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ARGOMENTI DI MEDICINA CLINICA

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 Ultimo aggiornamento: 23.12.2013

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TRATTAMENTO MEDICO DELLA CARDIOPATIA ISCHEMICA

 

Premesse fisiopatologiche

 

La cardiopatia ischemica, prima causa di mortalità e morbilità nella società occidentale, comprende una serie di entità cliniche tra di loro ben distinte rappresentate da angina stabile, angina instabile, infarto miocardico, morte improvvisa, aritmie.

L'ischemia miocardica, elemento fisiopatologico comune nelle diverse forme, è un fenomeno metabolico secondario ad una inadeguata ossigenazione del tessuto cardiaco per una discrepanza tra l'apporto e il consumo di ossigeno. La patogenesi, la presentazione clinica, sono tuttavia differenti nelle diverse espressioni della cardiopatia ischemica (fig.01x) che possono manifestarsi isolatamente, in associazione o come conseguenza l'una dell'altra. La prognosi, a sua volta, è diversa a seconda della presentazione clinica e di come l'evento si iscrive nella storia "coronarica" del singolo paziente: un episodio di sottoslivellamento transitorio del tratto ST rilevato all'eleurocardiogramma dinamico indicativo di una ischemia silente, ad esempio, assume un peso prognostico ben diverso se si presenta in un paziente asintomatico con fattori di rischio o se si manifesta in un paziente con angina instabile ricoverato in Unità Coronarica nel quale la persistenza di episodi ischemici, anche se asintomatici, costituisce un elemento prognostico sfavorevole. Tutti questi elementi anamnestici, clinici e strumentali vanno presi in considerazione per inquadrare il paziente, e questo rende ragione di come necessariamente l'approccio terapeutico debba essere mirato e possa essere razionalmente definito solo dopo avere chiarito la patogenesi dell'evento ischemico nel singolo paziente.

Scopi della terapia nella cardiopatia ischemica sono:

1) eliminare l'ischemia, attraverso una serie di presidi, medici o chirurgici, che migliorino l'apporto di sangue ai tessuti o comunque normalizzino il rapporto apporto/consumo di ossigeno;

2) interrompere o ritardare la malattia aterosclerotica, quindi interferire con la evolutività tipica di questa malattia;

3) prevenire le complicanze, soprattutto l'infarto e la morte improvvisa.

Mentre spesso si riesce ad adempiere al primo punto, sia con la terapia medica sia con interventi di rivascolarizzazione mediante bypass o angioplastica, non sempre si è in grado di assolvere gli altri due punti.

I determinanti prognostici principali comuni a tutte le diverse forme cliniche con cui si esprime la patologia ischemica sono la gravità della coronaropatia e la funzione ventricolare sinistra. Altri indici assumono un peso prognostico diverso a seconda della forma clinica: le aritmie ventricolari, ad esempio, hanno un peso prognostico ben differente nella fase subacuta dell'infarto miocardico, dove la presenza di battiti ectopici ventricolari non complessi, ma di numero superiore a 10 all'ora, si associa ad un rischio più elevato di morte improvvisa, rispetto a quelle che compaiono in un paziente con angina da sforzo dove la presenza di extrasistoli ventricolari, anche numerose, non si associa ad un aumento sostanziale del rischio. Nella successiva trattazione ciascuna forma clinica verrà quindi affrontata individuando, in base alle premesse fisiopatologiche ed alle determinanti prognostiche, il razionale per un approccio terapeutico mirato, tenendo in conto i risultati degli studi disponibili. Verranno prese in considerazione quelle forme chimiche che più frequentemente il medico pratico si trova a dovere affrontare o a gestire in collaborazione con lo specialista cardiologo, tralasciando l'infarto miocardico e la morte improvvisa che costituiscono un capitolo a sé per la loro importanza e per le problematiche particolari che comportano.

 

 

Principi generali di terapia

 

Esistono alcune strategie terapeutiche comuni che vanno attuate secondo dei criteri ben precisi in tutti i pazienti con cardiopatia ischemica e che verranno quindi affrontate per prime.

 

 

ABOLIZIONE DEI FATTORI DI RISCHIO

 

La prima manovra fondamentale nei soggetti con cardiopatia ischemica è la abolizione dei fattori di rischio correggibili.

 

Fumo. La nicotina esercita il proprio effetto tossico a livello coronarico attraverso una azione cronica ed una azione acuta. L'azione cronica è diretta sull'endotelio sia dei grandi sia dei piccoli vasi, soprattutto nelle zone a maggiore stress emodinamico, quali le biforcazioni o ripiegamenti (kinking) e determina una disfunzione endoteliale con perdita dei fattori protettivi locali (vasodilatatori, antiaggreganti e profibrinolitici) e una modificazione della permeabilità alle diverse componenti lipidiche, favorendo quindi lo sviluppo della lesione aterosclerotica.

L'azione acuta della nicotina è rappresentata da uno stimolo vasocostrittore nelle sedi dove l'endotelio è leso. Oltre a concorrere alla formazione della placca e alla disfunzione endoteliale cronica, la nicotina costituisce anche un fattore favorente l'instabilizzazione acuta. Un terzo elemento che facilita questa evoluzione è dato dall'attivazione della aggregazione piastrinica e dall'aumento del fibrinogeno indotto dal fumo di sigaretta; si viene dunque a determinare uno stato di ipercoagulabilità sistemica che, in associazione ad una condizione locale quale quella di una placca instabile, favorirebbe l'evoluzione trombotica a livello coronarico.

L'abolizione del fumo porta ad una riduzione delle complicanze cardiovascolari, ma non è noto se porti anche ad una regressione delle eventuali lesioni già presenti.

 

Dislipidemia. La correlazione tra livelli di colesterolo, coronaropatia e mortalità coronarica è indubbia e, tra l'altro, non esiste un valore di rischio soglia, ma la progressione è continua. L'aumento dei lipidi, ed in particolare di specifiche sottofrazioni quali le lDl, sembra costituire uno degli stimoli per l'instabilizzazione della placca. Tra i nuovi fattori di rischio attualmente chiamati in causa per spiegare questo fenomeno vi è una particolare frazione lipoproteica, la lp(a) che avrebbe una particolare tendenza alla perossidazione con conseguente richiamo di elementi cellulari di tipo infiammatorio e, possedendo una struttura simile all'attivatore del plasminogeno, agirebbe quale antagonista di tipo competitivo con quest'ultimo, inibendo quindi la risposta fibrinolitica spontanea.

Il trattamento dietetico/farmacologico ha dimostrato di ridurre l'incidenza di eventi cardiovascolari nei soggetti con dislipidemia e vi sono recenti segnalazioni circa la regressione e/o il ritardo della progressione della malattia coronarica in pazienti sottoposti a trattamento ipolipemizzante intensivo.

La prima manovra da considerare di fronte al paziente con manifestazioni cliniche di cardiopatia ischemica e dislipidemia è la terapia dietetica che costituisce la base anche per l'efficacia di un eventuale trattamento farmacologico. La terapia farmacologica (la cui trattazione specifica esula da questa rassegna) va riservata ai pazienti che non rispondono alla dieta.

 

Ipertensione. L'applicazione su vasta scala della terapia antipertensiva ha sicuramente ridotto l'incidenza di eventi cerebrovascolari, ma non ha modificato l'incidenza di eventi ischemici cardiaci in modo particolarmente significativo. La correzione dei valori di pressione arteriosa nei pazienti ipertesi e ischemici è comunque una misura fondamentale, tenendo soprattutto in conto che il postcarico rappresenta uno dei maggiori determinanti del consumo di ossigeno e che quindi la ottimizzazione della terapia richiede un adeguato controllo di questo parametro. Sbalzi acuti dei valori pressori sono anche stati chiamati in causa quali elementi facilitanti la rottura della placca, e quindi la sua instabilizzazione, per la possibilità di determinare delle forze di attrito e di tensione sui punti deboli della placca aterosclerotica, favorendone la rottura. Secondo altri Autori, invece, l'ipertensione faciliterebbe l'emorragia intraplacca, che costituisce la seconda principale causa di complicazione della lesione aterosclerotica.

 

 

CORREZIONE DEI FATTORI FAVORENTI L'ISCHEMIA MIOCARDICA

 

Di fronte al paziente che manifesti sintomi riferibili a ischemia miocardica vanno ricercate tutte quelle cause di cui l'ischemia miocardica potrebbe rappresentare una manifestazione secondaria.

Le tre principali determinanti del consumo di ossigeno sono la frequenza cardiaca, il precarico e il postcarico. Per quanto riguarda la frequenza cardiaca sono soprattutto le condizioni di aumento eccessivo della frequenza che possono scatenare l'ischemia, in quanto la bradicardizzazione si associa ad un aumento del tempo di diastole con un miglioramento della perfusione coronarica. In presenza di una tachiaritmia associata ad ischemia la prima manovra è quindi la correzione della tachiaritmia stessa.

Gli aumenti di precarico difficilmente si associano ad un aumento del consumo di ossigeno tale da dare ischemia, tranne in pazienti estremamente compromessi, come quelli con miocardiopatia ischemica. Più frequente è invece l'ischemia scatenata da aumento del postcarico, tipicamente durante crisi ipertensiva, che deve quindi essere risolta con la riduzione acuta dello stesso.

Tra le cause secondarie che riducono l'apporto di ossigeno ai tessuti è l'anemia, proprio per riduzione della capacità ossiforica del sangue. In condizione di grave anemia, che tra l'altro spesso si associa ad un aumento del consumo di ossigeno per tachicardizzazione, vi può essere scatenamento di ischemia. In questo caso è necessaria la correzione della anemia ricorrendo anche alla emotrasfusione.

 

 

Terapia medica dell'angina stabile

 

L'angina si definisce stabile quando l'ischemia, sintomatica o meno, si ripresenti con un esercizio fisico della stessa intensità e quando non vi sia una modificazione della severità, durata, frequenza, fattori precipitanti degli episodi ischemici. L'angina stabile non è necessariamente una pura angina da sforzo, ma può comprendere anche quelle forme miste, ove le crisi a riposo sono indotte da situazioni riproducibili (digestione, freddo, emozione) con carattere di relativa stabilità, in genere legate a variazioni del sistema neurovegetativo. L'angina da sforzo pura include quelle forme nelle quali la ischemia miocardica avrebbe come base patogenetica un fenomeno di discrepanza tra apporto e consumo di ossigeno. L'apporto massimale di sangue a livello coronarico è limitato dalla presenza di stenosi fisse che, a seconda della loro entità, determinano un ostacolo ad un aumento del flusso in condizioni di aumentata richiesta, come normalmente avviene, ad esempio, durante uno sforzo. Questo fenomeno è denominato "riduzione della riserva coronarica": per un ben preciso livello di consumo di ossigeno, inversamente correlato alla entità della stenosi stessa, si sviluppa ischemia. La traduzione clinica di questo aspetto patogenetico è quello del livello costante di sforzo al quale compare il sintomo "dolore anginoso" e della riproducibilità della soglia di ischemia (intesa come doppio prodotto alla prova da sforzo). Questa forma, nella quale venivano classificati un tempo la maggior parte dei pazienti con angina stabile, in realtà è molto rara. Si è infatti visto che nella maggioranza dei casi le stenosi coronariche non sono fisse, ma "dinamiche" e questa modificazione funzionale della entità della stenosi stessa si traduce nella capacità di dare ischemia per diversi livelli di consumo di ossigeno, a volte anche in condizioni basali. Ecco quindi che di fronte a particolari stimoli (freddo, emozione) vi è un aumento della capacità delle stenosi di dare ischemia, perché attraverso una costrizione, di fatto, la stenosi "aumenta". I motivi di queste modificazioni transitorie e dinamiche si stanno via via chiarendo. Da una parte si è visto che anche le stenosi apparentemente concentriche in realtà, nella maggior parte dei casi, presentano un arco di parete indenne che conserva una motilità e quindi la possibilità, attraverso una costrizione, di variare il calibro del vaso.   È stato d'altra parte osservato che uno dei principali elementi che determina il tono coronarico è l’endotelio il quale, attraverso tutta una serie di fattori locali (endotelial relaxing factor, EDRF; prostaciclina; endotelialhy perpolarizing factor, EDHF) è in grado di fare in modo che diversi stimoli, da un banale aumento di flusso all'aumento della concentrazione locale di catecolamine, di trombina o di diversi mediatori (serotonina, acetilcolina, ADP), diano luogo ad una vasodilatazione locale. In assenza di un endotelio ben funzionante, come avviene in corrispondenza di una placca aterosclerotica (prima ancora che diventi emodinamicamente significativa), gli stessi stimoli diventano dei potenti vasocostrittori. Questo meccanismo chiarisce come la placca aterosclerotica, anche se non ostruttiva, possa avere tuttavia una dinamicità che in alcuni momenti la rende ischemizzante, in altri no. Queste osservazioni hanno di fatto dato il via a tutta una serie di considerazioni su come la dinamicità non sia peculiare della fase di instabilizzazione, ma è una proprietà tipica della lesione stessa. Due sono gli elementi quindi che caratterizzano una lesione aterosclerotica:

a) l'entità, vale a dire la capacità di essere ostruttiva, e come tale dare angina da discrepanza.   È questa la lesione tipica che viene visualizzata all'angiografia come "critica" (riduzione del diametro superiore al 50%);

b) la vulnerabilità, ovvero la tendenza a diventare instabile se esposta ad un adeguato "trigger". Questa caratteristica è indipendente dalla severità, ma dipende probabilmente da caratteristiche locali, ancora per la maggior parte sconosciute. le placche "vulnerabili", di fronte ad uno stimolo appropriato, esprimono la loro tendenza trombogenica e possono causare infarto, angina instabile o morte improvvisa, a seconda della modalità e grado con il quale si instaura il fenomeno trombotico. Una stenosi non necessariamente deve essere ostruttiva per diventare trombogenica né tutte le lesioni ostruttive sono trombogeniche. L'angiografia in questo caso ha un potere diagnostico più limitato e, tra l'altro, non vi sono ancora dei marker che siano in grado di identificare le lesioni a maggiore potenzialità evolutiva anche se subcritiche.

 

In questo senso, quindi, la terapia rivolta a prevenire l'evoluzione verso l'infarto miocardico nel paziente con angina stabile deve essere rivolta all'intero albero coronarico e probabilmente ad interrompere quel circolo vizioso tra placca valnerabile conseguente a trigger conseguente a  rottura conseguente a trombosi conseguente a infarto e/o morte improvvisa.

 

 

PRINCIPI DI TERAPIA

 

Il fine della terapia nell'angina stabile è duplice:

1) controllare i sintomi in modo che non limitino la vita del paziente;

2) migliorare la prognosi attraverso una prevenzione della evoluzione verso l'infarto e la morte.

La prima valutazione fondamentale ai fini di una scelta terapeutica corretta è quindi quella della "fascia di rischio" in cui si colloca il paziente. I determinanti prognostici dassici, che attualmente guidano la scelta terapeutica nel paziente con angina stabile, sono:

- il numero di vasi lesi con lesioni > 70% (fig.02x);

- la funzione ventricolare sinistra (fig.03x).

Questi elementi, da soli e in associazione, determinano diverse fasce di rischio nelle quali il valore della terapia nel modificare la prognosi è diverso. Una volta inquadrato, attraverso i diversi test strumentali (la cui trattazione esula da questa rassegna), a quale categoria appartiene il singolo paziente è possibile operare la prima scelta, vale a dire terapia medica o terapia chirurgica. La terapia chirurgica ha dimostrato di migliorare la prognosi in tre sottogruppi di pazienti: quelli con lesioni critiche del tronco comune, con lesioni critiche di tre vasi e ridotta funzione contrattile, quelli con ischemia severa e patologia dell'interventricolare anteriore prossimale. La possibilità di eseguire l'angioplastica, che costituisce un approccio relativamente poco invasivo, ha portato ad un allargamento delle indicazioni, ma è comunque importante sottolineare che, dal punto di vista prognostico, sono solo le categorie sopra indicate di pazienti che traggono un beneficio in termini prognostici. Se il paziente non si inquadra in uno di questi gruppi ad alto rischio, è quindi opinabile una scelta medica rispetto ad una scelta chirurgica. In questo caso entreranno nella scelta elementi specifici per ogni singolo paziente, quali la efficacia clinica della terapia medica, l'adesione alla terapia farmacologica, l'accettazione di un modello di vita eventualmente più di risparmio, la presenza di patologie associate che rendano più rischioso un intervento chirurgico e il reale rapporto rischi/benefici di una eventuale rivascolarizzazione. Una volta che si sia ritenuto indicato un trattamento di tipo medico, l'impiego degli specifici principi farmacologici va personalizzato.

Riportiamo in tab.01x un generale orientamento sulla scelta, in base alle caratteristiche cliniche del paziente e/o di eventuali farmaci associati, del tipo di terapia.

 

 

Nitroderivati

 

Un pilastro fondamentale della terapia è dato dai nitroderivati che costituiscono da oltre un secolo un principio cardine nella terapia sia dell'attacco ischemico acuto sia dell'angina cronica.

I meccanismi d'azione sono da ricondurre sia ad una diminuzione del consumo di ossigeno, legato alla riduzione del ritorno venoso e quindi del precarico, che costituisce uno dei maggiori determinanti del consumo di ossigeno, sia all'aumento del flusso a livello della stenosi e del circolo collaterale, con un miglioramento della perfusione nelle zone ischemiche. L'azione dei nitroderivati è mediata attraverso la formazione intracellulare dell'ossido di azoto (NO), che stimola la guanilato cidasi solubile con aumento del GMPc intracellulare e conseguente rilasciamento muscolare. L'EDRF, che costituisce il vasodilatatore coronarico naturale, è attualmente identificato con lo stesso ossido di azoto e, abbiamo visto, non viene prodotto a livello delle placche aterosclerotiche ancora prima che esse diventino emodinamicamente significative.   È quindi prospettabile l'ipotesi che i nitroderivati possano sostituire l'EDRF a livello delle coronarie lese, ripristinando la normale e fisiologica risposta a tutti quegli stimoli che inducono una vasodilatazione in condizioni normali, ma una vasocostrizione in presenza di un alterato endotelio. Una conferma di questo è che i nitroderivati eliminano la risposta costrittiva paradossa ai diversi stimoli a livello delle lesioni coronariche. Se il ripristino di una normale risposta sia in grado di ritardare o eliminare la progressione della aterosclerosi è ancora da dimostrare.

Le caratteristiche di ottima tollerabilità e la possibilità di diverse formulazioni, ciascuna con i suoi vantaggi e svantaggi, che si possono bene adattare alle diverse esigenze del singolo paziente, rendono i nitroderivati i farmaci di più ampio impiego nel paziente anginoso.

Il loro uso ricopre la prevenzione della crisi (quando vengano assunti prima di uno sforzo od una situazione che è nota scatenare l'attacco), l'attacco acuto, attraverso la forma sublinguale che nel giro di pochi se- effetto terapeutico, e la terapia a lungo termine, nei pazienti che presentano crisi più frequenti, sia da soli sia in associazione.

Un problema da discutere nella terapia cronica è il problema della "tolerance". Per "tolerance" si intende quel fenomeno che determina l'attenuazione dell'efficacia del farmaco dopo somministrazioni ripetute, con necessità di impiego di dosi più alte per ottenere lo stesso effetto terapeutico.  È ampiamente dimostrato che l'impiego prolungato di nitroderivati a dosi tali che implichino livelli ematici costantemente elevati, porta ad una riduzione degli effetti emodinamici, di quelli antiischemici e degli effetti collaterali. La causa di questo fenomeno è stata attribuita a meccanismi biochimici (esaurimento dei gruppi SH intracellulari che costituiscono il tramite per la trasformazione a ossido nitroso), bioumorali (aumento della renina, catecolamine e aldosterone) ed emodinamici (espansione del volume plasmatico), ma in ogni caso ha delle caratteristiche individuali nel singolo paziente. Il fenomeno è comunque parziale e viene eliminato lasciando un intervallo libero tra le somministrazioni. Una volta che la tolerance si è instaurata, il tempo di "Wash-out" dal nitroderivato necessario per ripristinare una risposta vascolare è comunque superiore al tempo di "finestra terapeutica" che sarebbe stata necessaria per prevenirlo. Questo fenomeno rende ragione di alcune regole generali nell'impostare una terapia con nitroderivati in modo da averne il massimo vantaggio terapeutico.

Se il paziente presenta crisi sporadiche per sforzi massimali o situazioni scatenanti note, il nitroderivato per via perlinguale quale profilattico prima dello sforzo o come terapia acuta della crisi occasionale costituisce la terapia di scelta. Nel paziente che per la frequenza delle crisi necessiti di una copertura prolungata, il nitro derivato in monoterapia non sembra una terapia del tutto adeguata. Se da una parte, infatti, vi potrebbe essere la tentazione di coprire solo quel periodo in cui si presentano le crisi, che nel paziente con angina da sforzo è per lo più diurno, non bisogna dimenticare che spesso si verificano episodi silenti notturni o nelle prime ore del mattino, che sono tra l'altro le ore nelle quali più si verificano eventi maggiori. Inoltre, è stato segnalato come la sospensione brusca del nitroderivato possa precipitare, per fenomeni di rebound, delle crisi anginose.   È quindi in questo caso buona regola somministrare il nitroderivato in modo intermittente, ma comunque in associazione ad altri principi che assicurino una copertura farmacologica anche durante la "finestra terapeutica". In ogni caso il nitroderivato va impiegato alle dosi minime efficaci attraverso una "titration", in modo da ottimizzare la dose individuale in base alla risposta del singolo, valutata come calo della pressione arteriosa in ortostatismo del 10% o aumento della frequenza cardiaca basale di 10 battiti/min, senza comparsa di effetti collaterali. L'obiettivo terapeutico della terapia con nitroderivati è la riduzione del numero delle crisi anginose, dell'ischemia silente valutata all'Holter, l'aumento della soglia ischemica e del tempo di ischemia alla prova di sforzo. Nessuno studio ha dimostrato se i nitroderivati riducano l'incidenza di infarto o modifichino la sopravvivenza nei pazienti trattati, né se ritardino l'evoluzione della malattia coronarica.

 

 

 

Betabloccanti

 

I betabloccanti costituiscono il trattamento cardine dell'angina da discrepanza. La fondamentale azione farmacologica si esplica attraverso la riduzione del consumo di ossigeno mediato dalla riduzione della frequenza cardiaca e della forza contrattile. Il lieve aumento di volume cardiaco, con conseguente aumento del precarico, non è comunque tale da essere controproducente ai fini del consumo di ossigeno. Durante la crisi ischemica, i betabloccanti inibiscono la tachicardizzazione riflessa scatenata dal dolore e quindi riducono la durata e l'entità dell'episodio stesso.Un temuto effetto, ovvero quello di aumento del tono coronarico con conseguente peggioramento dei fenomeni vasospastici, è in realtà una evenienza clinica molto rara e, di fatto, i betabloccanti hanno dimostrato di ridurre all'Holter sia gli episodi ischemici, con aumento della frequenza cardiaca, sia quelli nei quali la frequenza non si modifica, verosimilmente legati ad un aumento primario del tono coronarico.

I principali limiti sono legati agli effetti collaterali importanti, quali la precipitazione di uno scompenso o di aritmie ipocinetiche severe, qualora non venga eseguita una precisa indagine anamnestico-strumentale su possibili controindicazioni, quali una funzione cardiaca depressa e/o la presenza di disturbi della eccito-conduzione. I betabloccanti nei pazienti con infarto microardico hanno dimostrato di ridurre in modo significativo sia il reinfarto sia la morte improvvisa. Non si hanno dati analoghi per quanto riguarda l'efficacia nei pazienti con angina stabile.

Per quanto concerne le regole nell'uso del betabloccante nell'angina stabile, prima di tutto va esclusa la presenza di controindicazioni che, se presenti, determinano effetti collaterali gravi.   È quindi buona regola avere una valutazione strumentale della funzione ventricolare sinistra, quale quella ottenibile con ecocardiogramma. Il tipo di betabloccante non è di per sé fondamentale, purché non abbia attività simpaticomimetica intrinseca, proprietà che può limitare gli eventuali vantaggi del betablocco.La disponibilità di forme a mono-somministrazione giornaliera aumenta la adesione alla terapia da parte del paziente.

Il dosaggio è diverso a seconda del farmaco impiegato, ma in ogni caso va individualizzato per il singolo paziente, prendendo come parametro la frequenza cardiaca basale ed il comportamento della frequenza durante sforzo: un adeguato betablocco è presente quando la frequenza basale è intorno ai 55-60 battiti/min. e durante sforzo non vi è un incremento oltre i 100 battiti/min. Per le forme in mono-somministrazione è importante assicurarsi che la copertura terapeutica avvenga durante tutto l'arco della giornata, e quindi bisogna controllare la frequenza cardiaca immediatamente prima della somministrazione.

Per quanto riguarda le possibili associazioni, più frequentemente impiegate sono quelle con nitroderivati + calcioantagonisti diidropiridinici. Nei pazienti ipertesi e anginosi questa associazione costituisce quella di prima scelta, mentre nei non ipertesi va intrapresa esclusivamente in quei pazienti che presentano sintomi nonostante la monoterapia, perché solo in questo caso si è dimostrata una efficacia terapeutica maggiore. Nei pazienti con depressione della funzione contrattile, questa associazione può precipitare uno scompenso per il sinergismo tra gli effetti inotropi negativi diretti dei calcicantagonisti e del betabloccante. L'associazione betabloccante + verapamil o diltiazem va lasciata allo specialista in quanto, se da una parte permette la riduzione delle dosi di ognuno dei due singoli farmaci, tuttavia potenzialmente presenta la possibilità di pesanti effetti collaterali ( 10% di aritmie ipocinetiche sintomatiche e 15% di ipotensione o scompenso).

Un fenomeno importante da tenere presente nel trattamento con betabloccante, è il fenomeno del rebound da sospensione, ovvero la precipitazione di una risposta adrenergica in caso di bruscasospensione. Il trattamento con betabloccante induce infatti un aumento del betarecettori a livello cellulare ed una improvvisa sospensione del farmaco smaschera questo ipertono adrenergico con conseguente precipitazione di tachicardia, ipertensione, crisi anginose, infarto. Il farmaco va quindi sempre sospeso gradualmente e il paziente va avvisato degli eventuali pericoli di una auto-sospensione improvvisa della terapia.

 

 

Calcioantagonisti

 

Per il trattamento dell'angina stabile da sforzo vanno distinti gli effetti dei calcioantagonisuinon dudropiridinici (verapamil, diltiazem, gallopamil) da quelli dei diidropiridinici (nifedipina, nisoldipina, nicardipina, amlodipina, nimodipina), per il meccanismo di azione completamente diverso e principalmente imputabile alla selettività d'azione a livello cardiaco o periferico e alla risposta secondaria di tipo riflesso del sistema neurovegetativo, fattori assai importanti per rendere ragione di risultati clinici a volte contrastanti (tab.02x).

 

Calcioantagonisti non-diidropiridinici. Appartengono a questo gruppo i derivati fenil-alchilaminici (verapamil, gallopamil) e quelli benzatiazepinici (diltiazem). Nei pazienti con ischemia da lavoro questi farmaci aumentano significativamente la tolleranza allo sforzo, anche se non modificano significativamente la pressione arteriosa e la frequenza cardiaca al culmine dello sforzo.   È quindi verosimile che l'effetto sia principalmente legato ad una migliore perfusione, probabilmente per inibizione della vasocostrizione riflessa in corrispondenza della lesione, secondaria all'aumento del flusso durante lavoro. Un secondo effetto, descritto particolarmente per il diltiazem, è un potenziamento del circolo collaterale. Gli studi che hanno valutato l'efficacia di questi farmaci a confronto con i betabloccanti, trattamento tradizionale dell'angina stabile, hanno dimostrato una analoga efficacia, anche se le dosi devono essere alte. Questi calcicantagonisti possono quindi essere considerati delle valide alternative al betabloccante nei pazienti con angina stabile, soprattutto nelle forme di tipo misto.

 

Calcio antagonisti di idropiridinici. I calcioantagonisti di tipo diidropiridinico, un tempo rappresentati unicamente dalla nifedipina, stanno attualmente espandendosi per la comparsa sul mercato di principi che presentano delle proprietà additive estremamente interessanti, quali quella della selettività vascolare più spiccata e della emivita prolungata. I risultati terapeutici di questi farmaci nella angina da sforzo sono stati contrastanti. Si è infatti dimostrata una risposta individuale al farmaco tale per cui alcuni pazienti ne hanno un grosso beneficio, sia in termini di tolleranza allo sforzo che di riduzione degli episodi totali di ischemia rilevati all'Holter, mentre altri non ne hanno alcun beneficio o addirittura hanno un effetto sfavorevole. I motivi di questa diversa risposta sono probabilmente da ricercare nell'importanza relativa della componente vasospastica nella patogenesi della ischemia in ogni singolo caso. Se si selezionano pazienti con angina da sforzo a soglia variabile o con concomitanti episodi a riposo, si vede che il diidropiridinico riduce gli episodi di ischemia nella vita quotidiana. Nei pazienti nei quali la ischemia è puramente da discrepanza, l'aumento del consumo di ossigeno secondario alla tachicardia riflessa è verosimilmente responsabile del mancato effetto clinico. Se questo valga anche per le forme a lento rilascio, che non avendo dei picchi plasmatici determinano una minore attivazione riflessa, non è ancora stato valutato. Nei pazienti con angina da sforzo è comunque un buon principio somministrare il diidropiridinico in associazione al betabloccante. Analogamente ai nitroderivati non sono disponibili studi che abbiano valutato la efficacia dei calcioantagonisti nel prevenire le complicanze e nel modificare la mortalità nei pazienti con angina stabile. Un dato attualmente estremamente stimolante è emerso da alcune esperienze cliniche che hanno dimostrato la proprietà del calcioantagonista (nifedipina) di fare regredire o di contenere l'evoluzione delle lesioni coronariche. Questi dati necessitano di ulteriori conferme e sono in corso studi che valuteranno l'efficacia della nifedipina a lento rilascio in questo particolare fenomeno.

 

Un accenno merita l'associazione terapeutica calcioantagonista-calcioantagonista. Quella più studiata è l'associazione nifedipina + diltiazem che si è dimostrata sicuramente più efficace della monoterapia con i singoli principi, anche se con un potenziamento degli effetti collaterali minori, quale l'edema agli arti inferiori, probabilmente per un potenziamento dell'effetto della nifedipina da inibizione del metabolismo epatico ad opera del diltiazem.

I calcioantagonisti non presentano né il fenomeno della tolerance né quello del rebound da sospensione e in questo senso sono più sicuri dei betabloccanti nei pazienti che tendono ad autoridurre il farmaco o non sono affidabili circa la regolarità della terapia.

La dose e il numero di somministrazioni dipende dal tipo specifico di calcioantagonista. L'adeguatezza della dose può essere stabilità valutando, per quanto riguarda i calcioantagonisti non diidropiridinici, una riduzione della frequenza cardiaca basale, mentre per i diidropiridinici è più empirica ed essenzialmente corrisponde alla dose che dà un effetto clinico senza la comparsa di effetti collaterali.

 

 

Antipiastrinici

 

Le basi razionali per l'impiego degli antipiastrinici nell'angina stabile si fondano sull'ipotesi che le principali complicazioni, angina instabile, infarto e morte improvvisa, sono legate ad un processo trombotico, parziale o totale, nel quale le piastrine svolgerebbero un ruolo fondamentale. Una seconda ipotesi è che la rottura di piccole placche darebbe luogo ad una parziale trombosi murale con successiva organizzazione fibrotica del trombo, che contribuirebbe ad una progressiva riduzione del lume del vaso e quindi alla progressione della malattia coronarica.   È ovvio che la portata clinica di questa ipotesi sarebbe grandissima, in quanto implica il fatto che una inibizione della trombosi con anticoagulanti o antipiastrinici dovrebbe ridurre la evoluzione della malattia coronarica.Risultati preliminari hanno dimostrato che i pazienti trattati con aspirina e dipiridamolo, ad un follow-up clinico ed angiografico di 5 anni, presentano una minore incidenza di nuove lesioni coronariche ed hanno meno infarti. Sulla base di questi dati e in considerazione della patogenesi delle sindromi ischemiche acute, sembra razionale l'impiego di aspirina alla dose di 165 o 325 mg/die.

 

 

CRITERI DI EFFICACIA DELLA TERAPIA NELL'ANGINA STABILE

 

Una volta scelta, in base ai dati clinici e strumentali, la opportunità di una terapia medica, un punto fondamentale per una corretta impostazione è la valutazione dell'obiettivo terapeutico. Nella condizione ideale il paziente deve essere caratterizzato, in assenza di terapia farmacologica, per quanto riguarda la funzione contratole (ecocardiogramma o cineventricolografia con tecnezio), la soglia di ischemia (prova da sforzo) e la presenza di episodi di ischemia silente (Holter). Nei pazienti con prova da sforzo positiva ad alta soglia, la opportunità di quest'ultima indagine può essere discussa in quanto raramente presentano episodi di ischemia spontanea silente. Gli stessi test andranno ripetuti dopo avere iniziato la terapia. L'end-point è ovviamente una negativizzazione della prova da sforzo, l'abolizione degli episodi di ischemia silente senza una riduzione della funzione contrattile, che potrebbe essere indotta dai farmaci inotropi negativi impiegati. I test andranno ripetuti regolarmente, inizialmente ogni 6-12 mesi e, comunque, ogni qualvolta il paziente noti una modificazione della propria sintomatologia. Andranno avviati alla corona-rografia i pazienti che presentino delle caratteristiche di alto rischio (tab.03x), per valutare l'opportunità di procedere ad una rivascolarizzazione mediante angioplastica o bypass aorto-coronarico.

 

 

Terapia medica dell'ischemia silente

 

Rientrano in questa definizione tutti quei pazienti, con o senza fattori di rischio per cardiopatia ischemica, che non presentino sintomi clinici di malattia cardiovascolare, nei quali si sia riscontrato all'Holter o alla prova da sforzo uno slivellamento asintomatico del tratto ST di tipo ischemico. Questa condizione identifica un gruppo con un rischio di sviluppare eventi cardiaci (angina, infarto, morte improvvisa), ad un successivo follow-up, da 2 a 7 volte superiore rispetto alla popolazione normale. Questo dato è importante in quanto la opportunità di un trattamento in questi pazienti è ancora molto dibattuta. La patogenesi degli episodi ischemici silenti, in base ai dati disponibili, sembra essere legata sia ad un aumento del consumo di ossigeno che ad una riduzione primaria del flusso coronarico. Non è invece noto perché alcuni episodi siano ischemici ed altri sintomatici: una spiegazione parziale può essere una diversa percezione individuale del dolore ed una diversa gravità e durata del tipo di episodi ischemici.

 

 

PRINCIPI DI TERAPIA

 

  È discusso se, di fronte al riscontro di una ischemia silente, debba essere iniziata una terapia antiischemica specifica in aggiunta alla ovvia correzione dei fattori di rischio. A sfavore dell'inizio di una terapia, che dovrà essere proseguita per tutta la vita, sta il fatto che è vero che questi pazienti hanno un rischio più alto di sviluppare eventi, tuttavia la maggioranza tende a sviluppare angina, ovvero la cardiopatia ischemica da silente diventa sintomatica (quindi potrebbe essere trattata solo a questo punto); in secondo luogo nessun farmaco ad oggi ha dimostrato di prevenire l'infarto o la morte improvvisa, né l'evoluzione della malattia coronarica in questi pazienti.

A favore di un trattamento stanno i dati indiretti relativi all'importanza dell'ischemia silente associata ad altre manifestazioni della cardiopatia ischemica (angina instabile, infartomiocardico), ove assume un peso prognostico uguale a quello della ischemia sintomatica (e pertanto viene trattata esattamente come quest'ultima), e il fatto che il 20% degli infarti e il 25% delle morti improvvise in pazienti coronaropatici si verifica in assenza di sintomatologia anginosa. Un ulteriore peso a favore del trattamento è che la distribuzione circadiana degli episodi ischemici silenti è simile a quella dell'infarto miocardico e della morte improvvisa. Quello che non è chiaro è se questi pattern che si sovrappongono riflettono in modo indipendente gli effetti dello stesso processo fisiopatologico o se siano casualmente correlati, e questo rende scettici sul fatto che l'eliminazione dei primi si rifletta in una riduzione dei secondi.

In considerazione di quanto sopra esposto, al momento non è possibile dare una direttiva certa circa il trattamento dell'ischemia silente in assenza di altre manifestazioni di malattia coronarica. Se l'ischemia si manifesta a basso carico di lavoro o gli episodi rilevati all'Holter sono frequenti e prolungati, va considerata come una condizione di rischio alla stessa stregua di una ischemia sintomatica e quindi affronta con gli stessi criteri prima indicati. Se invece si manifesta per carichi di lavoro alti e senza caratteristiche di rischio, la decisione se iniziare o meno una terapia è individuale e deve tenere in considerazione le caratteristiche del singolo paziente quali la presenza di fattori di rischio associati e la loro correggibilità, il modello di vita del paziente. Qualora si decida di intraprendere una terapia antiischemica, non vi sono studi che indichino la opportunità di una particolare dasse di farmaci antiischemici rispetto ad altri. L'impiego dei betabloccanti è stato suggerito in quanto si sono dimostrati in grado di ridurre la morte improvvisa e il reinfarto in altre manifestazioni della cardiopatia ischemica (e specificatamente nel post-infarto). Tuttavia tali dati sono indiretti e, soprattutto, questi farmaci presentano effetti collaterali spesso poco accettabili da parte di un paziente asintomatico (impotenza, affaticabilità). I nitroderivati e i calcioantagonisti, entrambi efficacia nell'abolire l'ischemia silente, ciascuno con peculiari caratteristiche, non sono stati specificatamente testati, soprattutto per quanto riguarda la capacità di prevenzione degli eventi. Recenti trial hanno dimostrato che l'acido acetilsalicilico alle dosi di 325 mg/die, in una popolazione non selezionata, è in grado di esercitare una valida profilassi primaria per gli eventi ischemici. In un altro studio, nel quale il farmaco veniva somministrato a dosi più elevate, è stato parimenti dimostrato un aumento del rischio di ictus emorragico, fatale e non fatale, nei pazienti trattati. Dopo la pubblicazione di questi lavori sono emerse tutta una serie di proposte quali l'opportunità di trattare vaste fasce di popolazione ai fini di una profilassi primaria dell'ischemia. Attualmente sembra abbastanza chiaro che il trattamento indiscriminato della popolazione non è indicato, ma in fasce di rischio più elevato, come sono i pazienti con ischemia silente, è verosimile che l'uso di basse dosi di ac. acetilsalicilico costituisca una indicazione elettiva.

 

 

 

CRITERI DI EFFICACIA DELLA TERAPIA NELL'ISCHEMIA SILENTE

 

Il paziente asintomatico con accertata ischemia silente va seguito con la ripetizione del test da sforzo e dell'Holter a cadenza semestrale. Nel paziente nel quale si sia deciso di intraprendere una terapia antiischemica specifica, l'endpoint è quello di eliminare l'ischemia, sia essa all'Holter o alla prova da sforzo. Nei casi nei quali si sia intrapresa solo una terapia antiaggregante, l'end-point sarà quello di mantenere una stabilità della condizione. Un abbassamento della soglia di ischemia o l'aumento del numero degli episodi ischemici all'Holter possono essere spia di una evoluzione della malattia e costituire l'indicazione ad intraprendere una terapia antiischemica attiva.

 

 

Terapia medica dell'angina instabile

 

L'angina instabile comprende una serie di entità cliniche eterogenee quali la angina di recente insorgenza, l'angina ingravescente, le crisi ischemiche prolungate. Tra le tante definizioni, la forma clinica cui faremo riferimento è quella caratterizzata dalla presenza di episodi di ischemia miocardica acuta transitoria a riposo o da sforzi fisici moderati, in un paziente che non aveva mai precedentemente presentato sintomi anginosi (angina di recente insorgenza) o che li presentava solo per sforzi intensi.

Ciò che caratterizza da un punto patogenetico l'angina instabile è l'improvvisa e drastica riduzione della riserva coronarica. Studi angiografici, angioscopici e autoptici hanno suggerito come alla base della instabilità vi sia una ben precisa caratteristica anatomica della placca aterosclerotica, che di per se stessa può essere più o meno grave e non necessariamente è critica. La caratteristica anatomica fondamentale è la rottura della placca, come ha ben dimostrato Falk, sulla quale si ha una deposizione trombotica parziale. Questa deposizione trombotica può in seguito diventare totale, con evoluzione verso l'infarto, o essere inglobata e diventare nuovamente quiescente, con una progressione della severità della stenosi stessa (fig.04x). Dal punto di vista anatomico, quindi, l'angina instabile presenta un substrato patogenetico più simile all'infarto miocardico acuto che alla angina stabile, dove la placca si presenta liscia e senza soluzioni di continuo.

 

 

PRINCIPI DI TERAPIA

 

Per quanto riguarda i dassici farmaci cardiovascolari (nitroderivati, calcioantagonisti, betabloccanti) diciamo subito che se da una parte sono utili nel controllare i sintomi non hanno dimostrato di ridurre l'incidenza di eventi (tab.04x). I nitroderivati, i calcioantagonisti e i betabloccanti si sono dimostrati efficaci nel controllo sia degli episodi sintomatici sia di quelli silenti e la loro associazione ha dimostrato un effetto terapeutico nei pazienti non responsivi ai singoli trattamenti. Un confronto diretto tra betabloccanti e calcioantagonisti è stato fatto con il diltiazem, quest'ultimo ha dimostrato una efficacia analoga con minori effetti collaterali.

Gli unici farmaci che hanno dimostrato di ridurre la mortalità e l'evoluzione verso l'infarto sono gli antiaggreganti e l'eparina. L'efficacia dell'aspirina è stata testata in grossi trial clinici prospettici, randomizzani, verso placebo, in doppio cieco. Questi trial insieme hanno dato una chiara risposta sulla efficacia della terapia antiaggregante a breve, medio e lungo termine a diversi dosaggi. In aggiunta a questi studi lo studio Italiano sulla tidopidina ha dimostrato una efficacia rispetto a placebo nel ridurre gli eventi.L'eparina in infusione continua costituisce sino ad oggi l'unico farmaco che ha dimostrato di ridurre oltre alla evoluzione verso l'infarto anche la refrattarietà dell'angina.

 

 

CRITERI DI EFFICACIA DELLA TERAPIA NELL'ANGINA INSTABILE

 

I determinanti prognostici fondamentali nella angina instabile, oltre alla anatomia coronarica e alla funzione ventricolare sinistra, sono la persistenza di ischemia, sintomatica o silente, nelle prime 48 ore di ricovero. La gestione del paziente con angina instabile, proprio per la frequente e imprevedibile evoluzione verso l'infarto, impone il ricovero in ambiente ospedaliero ove viene effettuata una terapia infusionale con eparina e nitroderivati e l'eventuale associazione di calcioantagonisti o betabloccanti. Tra i calcioantagonisti vanno privilegiati quelli di tipo diltiazem o verapamil, in quanto i diidropiridinici in monoterapia non hanno effetti favorevoli. Questi ultimi vanno invece associati a pazienti in pretrattamento con betabloccanti.

La coronarografia va fatta in tempi brevi. In presenza di una anatomia coronarica favorevole, il paziente va sottoposto ad intervento di rivascolarizzazione, tenendo tuttavia in conto che nella "fase calda" l'intervento di rivascolarizzazione è gravato di una più alta incidenza di complicanze quali infarto miocardico, sindrome da bassa portata, morte. Nei limiti del possibile va quindi prediletta una strategia che comporti una stabilizzazione con terapia medica per procrastinare dopo il mese l'intervento o la eventuale angioplastica. Se il paziente ha sintomi persistenti, l'intervento andrà ovviamente anticipato.

Per quanto concerne la terapia in cronico del paziente nel quale i sintomi vengano ben controllati dalla terapia medica e non sia indicato un intervento di rivascolarizzazione, i principi attivi disponibili sono gli stessi dei quali si è trattato precedentemente. L'impiego dei betabloccanti un tempo veniva criticato perché si riteneva che la maggior parte degli episodi ischemici a riposo fosse legato a vasospasmo e che questo potesse essere potenziato dal betabloccante. In realtà la maggior componente "funzionale" è legata ad una trombosi reversibile e d'altra parte si è dimostrato che i betabloccanti riducono in modo importante il numero e la durata degli episodi ischemici, in quanto inibiscono la tachicardizzazione riflessa e l'attivazione di quei riflessi simpatici brevi che sostengono con un feed-back positivo l'attacco ischemico. Inoltre il betabloccante, iniziato per via endovenosa e proseguito per via orale, ha dimostrato di ridurre il rischio di evoluzione verso l'infarto nei pazienti con crisi prolungate (minaccia di infarto). L'unico sottogruppo per il quale l'indicazione va limitata è costituito dai pazienti con sopraslivellamento del tratto ST durante angor, nei quali farmaco principe è il calcioantagonista o il nitroderivato.

Per quanto riguarda i calcioantagonisti, anche in questo caso esistono risultati diversi tra i diidropiridinici e i non diidropiridinici. Il verapamil per via orale ha rivelato una efficacia analoga al betabloccante nel ridurre gli episodi sintomatici ed un migliore controllo degli episodi silenti. Il diltiazem ha mostrato la stessa efficacia del betabloccante con un numero minore di effetti collaterali. Per quanto riguarda la nifedipina, l'unico diidropiridinico testato adeguatamente in questa patologia, l'efficacia dipende dalla terapia che il paziente assumeva precedentemente.Nel paziente pretrattato con betabloccante, il farmaco è estremamente efficace nel ridurre la ricorrenza dei sintomi, attenua la necessità di ricorrere ad un intervento di rivascolarizzazione ed è molto più efficace dell'associazione del nitroderivato o dell'aumento del betabloccante stesso. Nei pazienti non previamente trattati con betabloccanti invece, forse a causa dell'attivazione riflessa del sistema simpanico, la nifedipina sembra avere un effetto controproducente e pertanto non è indicata.

 

Nel trattamento a lungo termine è fondamentale l'impiego di antiaggreganti quali aspirina alle dosi di 325 mg o, nei pazienti che presentino controindicazioni, tidopidina. La terapia antiaggregante ha dimostrato una efficacia a breve, medio e lungo termine e pertanto rappresenta il trattamento principe nella angina instabile.

 

 

Terapia medica dell'angina variante

 

In questa forma la patogenesi dell'attacco ischemico è legata allo spasmo di un vaso coronarico con conseguente brusca alterazione del flusso. In alcuni rari casi lo spasmo avviene su coronarie angiograficamente normali, ma nella maggioranza dei pazienti è presente una lesione più o meno critica. L'episodio ischemico può essere complicato da infarto miocardico, aritmie ventricolari o da morte improvvisa. Questa grave complicanza si verifica soprattutto quando lo spasmo avviene su una lesione organica severa.

 

PRINCIPI DI TERAPIA

 

Vista la patogenesi, i farmaci più razionalmente impiegati in questa forma sono i calcioantagonisti e i nitroderivati. Vari studi clinici hanno dimostrato l'efficacia di nifedipina, verapamil e diltiazem nel trattamento degli attacchi ischemici in pazienti con angina variante, senza differenza significativa tra i diversi farmaci. Accanto alla efficacia clinica è stato anche dimostrato un miglioramento prognostico nei pazienti trattati con calcioantagonisti.

 

 

CRITERI DI EFFICACIA DELLA TERAPIA

NELL'ANGINA DI PRINZMETAL

 

L'imprevedibilità della evoluzione naturale della malattia, caratterizzata da periodi di remissione e di riacutizzazione, rende difficile dare indicazioni generali sulla durata del trattamento e soprattutto sul giudizio clinico circa la sua efficacia.   È stata evidenziata recentemente una precisa correlazione tra risposta alla terapia medica e risposta ai test provocativi di vasospasmo (ergonovina e iperventilazione): una buona percentuale di pazienti, soprattutto quelli con una risposta iniziale favorevole al trattamento, va infatti incontro a remissione spontanea, dimostrata all'elettrocardiogramma dinamico, degli episodi ischemici e alla negativazione dei test provocativi. Anche in questo caso, i nuovi calcioantagonisti più selettivi e con maggiore emivita, tale da consentire la monosomministrazione, costituiscono un vantaggio per la compliance del paziente. Le dosi di farmaci necessarie per ottenere il raffreddamento spesso sono decisamente elevate in "fase calda" (nifedipina 360 mg/die, diltiazem 360 mg/die, verapamil 480 mg/die), ma poi possono essere ridotte. L'end-point terapeutico è costituito dalla negativizzazione dei test provocativi e dall'abolizione degli episodi all'elettrocardiogramma dinamico. Un test provocativo non invasivo estremamente sensibile, soprattutto nella fase calda della malattia, è costituito dal test all'iperventilazione che può essere poi facilmente ripetuto al follow-up.

La durata della terapia nei soggetti che abbiano risposto in modo favorevole è discussa, soprattutto nei pazienti con coronarie normali o lesioni non significative.

 

 

Terapia medica dello scompenso secondario a cardiopatia ischemica

 

Rientrano in questa entità clinica quelle forme di insufficienza ventricolare sinistra la cui patogenesi è di origine ischemica, che possono costituire la prima manifestazione di malattia coronarica o essere il risultato di una lunga storia clinica caratterizzata da infarti ripetuti, aneurisma ventricolare sinistro postinfartuale, esiti di bypass aorto-coronarico con degenerazione dei graft.

Attualmente la causa più frequente di scompenso è costituito dalla cardiopatia ischemica (70-80%), seguita dalla cardiomiopatia dilatativa e quindi dalle più rare forme di origine valvolare postraumatica e degenerativa o congenite.La gestione terapeutica dei pazienti ischemici presenta alcune peculiarità rispetto alla gestione del comune scompenso. In primo luogo, va ricordato che in alcuni pazienti esistono delle forme reversibili che è importante individuare per avviare il paziente alla correzione chirurgica. Le cause di scompenso nel paziente con cardiopatia ischemica sono riportate in tab.05x. Nella maggioranza dei casi troviamo pazienti con esiti di infarto, e aneurisma ventricolare, la cui storia clinica è caratterizzata dalla presenza di sintomi di insufficienza ventricolare, per lo più sinistra, di embolie sistemiche e, più frequentemente rispetto alla forma dilatativa, di angina. La causa più frequente di morte è la morte improvvisa. Il sintomo "angina" in questi pazienti impone una valutazione ai fini della possibilità di eseguire un intervento di rivascolarizzazione.   È stato infatti dimostrato che, in caso di ischemia residua, l'intervento di rivascolarizzazione migliora la prognosi nei pazienti con frazione di eiezione moderatamente depressa (35-49%). Se il paziente si colloca in tale sottogruppo dovrebbe essere avviato ad un programma di rivascolarizzazione. Nei pazienti che presentano una funzione più severamente compromessa (frazione di eiezione <35 % ) il bypass aorto-coronarico è proponibile qualora vi sia dimostrazione di un'ampia zona ischemica ipocinetica o acinetica, ma metabolicamente vitale.

Nel 20% dei pazienti con cardiopatia ischemica e scompenso le cause dell'insufficienza ventricolare sinistra sono legate a complicanze postinfartuali.Nei pazienti con aneurisma ventricolare sinistro la possibilità di un intervento di resezione è legata alla presenza di una buona contrattilità dei segmenti residui, che deve essere quindi indagata attraverso lo studio della cinesi regionale con ecocardiografia o cineventricolografia radioisotopica. Le altre due cause (insufficienza mitralica da disfunzione del papillare o rottura di corde e difetto interventricolare) generalmente si manifestano nella fase acuta dell'infarto, ma vanno comunque ricordate soprattutto nel paziente nel quale vi siano episodi parossistici di scompenso. Il 60% dei soggetti con disfunzione del papillare posteromediale va incontro a cronicizzazione con episodi parossistici di edema polmonare. Il riscontro di una insufficienza mitralica severa in un paziente con un recente infarto e segni di insufficienza ventricolare sinistra deve fare avviare un procedimento diagnostico (Eco-Doppler, coronarografia) volto ad un intervento di correzione del difetto valvolare ed eventuale intervento associato di rivascolarizzazione.

Un altro gruppo di pazienti con insufficienza ventricolare sinistra, che si candida per una correzione chirurgica, è quello con disfunzione acuta parossistica (edema polmonare acuto) e normale funzione ventricolare sinistra. In questi pazienti il deficit è parossistico, non vi è una storia di pregressi infarti e comunque la frazione di eiezione al di fuori dell'attacco acuto non è tale da giustificare lo scompenso. Il meccanismo della insufficienza ventricolare è legato ad una ischemia, spesso del tutto asintomatica, che determina una alterazione importante sia della diastok che della sistole. Un paziente di questo tipo deve essere avviato a coronarografia in quanto è stato dimostrato che questo quadro clinico si associa in un'alta percentuale di casi a coronaropatia severa dei tre vasi.

 

 

 

PRINCIPI DI TERAPIA

 

Nei pazienti che non sono passibili di intervento la terapia medica presenta alcune peculiarità. La terapia classica dello scompenso prevede quali farmaci di prima scelta gli ACE-inibitori, in quanto studi su popolazioni non selezionate per il tipo di cardiopatia hanno dimostrato una migliore sopravvivenza. Nei pazienti con cardiomiopatia ischemica l'impiego di questi farmaci ha alcuni elementi a favore ed altri a sfavore.A favore, specialmente nei pazienti con esiti di infarto miocardico o aneurisma ventricolare sinistro, sono i dati sperimentali che hanno dimostrato la capacità di questi farmaci di evitare la deformazione della cavità cardiaca nel periodo postinfartuale, secondaria alla presenza di zone acinetiche o, addirittura, discinetiche, ed avere quindi un effetto "modellante" favorevole sia a breve che a lungo termine.  È ipotizzabile che l'instabilità elettrica responsabile di aritmie maligne e della morte improvvisa, possa originare dalla tensione esistente nel passaggio tra zone acinetiche e normocinetiche. Una riduzione di queste tensioni meccaniche dovrebbe essere favorevole, quindi, anche in termini prognostici. A questo proposito è in corso lo studio GISSI 3 che valuterà l'effetto immediato e a lungo termine di tale approccio terapeutico. Un effetto sfavorevole potrebbe essere legato alla importante azione ipotensiva di questi farmaci che può portare ad una riduzione della pressione di perfusione coronarica, elemento fondamentale per avere un flusso adeguato soprattutto in presenza di lesioni coronariche critiche.Questo è tanto più problematico in quanto spesso questi pazienti sono in terapia con nitroderivati che potenziano l'effetto ipotensivo degli ACE-inibitori e che non sono tollerati in associazione. Può quindi presentarsi il dilemma se sospendere il nitrato, che costituisce una classica terapia della ischemia miocardica, a favore dell'ACEinibitore, la cui efficacia nel paziente ischemico è ancora sub-judice. In realtà vi sono segnalazioni circa il peggioramento dei sintomi anginosi in pazienti con miocardiopatia ischemica trattati con ACE-inibitori. Al momento sembra ragionevole tuttavia consigliare l'impiego di tali farmaci eventualmente partendo da basse dosi.

I nitroderivati costituiscono anche in questi pazienti una terapia classica. Per quanto concerne la finestra terapeutica, al fine di prevenire la tolerance, può essere adottato un criterio diverso rispetto a quello impiegato nel paziente con angina da sforzo che conduce una vita attiva durante il giorno. Infatti questi pazienti, proprio per la sintomatologia clinica, spesso conducono una vita di risparmio durante la giornata. Il clinostanismo, durante la notte, porta ad un aumento della volemia e del precarico, per ritorno del liquido dello spazio extravascolare a quello intravascolare. Questo aumento del precarico può essere sufficiente a precipitare sia lo scompenso sia l'angina. Può quindi essere più conveniente una copertura terapeutica con nitroderivato limitatamente al periodo notturno, lasciando per il giorno, eventualmente, l'ACE-inibitore. L'ACE-inibitore in associazione al nitroderivato sembra essere in grado di attenuare il fenomeno della tolerance soprattutto agli effetti emodinamici, ma la rilevanza clinica di questo fenomeno è ancora da confermare.

L'impiego dei calcioantagonisti in questi pazienti può costituire un problema.Quelli di tipo diidropiridinico sono infatti dotati di un'azione inotropa negativa diretta, generalmente controbilanciata dalla risposta simpatica secondaria che porta ad un aumento della contrattilità. In pazienti che tuttavia spesso presentano un'attivazione cronica del sistema simpatico basale, tale da avere una deplezione dei depositi catecolaminici, l'azione diretta di tali farmaci può non essere più controbilanciata e provocare un ulteriore peggioramento della funzione contrattile. I nuovi calcioantagonisti, come la nisoldipina, con azione più selettiva e forse privi di una azione inotropa diretta, dovranno sicuramente essere valutati in questo contesto. Il diltiazem, che ha una azione inotropa negativa meno potente, sembra essere un farmaco utile, a basse dosi, ed è in via di valutazione.

I betabloccanti sono attualmente impiegati in alcuni sottogruppi di pazienti con cardiomiopatia, in quanto hanno dimostrato di migliorare sia la prognosi che i parametri emodinamici, soprattutto in pazienti con una eccessiva elevazione della risposta adrenergica basale.   È verosimile che i pazienti con miocardiopatia su base ischemica siano un sottogruppo nel quale questi farmaci possono essere particolarmente favorevoli, ma il loro uso va riservato ad un ambito strettamente specialistico per i pesanti effetti collaterali che potrebbero comparire in questi pazienti.

Ultimi punti importanti da analizzare sono relativi all'impiego della digitale, degli anticoagulanti e della terapia antiaritmica.

  È stato dimostrato che la digitale peggiora la prognosi nei pazienti con infarto miocardico acuto e da qui è stata tratta una generica controindicazione all'uso della digitale in pazienti con cardiopatia ischemica. Va tuttavia ricordato che tale risultato è emerso limitatamente ai pazienti con infarto miocardico acuto.   È verosimile che, nei pazienti con scompenso cronico su base ischemica, che presentano nella stragrande maggioranza aumento dei volumi ventricolari e tachicardia sinusale, la riduzione della frequenza cardiaca e dei volumi operata dalla digitale possa essere comunque favorevole ai fini di una riduzione del consumo di ossigeno, che costituisce nel paziente ischemico uno dei fattori fondamentali. In questo contesto quindi il farmaco può essere impiegato, ponendo sempre attenzione al rischio di aritmie ventricolari.

Per quanto riguarda gli anticoagulanti, si è visto che questi pazienti hanno il medesimo rischio embolico di quelli con cardiomiopatia dilatativa (6% anno) e vi sarebbe quindi il suggerimento a iniziare tale trattamento, mantenendo eventualmente i livelli di INR intorno ai 2,5.   È incerto l'effetto protettivo degli antiaggreganti.

La terapia antiaritmica in questi pazienti costituisce un grosso problema. Infatti, da una parte, vi è un'alta incidenza di aritmie ventricolari anche maggiori all'elettrocardiogramma dinamico, dall'altra si è visto che l'impiego di farmaci antiaritmici non previene la morte improvvisa, ma nei pazienti ischemici può addirittura peggiorarla.Se le aritmie sono sintomatiche vanno trattate mentre quelle asintomatiche non hanno una indicazione alla terapia antiaritmica profilattica. Tra i farmaci antiaritmici sono di scelta quelli con scarso effetto inotropo negativo come la mexilenna, la procainamide o l'amiodarone.

 

 

CRITERI DI EFFICACIA DELLA TERAPIA

DELLO SCOMPENSO SU BASE ISCHEMICA

 

Il fine della terapia nel paziente con miocardiopatia ischemica è il miglioramento dei sintomi dello scompenso e della angina e la profilassi della morte improvvisa.

Per quanto riguarda il primo punto, spesso la terapia, per lo più di associazione, richiede una fine individualizzazione con impiego dei farmaci a dosi inizialmente basse in quanto, proprio per le condizioni precarie, in questi pazienti il profilo terapeutico di qualsiasi farmaco è comunque ridotto. Un ulteriore elemento da considerare è che diventa fondamentale una ottimizzazione di tutti quei parametri che determinano il rapporto apporto/consumo di ossigeno.Va quindi attentamente corretta la presenza di eventuali anemie per migliorare la capacità ossiforica del sangue, vanno impiegati diuretici per ridurre il precarico e vanno mantenuti adeguati livelli di albuminemia e di natriemia per garantire una normale capacità oncotica del sangue, soprattutto in considerazione che le condizioni di malassorbimento secondarie alla bassa portata cronica e le terapie tendono a squilibrare facilmente questi parametri. La frequenza cardiaca, tendenzialmente elevata, va ottimizzata intorno agli 80-85 battiti/min, in modo da avere un adeguato tempo di diastole durante il quale avviene la perfusione coronarica.

 

Per quanto concerne il miglioramento della sopravvivenza, non esistono sino ad oggi studi che abbiano dimostrato una efficacia di alcun farmaco in questo specifico sottogruppo. Di fatto, mutuando risultati su popolazioni non selezionate con scompenso (dove tuttavia la maggior parte dei pazienti era portatore di cardiopatia ischemica), gli unici farmaci che hanno dimostrato una efficacia sono gli ACE-inibitori e, in misura minore, l'associazione idralazina + nitrati. Poiché quest'ultima associazione in genere induce una tachicardia che può peggiorare la sintomatologia anginosa, l'unico farmaco che si candida per una terapia cronica è l'ACE-inibitore.

 

 

Letture consigliate

 

 

Chierchia S., Brunelli C., Simonetti I. e Coll.: Sequence of events in angina at rest: primary reduction in coronary blood flow. Circulation, 61 (4): 759-68, 1980.

Deedwania P., Carbajala E., Nelson J. e Coll.: Silent ischemia is an independent predictor of survival in stable angina. J. Am. Coll., Cardiol, 13 (2): 3A, 1989.

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P.A. Merlini

Assistente Dipartimento Cardiologico De Gasperis,

Ospedale Niguarda – Ca’Granda, Milano

 

 

F. Rovelli

Primario Emerito di Cardiologia,

Ospedale Niguarda -  Ca’ Granda, Milano

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Questo sito [ The Great Crusade ] è uno STRUMENTO DELLA MEMORIA E DELLA COSCIENZA, uno dei tanti, a disposizione di coloro che vogliano per qualche momento essere presenti alla realtà e ricordare la Grande Crociata che fu combattuta, e che oggi ci permette di vivere serenamente della nostra quotidianità  Il sacrificio di milioni di esseri umani  per riscattare la barbarie nazista

          

 

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Immagini che hanno fatto la storia di questo secolo che sta finendo.

 Collana monografica: Annali dell’Africa Orientale Italiana

 

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