebbero nel 1474 e poi ripetutamente nel XVI secolo, negli Stati della Chiesa, come diretta conseguenza del fervore controriformistico. Le ultime uccisioni in Italia – escluse le stragi naziste – si ebbero a Siena nel 1799.
Ma gli eccidi più gravi non si svolsero in Italia, dove paradossalmente proprio la presenza del papato esercitò un effetto di relativo contenimento delle manifestazioni più estreme. I grandi eccidi di massa si registrarono nel centro Europa, inizialmente in occasione della partenza delle Crociate. Nel 1096, con la prima Crociata, in Renania si contano 50mila ebrei uccisi. Nel 1189, con la terza Crociata, vengono massacrati gli ebrei in Austria. Nel 1144 a Norvich, in Inghilterra, si registra la prima "calunnia del sangue" (falsa accusa di omicidio rituale di bambini cristiani ad opera degli ebrei). Le calunnie del sangue si ripeteranno ossessivamente in tempi e luoghi diversi, scatenando invariabilmente la violenza popolare contro la più vicina comunità ebraica (così, per esempio, a Wurzburg in Germania, nel 1147; a Blois, in Francia, nel 1171; ancora in Francia, a Bray sur Seine, nel 1191).
Alla fine del ’200, una calunnia relativa alla presunta profanazione di un’ostia scatena i contadini al punto da portare al massacro delle comunità ebraiche di Wurzburg e di Norimberga. Nel 1348-50 la "peste nera" che flagella l’Europa dà adito a nuove accuse e calunnie: in tutta Europa gli ebrei vengono massacrati (solo a Strasburgo vengono bruciati vivi duemila ebrei), al punto che lo stesso papa Clemente VI cerca di intervenire per frenare le violenze. Nel 1389 viene sterminata la comunità ebraica di Praga. Nel 1391 vengono attaccate le sinagoghe in tutta la Spagna cristiana e in tre mesi vengono uccisi 50mila ebrei.
LE PERSECUZIONI IN RUSSIA - Stragi più "sistematiche" – corredate di torture, roghi, sequestro di bambini – si avranno a partire dal 1478 con l’istituzione della Santa Inquisizione, braccio secolare del potere ecclesiastico nei Paesi cattolici, che si adopererà con spaventosa ferocia nella lotta contro ogni "eresia" e contro ogni pratica "illegale" dell’ebraismo.
Nei secoli successivi, è l’Europa orientale il nuovo scenario dei massacri antiebraici. Nel 1648-49 vengono uccisi 100mila ebrei in Ucraina. Nel 1655-56 è la volta degli ebrei polacchi. Nel 1745 sono espulsi gli ebrei da Praga. Nel 1768 viene annientata la comunità ebraica di Uman, in Polonia. Nel 1791 vengono fissate zone di residenza coatta per tutti gli ebrei russi, una sorta di enorme "regione-ghetto".
Se nella illuminata e progredita Europa occidentale di fine ’800 il caso creato dalle false accuse contro il capitano francese Alfred Dreyfus, ebreo, e le violente campagne antisemite che le accompagnano rappresentano un brusco campanello d’allarme, in effetti è nell’arretrata Europa orientale che la cruenta tradizione dei grandi massacri che avevano insanguinato i secoli fra l’XI e il XV proseguirà fino alla fine del XIX secolo e oltre, nella forma dei temuti pogrom che si verificano nelle terre della Russia zarista: il pogrom di Odessa, 300 morti, è del 1905; altre migliaia di ebrei saranno uccisi nei pogrom del 1917, – così "fuori dal tempo" – che porteranno, fra l’altro, all’emigrazione di milioni di ebrei: in gran parte verso l’occidente e il Nuovo Mondo, in piccola parte verso la Palestina ottomana e mandataria.
Quando, nel 1933, Adolf Hitler viene nominato cancelliere in Germania e dà avvio al folle progetto di purificare l’umanità dalla presenza stessa delle razze inferiori, prima fra tutte quella ebraica, il mondo in cui si muove non manca certo di precedenti cui ispirarsi. Pratica e ideologia antisemita vi hanno avuto libero corso per secoli. Dopo la fine della seconda guerra mondiale, persino la rivelazione dell’orrore dei campi di sterminio nazisti – dove sono stati assassinati quasi sei milioni di ebrei, cioè un ebreo ogni due che vivevano in Europa alla vigilia dell’Olocausto – non sarà sufficiente a garantire che la malattia del pregiudizio sia stata estirpata per sempre dall’anima europea.
di MARCO PAGANONI
Da secoli è un abito mentale sempre immotivato che perseguita un popolo di innocenti sparso in tutto il mondo |
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UN ODIO |
di Marco Paganoni
Ha un andamento a ondate e ogni ondata potrebbe essere quella che va fuori controllo. Quando si diffonde, lo fa rapidamente e un po’ a tutte le latitudini, come se non contassero differenze politiche e sociali. Si autoalimenta in un crescendo parossistico, apparentemente slegato da ogni possibile motivo o pretesto. Stiamo parlando dell’antisemitismo, una delle più antiche malattie della società, cento volte dato per sconfitto e cento volte risorto, nel corso della storia. L’antisemitismo non è quasi mai un fenomeno omogeneo. Non esistono centri organizzati o burattinai occulti. Ma ogni forma di antisemitismo prepara il terreno e alimenta la fiammata successiva. Ogni gruppo che pratica l’odio antiebraico utilizza e ripropone le calunnie e i pregiudizi diffusi da chi ha già coltivato quell’odio, in altri tempi e in altri luoghi. Eventi diversi, in contesti anche distanti fra loro, sembrano indicare che il mondo contemporaneo non ha ancora saputo liberarsene completamente.
In Europa orientale, i movimenti nazionalisti venuti alla luce con la caduta del comunismo ripropongono antichi copioni e sembrano talvolta fare a gara a chi è più antisemita, per dimostrare d’essere più patriota. In occidente, i pochi patetici nostalgici ’essere più patriota. In occidente, i pochi patetici nostalgici che fino a poco tempo fa si ritrovavano in qualche birreria folcloristica, oggi sono diventati un movimento neonazista sempre più sicuro di sé, capace di portare in piazza – com’è accaduto a Roma pochi anni fa – diverse centinaia di giovani, violenti e razzisti. I loro ideologi sanno citare a memoria le teorie di quegli storici detti "revisionisti" che da anni vanno diffondendo la peggiore delle calunnie: l’Olocausto come un’invenzione degli ebrei. È di questi giorni la notizia che in Francia si è celebrato il processo contro quattro giovani, vicini al Fronte di Jean-Marie Le Pen, che nel 1990 avevano profanato le tombe di un cimitero ebraico nella cittadina di Carpentras, infierendo in modo orrendo sul corpo di un defunto. Ma non è stato il solo episodio. Se ne sono registrati altri, in diversi paesi; l’ultimo non più tardi di un paio di mesi fa nel cimitero ebraico di Roma.
Intanto, nelle abitazioni dei terroristi kamikaze che si fanno saltare in aria con i passanti israeliani su un autobus di Gerusalemme o in un caffè di Tel Aviv, insieme alle pubblicazioni della Jihad Islamica che inneggiano alla morte dei "maiali ebrei" vengono trovate copie in arabo dei Protocolli dei Savi Anziani di Sion, il celebre falso antisemita che serviva alla polizia zarista di un secolo fa per scatenare la rabbia popolare nei pogrom antiebraici.
L’"Antisemitismo" è prima di tutto una parola sbagliata. Coniata nel 1879 da un agitatore tedesco di nome Wilhelm Marr, ebbe subito molto successo per quell’aria da parola "scientifica" che le dava l’etimologia greca, mutuata dagli studi dell’epoca in campo linguistico. Ma di scientifico non ha nulla, a parte il suono, e il suo stesso uso può indurre in errori e confusioni. Fortunatamente le vere e proprie "teorie antisemite", che pure sono state insegnate e propagandate nella prima metà del Novecento da università e partiti politici, non hanno avuto corso che per poco più di mezzo secolo. Ma il termine "antisemitismo" è rimasto, e viene usato oggi per indicare – in modo piuttosto generico – ogni sentimento, atteggiamento, teoria o pratica che si ispirino a una forma di pregiudiziale diffidenza, disprezzo o odio verso gli ebrei come gruppo e verso il singolo ebreo in quanto tale. Evidentemente un fenomeno troppo vasto e variegato per essere compreso in un’unica parola. È dunque necessario tentare alcuni distinguo.
QUATTRO TIPI DI ANTISEMITISMO - Non esiste un solo "antisemitismo". Anche schematizzando molto, se ne possono indicare almeno tre o quattro diversi tipi. Una prima forma – forse la prima anche in senso cronologico – è data dall’antisemitismo di matrice religiosa. Il cristianesimo, com’è noto, nasce dall’ebraismo, da esso si distacca e ad esso pensava di sostituirsi. Il cristianesimo non si presenta come una religione "nuova", ma come un fede antica quanto la rivelazione stessa contenuta nelle sacre scritture (ebraiche). Il cristianesimo deve quindi "appropriarsi dell’Antico Testamento" (secondo le parole del teologo cattolico Hans Küng), dando vita a un’imponente opera di "rilettura" della Bibbia alla quale contribuiranno tutti i massimi scrittori cristiani. Dalla predicazione di Paolo di Tarso in poi, per secoli la Chiesa ha continuato a concepire se stessa come l’interprete del "vero Israele", contrapposto a quello degli ebrei ormai superato e vuoto, alla "sinagoga cieca" che non ha saputo vedere il Cristo e, anzi, lo ha crocefisso.
"Ogni volta che il
cristianesimo riprende contatto con i suoi fondamenti – osserva lo scrittore
milanese Stefano Levi Della Torre – non può che trovarsi di fronte ai suoi
rapporti con l’ebraismo. È una questione originaria, non risolta e forse non
risolvibile. A fondamento del cristianesimo stanno infatti due movimenti
divergenti e complementari: l’assunzione della matrice ebraica (l’Antico
Testamento) e la condanna degli ebrei. Per nascere, il cristianesimo ha dovuto
prendere dagli ebrei e rifiutare gli ebrei."
Per secoli, la persistenza stessa del popolo ebraico – con la sua cultura, la
sua fede, la sua incrollabile attesa del Messia – verrà vissuta dal mondo
cristiano con difficoltà e fastidio. Gli ebrei verranno indicati come i
colpevoli della morte di Gesù, additati al pubblico disprezzo, periodicamente
vessati o costretti alla conversione forzata. Fino al paradosso di vedere nelle
sofferenze inflitte loro un chiaro segno della condanna divina. "L’ideologia
cristiana sugli ebrei che si forma tra la fine del primo e il quarto secolo d.C.
– spiega lo studioso Cesare Mannucci – fornirà la base giustificatrice di
una legislazione restrittiva che diventerà, con l’aumento del potere delle
Chiesa, sempre più vessatoria, trasformando gli ebrei in cittadini discriminati
ed emarginati".
MILLENNI DI CULTURA DELL’ODIO - Questo "insegnamento del disprezzo", unito a un vero e proprio "sistema di avvilimento" – come ebbe a definirli lo storico francese Jules Isaac nel 1959 –, praticato per generazioni e generazioni nell’Europa cristiana, finirà per rappresentare il più antico e consolidato terreno di coltura dell’antisemitismo. Servirà a creare una solidissima crosta di diffidenza e di paura. Servirà a giustificare provvedimenti di legge che escluderanno gli ebrei da molti mestieri e dalla proprietà immobiliare, costringendoli a dedicarsi a poche attività (commercio e prestito di denaro) che a loro volta contribuiranno a creare e consolidare il mito dell’ebreo avaro e usuraio. Servirà a legittimare la creazione di quartieri ghetto, l’imposizione di balzelli e pratiche umilianti, la cacciata di intere comunità, le violenze e le uccisioni.
L’abbandono ufficiale e definitivo di questo atteggiamento da parte della Chiesa nei confronti degli ebrei non arriverà che molto tardi. Solo una trentina d’anni fa, con la Dichiarazione "Nostra Aetate" (approvata dal Concilio Vaticano Secondo il 28 ottobre 1965), la Chiesa dichiara apertamente che l’accusa di "deicidio" non ha fondamento né storico né teologico e che l’alleanza stabilita tra Dio e il popolo ebraico non viene messa in discussione dall’avvento di Gesù e dalla nascita del cristianesimo. Affermazioni importantissime sul piano della storia del pensiero religioso, ma che giungono drammaticamente tardi, quando ormai il pregiudizio antiebraico, sparso a piene mani per secoli, si è radicato nel costume, nella mentalità, nello stesso linguaggio. Soprattutto, si è trasformato e in un certo senso riversato in altre forme e soggetti. "L’antisemitismo cristiano – scrisse Jules Isaac nel 1947 – è il ceppo potente dalle profonde e molteplici radici, sul quale sono venute a innestarsi in seguito tutte le altre varietà di antisemitismo". L’antisemitismo di matrice cristiana è pur sempre un antisemitismo che ha a che fare, almeno in teoria, con il credo religioso del singolo individuo. In linea di principio, per quanto disprezzato e vessato, l’ebreo poteva in qualunque momento cancellare il proprio marchio d’infamia riconoscendo la divinità di Gesù e la verità rivelata nel cristianesimo. In pratica, però, le cose non erano così semplici.
O LA CONVERSIONE O LA MORTE - Quando, il 31 marzo 1492, il re di Spagna Ferdinando il Cattolico decretò l’espulsione entro quattro mesi di tutti gli ebrei dai propri territori pena la morte, non furono poche le famiglie ebraiche che accettarono obtorto collo la conversione al cristianesimo. Nessuno si fece molte illusioni sulla sincerità di queste conversioni, tanto più che effettivamente molti di questi convertiti a forza continuavano a praticare in segreto i costumi e i riti della propria religione. Chiamati con disprezzo "marrani" e perseguitati senza pietà dalla Santa Inquisizione, questi cristiani di recente conversione divennero una vera ossessione per gli spagnoli "cristiani da sempre". I quali, per allontanare da sé qualunque sospetto di "ebraicità", presero l’abitudine di vantare ed esibire non solo il proprio personale attaccamento ai precetti di Santa Romana Chiesa, ma anche quello dei propri padri e dei propri nonni. Fino a coniare un nuovo concetto: quello della limpieza de sangre, la "purezza del sangue", intendendo con questo il fatto di non annoverare nessun ebreo (o ex ebreo) tra i propri avi, da generazioni.
È dunque nella Spagna del XVI secolo che possiamo rintracciare i primi segni di un "antisemitismo del sangue" (ben presto tradotto anche in disposizioni di legge) che non dà più alcun peso alle scelte, più o meno libere, del singolo individuo o alla sua identità culturale e religiosa, e privilegia piuttosto la "nascita": oggi diremmo l’aspetto "genetico". Erano stati gettati i primi semi di un nuovo antisemitismo, diverso da quello religioso: l’antisemitismo razziale. Ma "l’età d’oro" dell’antisemitismo di tipo razziale verrà solo più tardi, a cavallo tra la seconda metà del XIX e la prima metà del secolo, in pieno clima positivista. Sarà il periodo in cui teorie falsamente scientifiche serviranno a legittimare i sentimenti di superiorità della civiltà bianca, europea e cristiana sopra tutte le altre. L’antisemitismo razzista ha conosciuto la sua massima espressione – com’è noto – nella teoria e nella pratica del nazismo.
LA TEORIA DELLE RAZZE INFERIORI - Il nazismo, anzi, fonderà la propria concezione politica su pochi, semplici principi razzisti: l’esistenza di razze umane precisamente e definitivamente connotate; l’esistenza di una gerarchia di valore tra razze umane superiori e inferiori, distribuite lungo una scala che vede in vetta la "razza ariano-germanica" e in fondo slavi, negri, zingari e "semiti"; il diritto da parte delle "razze superiori" di sfruttare fino allo stremo le "razze inferiori" e persino di eliminarle sistematicamente, se necessario, per il successo della "civiltà ariana". L’antisemitismo razzista, dunque, si basava su una concezione dell’umanità completamente diversa da quella cristiana.
E il nazismo fu in effetti estremamente "pagano" e "anticristiano" in molte sue manifestazioni. Eppure, ad un esame appena più attento del fenomeno, appare evidente che la propaganda e, soprattutto, la pratica dell’antisemitismo nazista non avrebbero potuto affermarsi e diffondersi ed esplicarsi in modo così tragicamente efficace e capillare se non avessero potuto fare leva su un pregiudizio e un odio per l’ebreo già ampiamente consolidati e radicati. Per dirla in poche parole, il nazista tedesco impregnato della teoria del Superuomo non fece molta fatica a convincere il contadino cattolico polacco o ucraino che quella di sterminare gli ebrei fosse una causa buona e giusta. Se il terreno europeo era ben preparato allo scatenarsi della furia nazista, non lo si deve soltanto ai secoli di "insegnamento del disprezzo" da parte cristiana.
Separata e intrecciata con l’ostilità antiebraica di natura religiosa e di natura razziale, si era sviluppata un’ulteriore forma di antisemitismo, particolarmente subdola e sfuggente; l’unica, forse, che trova cittadinanza ancora oggi, anche presso persone e ambienti che aborrono razzismo e intolleranza religiosa: l’antisemitismo di tipo politico. L’antisemitismo, cioè, che attribuisce agli ebrei in quanto tali un disegno politico (un complotto per dominare il mondo) e la volontà/capacità di utilizzare a tale scopo mezzi potentissimi (il dominio sulla finanza mondiale, sui mass-media, sul mondo della cultura). È l’antisemitismo teorizzato nei Protocolli dei Savi Anziani di Sion; lo stesso che attribuisce agli ebrei la responsabilità, di volta in volta, per l’avvento del capitalismo e del comunismo; lo stesso che alligna nelle pagine di Marx e di Proudhon e che fa capolino nelle campagne "anti-mondialiste" della moderna destra politica, così come nella fraseologia di tanta propaganda violentemente "anti-sionista".
LA PARANOIA ANTIEBRAICA DI HITLER - Il nazismo seppe agitare con forza anche questa paura per il "pericolo ebraico". Così, nella Germania del Terzo Reich e poi nell’Europa occupata dalle truppe tedesche, il secolare odio per gli "assassini di Cristo" si fuse all’immagine dell’ebreo infido, egoista e affamatore, insieme alla paura e al ribrezzo per questa "razza non umana" (Adolf Hitler) tesa alla conquista dell’umanità, dando luogo a quella sorta di gigantesco Caso Dreyfus gonfiato all’inverosimile che fu l’esplosione della paranoia antiebraica durante la seconda guerra mondiale.
Oggi, dopo un disastro così
grande come la Shoà, il genocidio nazista, esiste la diffusa convinzione che
non vi sia più spazio per alcuna forma di antisemitismo che non sia del tutto
patologico o residuale. Purtroppo le cose non stanno così. Accade piuttosto che
tanti segnali, piccoli e meno piccoli, non vengano presi abbastanza sul serio
perché, sullo sfondo di ciò che è stato l’Olocausto nazista, sembrano tutto
sommato poco gravi.
Paradossalmente, chi associa alla parola "antisemitismo" immagini di
camere a gas e forni crematori non riesce più a usare lo stesso termine per
qualificare un semplice comizio che si scaglia contro la "finanza ebraica
internazionale", o un articolo di giornale che fa riferimento al "Dio
violento e vendicativo degli ebrei", o la parola "rabbino" usata
come sinonimo di "avaro". Chi invece – come l’Istituto Wiesenthal
di Parigi, l’International Center for the Study of Anti-Semitism di
Gerusalemme o il Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea di Milano –
raccoglie sistematicamente anche questi segnali "minori" (che vanno
dalle vere e proprie violenze a profanazioni, scritte sui muri, minacce, lettere
anonime, manifestazioni ostili, pubblicazioni propagandistiche) ci offre un
quadro assai diverso dell’odierna ostilità antiebraica. Il fenomeno è parso
particolarmente preoccupante negli ultimi anni nei paesi dell’est europeo,
dove diverse organizzazioni politiche (si pensi a Pamyat in Russia, ma anche a
certe posizioni del premier croato Tujiman) hanno rispolverato il tradizionale
armamentario della propaganda antisemita come espressione di profondo
nazionalismo.
"OLOCAUSTO? QUALE OLOCAUSTO?"
Ma anche in occidente non mancano segnali preoccupanti. Da un lato vi sono i veri e propri neonazisti convinti, che praticano un antisemitismo diretto ed esplicito (esibendo svastiche e andando ad attaccare stelle gialle sui negozi di ebrei romani, come avvenne pochi anni fa). Non sono molti e probabilmente non sono nemmeno antiebraico nel linguaggio comune. L’uso del termine "ebreo" come insulto o della metafora di "Auschwitz" come esaltazione dell’annientamento del nemico in quella particolare manifestazione di antisemitismo che definiamo "da stadio" ci dice quanto certi cliché siano ancora radicati nella nostra cultura diffusa: i presupposti psicologici profondi su cui fu lanciata la caccia all’ebreo in epoca nazista non sono dunque cambiati di molto.
Un terzo segnale preoccupante, e che si diffonde a macchia d’olio, è rappresentato da quello che potremmo chiamare "il rigetto dell’Olocausto". Un sentimento di insofferenza che conquista sempre più persone e che si manifesta con una vasta gamma di atteggiamenti. C’è chi si limita a sbuffare ("basta con questa storia dell’Olocausto, gli ebrei ne parlano troppo, fanno le vittime"), chi trasforma l’insofferenza in accusa ("gli ebrei ne approfittano"), chi punta a relativizzare e minimizzare ("in fondo quello che è successo agli ebrei non è niente di speciale, succede a tanti altri, in guerra succedono sempre queste cose, le fanno un po’ tutti, e poi saranno stati davvero così tanti gli ebrei morti, non ci sarà qualche esagerazione?"), fino ad arrivare ai veri e propri "negazionisti" i quali cercano appunto di negare che sia mai avvenuto un genocidio ai danni degli ebrei.
GIUDEOFOBIA: RIFLESSO CONDIZIONATO - Benché questi ultimi siano pochi e isolati (in Francia e in Germania la propaganda negazionista è punita dalla legge), è chiaro quanto possa essere invece pericolosa la perdita di memoria storica implicita nella più generale e indiretta "insofferenza per l’Olocausto". "La storia ha dimostrato che quando l’antisemitismo si radica nel 20 o 30 per cento di una società, non c’è quasi più nulla da fare – spiega Simcha Epstein, dell’Università Ebraica di Gerusalemme –. Bisogna quindi intervenire prima, quando una reazione ha ancora possibilità di successo, senza aspettare che i segnali di antisemitismo diventino tali e tanti da non essere più controllabili. È stupido non reagire subito". Non è facile spiegare la persistenza di un pregiudizio che si è già rivelato così pernicioso come quello antisemita. In una certa misura – non sembri un paradosso – la persistenza stessa è una spiegazione.
La giudeofobia fa ormai parte, e da tempo, della nostra tradizione e della nostra cultura. Si trasmette, si riproduce, si adatta a nuove situazioni e nuovi linguaggi. Rappresenta una sorta di campionario di idee fisse cui si può fare ricorso in ogni momento e che continua egregiamente ad assolvere il suo scopo principale e profondo, che è quello tipico di un pregiudizio: permette di spiegare (tutto) senza fare la fatica di capire e conoscere veramente le cose (i processi, le difficoltà, i pericoli, le causalità e la casualità). Funziona come un riflesso condizionato che scatta ogni volta che sorge l’esigenza di rafforzare la propria identità di gruppo: per rassicurarsi, per rafforzarsi, per affrontare un passaggio epocale. Come l’atteggiamento xenofobo (più o meno espresso in teorie razziste ben formulate), anche l’atteggiamento antisemita scaturisce dalla problematica di fondo del rapporto con "l’altro". Ma con alcune differenze. La xenofobia – cioè la diffidenza e l’ostilità verso lo straniero, il diverso, l’altro da sé – è caratteristica di ogni gruppo associato. Ma è un fenomeno che ha a che fare con l’incontro (e il conflitto) fra "noi" e il "diverso da noi". È un sentimento fortemente irrazionale e tuttavia empirico, legato alla difficile esperienza individuale e sociale dell’incontro/scontro fra culture.
L’antisemitismo ha a che fare, invece, con "il diverso che è tra noi", che non è immediatamente visibile, che "corrode" dall’interno il gruppo, che va attivamente cercato e smascherato. In questo senso è un sentimento altrettanto irrazionale, ma del tutto mitico: la xenofobia si manifesta in presenza di "estranei". L’antisemitismo si mantiene e si manifesta anche in società dove gli ebrei non ci sono più, dove sono scomparsi da generazioni. La xenofobia è una risposta facile a un problema complesso di rapporti fra mentalità diverse. L’antisemitismo, invece, è un problema tutto interno alla mentalità antisemita: non v’è nulla che l’ebreo possa fare o non fare per scrollarsi di dosso il pregiudizio antisemita. Sta solo al non ebreo decidere di liberarsene.
di Marco Paganoni