HOME PAGE CARLOANIBALDI.COM HOME PAGE ANIBALDI.IT
VAI ALL'INDICE
Ultimo aggiornamento: 23.12.2013
mail to Webmaster
La
cardiopatia ischemica, prima causa di mortalità e morbilità nella società
occidentale, comprende una serie di entità cliniche tra di loro ben distinte
rappresentate da angina stabile, angina instabile, infarto miocardico, morte
improvvisa, aritmie.
L'ischemia
miocardica, elemento fisiopatologico comune nelle diverse forme, è un fenomeno
metabolico secondario ad una inadeguata ossigenazione del tessuto cardiaco per
una discrepanza tra l'apporto e il consumo di ossigeno. La patogenesi, la
presentazione clinica, sono tuttavia differenti nelle diverse espressioni della
cardiopatia ischemica (fig.01
Scopi
della terapia nella cardiopatia ischemica sono:
1)
eliminare l'ischemia, attraverso una serie di presidi, medici o chirurgici, che
migliorino l'apporto di sangue ai tessuti o comunque normalizzino il rapporto
apporto/consumo di ossigeno;
2)
interrompere o ritardare la malattia aterosclerotica, quindi interferire con la
evolutività tipica di questa malattia;
3)
prevenire le complicanze, soprattutto l'infarto e la morte improvvisa.
Mentre
spesso si riesce ad adempiere al primo punto, sia con la terapia medica sia con
interventi di rivascolarizzazione mediante bypass o angioplastica, non sempre si
è in grado di assolvere gli altri due punti.
I
determinanti prognostici principali comuni a tutte le diverse forme cliniche con
cui si esprime la patologia ischemica sono la gravità della coronaropatia e la
funzione ventricolare sinistra. Altri indici assumono un peso prognostico
diverso a seconda della forma clinica: le aritmie ventricolari, ad esempio,
hanno un peso prognostico ben differente nella fase subacuta dell'infarto
miocardico, dove la presenza di battiti ectopici ventricolari non complessi, ma
di numero superiore a 10 all'ora, si associa ad un rischio più elevato di morte
improvvisa, rispetto a quelle che compaiono in un paziente con angina da sforzo
dove la presenza di extrasistoli ventricolari, anche numerose, non si associa ad
un aumento sostanziale del rischio. Nella successiva trattazione ciascuna forma
clinica verrà quindi affrontata individuando, in base alle premesse
fisiopatologiche ed alle determinanti prognostiche, il razionale per un
approccio terapeutico mirato, tenendo in conto i risultati degli studi
disponibili. Verranno prese in considerazione quelle forme chimiche che più
frequentemente il medico pratico si trova a dovere affrontare o a gestire in
collaborazione con lo specialista cardiologo, tralasciando l'infarto miocardico
e la morte improvvisa che costituiscono un capitolo a sé per la loro importanza
e per le problematiche particolari che comportano.
Esistono
alcune strategie terapeutiche comuni che vanno attuate secondo dei criteri ben
precisi in tutti i pazienti con cardiopatia ischemica e che verranno quindi
affrontate per prime.
La
prima manovra fondamentale nei soggetti con cardiopatia ischemica è la
abolizione dei fattori di rischio correggibili.
Fumo.
La nicotina esercita il proprio effetto tossico a livello coronarico attraverso
una azione cronica ed una azione acuta. L'azione cronica è diretta
sull'endotelio sia dei grandi sia dei piccoli vasi, soprattutto nelle zone a
maggiore stress emodinamico, quali le biforcazioni o ripiegamenti (kinking) e
determina una disfunzione endoteliale con perdita dei fattori protettivi locali
(vasodilatatori, antiaggreganti e profibrinolitici) e una modificazione della
permeabilità alle diverse componenti lipidiche, favorendo quindi lo sviluppo
della lesione aterosclerotica.
L'azione
acuta della nicotina è rappresentata da uno stimolo vasocostrittore nelle sedi
dove l'endotelio è leso. Oltre a concorrere alla formazione della placca e alla
disfunzione endoteliale cronica, la nicotina costituisce anche un fattore
favorente l'instabilizzazione acuta. Un terzo elemento che facilita questa
evoluzione è dato dall'attivazione della aggregazione piastrinica e
dall'aumento del fibrinogeno indotto dal fumo di sigaretta; si viene dunque a
determinare uno stato di ipercoagulabilità sistemica che, in associazione ad
una condizione locale quale quella di una placca instabile, favorirebbe
l'evoluzione trombotica a livello coronarico.
L'abolizione
del fumo porta ad una riduzione delle complicanze cardiovascolari, ma non è
noto se porti anche ad una regressione delle eventuali lesioni già presenti.
Dislipidemia.
La correlazione tra livelli di colesterolo, coronaropatia e mortalità
coronarica è indubbia e, tra l'altro, non esiste un valore di rischio soglia,
ma la progressione è continua. L'aumento dei lipidi, ed in particolare di
specifiche sottofrazioni quali le lDl, sembra costituire uno degli stimoli per
l'instabilizzazione della placca. Tra i nuovi fattori di rischio attualmente
chiamati in causa per spiegare questo fenomeno vi è una particolare frazione
lipoproteica, la lp(a) che avrebbe una particolare tendenza alla perossidazione
con conseguente richiamo di elementi cellulari di tipo infiammatorio e,
possedendo una struttura simile all'attivatore del plasminogeno, agirebbe quale
antagonista di tipo competitivo con quest'ultimo, inibendo quindi la risposta
fibrinolitica spontanea.
Il
trattamento dietetico/farmacologico ha dimostrato di ridurre l'incidenza di
eventi cardiovascolari nei soggetti con dislipidemia e vi sono recenti
segnalazioni circa la regressione e/o il ritardo della progressione della
malattia coronarica in pazienti sottoposti a trattamento ipolipemizzante
intensivo.
La
prima manovra da considerare di fronte al paziente con manifestazioni cliniche
di cardiopatia ischemica e dislipidemia è la terapia dietetica che costituisce
la base anche per l'efficacia di un eventuale trattamento farmacologico. La
terapia farmacologica (la cui trattazione specifica esula da questa rassegna) va
riservata ai pazienti che non rispondono alla dieta.
Ipertensione.
L'applicazione su vasta scala della terapia antipertensiva ha sicuramente
ridotto l'incidenza di eventi cerebrovascolari, ma non ha modificato l'incidenza
di eventi ischemici cardiaci in modo particolarmente significativo. La
correzione dei valori di pressione arteriosa nei pazienti ipertesi e ischemici
è comunque una misura fondamentale, tenendo soprattutto in conto che il
postcarico rappresenta uno dei maggiori determinanti del consumo di ossigeno e
che quindi la ottimizzazione della terapia richiede un adeguato controllo di
questo parametro. Sbalzi acuti dei valori pressori sono anche stati chiamati in
causa quali elementi facilitanti la rottura della placca, e quindi la sua
instabilizzazione, per la possibilità di determinare delle forze di attrito e
di tensione sui punti deboli della placca aterosclerotica, favorendone la
rottura. Secondo altri Autori, invece, l'ipertensione faciliterebbe l'emorragia
intraplacca, che costituisce la seconda principale causa di complicazione della
lesione aterosclerotica.
Di
fronte al paziente che manifesti sintomi riferibili a ischemia miocardica vanno
ricercate tutte quelle cause di cui l'ischemia miocardica potrebbe rappresentare
una manifestazione secondaria.
Le
tre principali determinanti del consumo di ossigeno sono la frequenza cardiaca,
il precarico e il postcarico. Per quanto riguarda la frequenza cardiaca sono
soprattutto le condizioni di aumento eccessivo della frequenza che possono
scatenare l'ischemia, in quanto la bradicardizzazione si associa ad un aumento
del tempo di diastole con un miglioramento della perfusione coronarica. In
presenza di una tachiaritmia associata ad ischemia la prima manovra è quindi la
correzione della tachiaritmia stessa.
Gli
aumenti di precarico difficilmente si associano ad un aumento del consumo di
ossigeno tale da dare ischemia, tranne in pazienti estremamente compromessi,
come quelli con miocardiopatia ischemica. Più frequente è invece l'ischemia
scatenata da aumento del postcarico, tipicamente durante crisi ipertensiva, che
deve quindi essere risolta con la riduzione acuta dello stesso.
Tra
le cause secondarie che riducono l'apporto di ossigeno ai tessuti è l'anemia,
proprio per riduzione della capacità ossiforica del sangue. In condizione di
grave anemia, che tra l'altro spesso si associa ad un aumento del consumo di
ossigeno per tachicardizzazione, vi può essere scatenamento di ischemia. In
questo caso è necessaria la correzione della anemia ricorrendo anche alla
emotrasfusione.
L'angina
si definisce stabile quando l'ischemia, sintomatica o meno, si ripresenti con un
esercizio fisico della stessa intensità e quando non vi sia una modificazione
della severità, durata, frequenza, fattori precipitanti degli episodi ischemici.
L'angina stabile non è necessariamente una pura angina da sforzo, ma può
comprendere anche quelle forme miste, ove le crisi a riposo sono indotte da
situazioni riproducibili (digestione, freddo, emozione) con carattere di
relativa stabilità, in genere legate a variazioni del sistema neurovegetativo.
L'angina da sforzo pura include quelle forme nelle quali la ischemia miocardica
avrebbe come base patogenetica un fenomeno di discrepanza tra apporto e consumo
di ossigeno. L'apporto massimale di sangue a livello coronarico è limitato
dalla presenza di stenosi fisse che, a seconda della loro entità, determinano
un ostacolo ad un aumento del flusso in condizioni di aumentata richiesta, come
normalmente avviene, ad esempio, durante uno sforzo. Questo fenomeno è
denominato "riduzione della riserva coronarica": per un ben preciso
livello di consumo di ossigeno, inversamente correlato alla entità della
stenosi stessa, si sviluppa ischemia. La traduzione clinica di questo aspetto
patogenetico è quello del livello costante di sforzo al quale compare il
sintomo "dolore anginoso" e della riproducibilità della soglia di
ischemia (intesa come doppio prodotto alla prova da sforzo). Questa forma, nella
quale venivano classificati un tempo la maggior parte dei pazienti con angina
stabile, in realtà è molto rara. Si è infatti visto che nella maggioranza dei
casi le stenosi coronariche non sono fisse, ma "dinamiche" e questa
modificazione funzionale della entità della stenosi stessa si traduce nella
capacità di dare ischemia per diversi livelli di consumo di ossigeno, a volte
anche in condizioni basali. Ecco quindi che di fronte a particolari stimoli
(freddo, emozione) vi è un aumento della capacità delle stenosi di dare
ischemia, perché attraverso una costrizione, di fatto, la stenosi
"aumenta". I motivi di queste modificazioni transitorie e dinamiche si
stanno via via chiarendo. Da una parte si è visto che anche le stenosi
apparentemente concentriche in realtà, nella maggior parte dei casi, presentano
un arco di parete indenne che conserva una motilità e quindi la possibilità,
attraverso una costrizione, di variare il calibro del vaso.
È stato d'altra parte osservato che uno dei principali elementi che
determina il tono coronarico è l’endotelio il quale, attraverso tutta una
serie di fattori locali (endotelial relaxing factor, EDRF; prostaciclina;
endotelialhy perpolarizing factor, EDHF) è in grado di fare in modo che diversi
stimoli, da un banale aumento di flusso all'aumento della concentrazione locale
di catecolamine, di trombina o di diversi mediatori (serotonina, acetilcolina,
ADP), diano luogo ad una vasodilatazione locale. In assenza di un endotelio ben
funzionante, come avviene in corrispondenza di una placca aterosclerotica (prima
ancora che diventi emodinamicamente significativa), gli stessi stimoli diventano
dei potenti vasocostrittori. Questo meccanismo chiarisce come la placca
aterosclerotica, anche se non ostruttiva, possa avere tuttavia una dinamicità
che in alcuni momenti la rende ischemizzante, in altri no. Queste osservazioni
hanno di fatto dato il via a tutta una serie di considerazioni su come la
dinamicità non sia peculiare della fase di instabilizzazione, ma è una
proprietà tipica della lesione stessa. Due sono gli elementi quindi che
caratterizzano una lesione aterosclerotica:
a)
l'entità, vale a dire la capacità di essere ostruttiva, e come tale dare
angina da discrepanza. È
questa la lesione tipica che viene visualizzata all'angiografia come
"critica" (riduzione del diametro superiore al 50%);
b)
la vulnerabilità, ovvero la tendenza a diventare instabile se esposta ad un
adeguato "trigger". Questa caratteristica è indipendente dalla
severità, ma dipende probabilmente da caratteristiche locali, ancora per la
maggior parte sconosciute. le placche "vulnerabili", di fronte ad uno
stimolo appropriato, esprimono la loro tendenza trombogenica e possono causare
infarto, angina instabile o morte improvvisa, a seconda della modalità e grado
con il quale si instaura il fenomeno trombotico. Una stenosi non necessariamente
deve essere ostruttiva per diventare trombogenica né tutte le lesioni
ostruttive sono trombogeniche. L'angiografia in questo caso ha un potere
diagnostico più limitato e, tra l'altro, non vi sono ancora dei marker che
siano in grado di identificare le lesioni a maggiore potenzialità evolutiva
anche se subcritiche.
In
questo senso, quindi, la terapia rivolta a prevenire l'evoluzione verso
l'infarto miocardico nel paziente con angina stabile deve essere rivolta
all'intero albero coronarico e probabilmente ad interrompere quel circolo
vizioso tra placca valnerabile conseguente a trigger conseguente a
rottura conseguente a trombosi conseguente a infarto e/o morte
improvvisa.
Il
fine della terapia nell'angina stabile è duplice:
1)
controllare i sintomi in modo che non limitino la vita del paziente;
2)
migliorare la prognosi attraverso una prevenzione della evoluzione verso
l'infarto e la morte.
La
prima valutazione fondamentale ai fini di una scelta terapeutica corretta è
quindi quella della "fascia di rischio" in cui si colloca il paziente.
I determinanti prognostici dassici, che attualmente guidano la scelta
terapeutica nel paziente con angina stabile, sono:
-
il numero di vasi lesi con lesioni > 70% (fig.02
-
la funzione ventricolare sinistra (fig.03
Questi
elementi, da soli e in associazione, determinano diverse fasce di rischio nelle
quali il valore della terapia nel modificare la prognosi è diverso. Una volta
inquadrato, attraverso i diversi test strumentali (la cui trattazione esula da
questa rassegna), a quale categoria appartiene il singolo paziente è possibile
operare la prima scelta, vale a dire terapia medica o terapia chirurgica. La
terapia chirurgica ha dimostrato di migliorare la prognosi in tre sottogruppi di
pazienti: quelli con lesioni critiche del tronco comune, con lesioni critiche di
tre vasi e ridotta funzione contrattile, quelli con ischemia severa e patologia
dell'interventricolare anteriore prossimale. La possibilità di eseguire l'angioplastica,
che costituisce un approccio relativamente poco invasivo, ha portato ad un
allargamento delle indicazioni, ma è comunque importante sottolineare che, dal
punto di vista prognostico, sono solo le categorie sopra indicate di pazienti
che traggono un beneficio in termini prognostici. Se il paziente non si inquadra
in uno di questi gruppi ad alto rischio, è quindi opinabile una scelta medica
rispetto ad una scelta chirurgica. In questo caso entreranno nella scelta
elementi specifici per ogni singolo paziente, quali la efficacia clinica della
terapia medica, l'adesione alla terapia farmacologica, l'accettazione di un
modello di vita eventualmente più di risparmio, la presenza di patologie
associate che rendano più rischioso un intervento chirurgico e il reale
rapporto rischi/benefici di una eventuale rivascolarizzazione. Una volta che si
sia ritenuto indicato un trattamento di tipo medico, l'impiego degli specifici
principi farmacologici va personalizzato.
Riportiamo
in tab.01
Un
pilastro fondamentale della terapia è dato dai nitroderivati che costituiscono
da oltre un secolo un principio cardine nella terapia sia dell'attacco ischemico
acuto sia dell'angina cronica.
I
meccanismi d'azione sono da ricondurre sia ad una diminuzione del consumo di
ossigeno, legato alla riduzione del ritorno venoso e quindi del precarico, che
costituisce uno dei maggiori determinanti del consumo di ossigeno, sia
all'aumento del flusso a livello della stenosi e del circolo collaterale, con un
miglioramento della perfusione nelle zone ischemiche. L'azione dei nitroderivati
è mediata attraverso la formazione intracellulare dell'ossido di azoto (NO),
che stimola la guanilato cidasi solubile con aumento del GMPc intracellulare e
conseguente rilasciamento muscolare. L'EDRF, che costituisce il vasodilatatore
coronarico naturale, è attualmente identificato con lo stesso ossido di azoto
e, abbiamo visto, non viene prodotto a livello delle placche aterosclerotiche
ancora prima che esse diventino emodinamicamente significative.
È quindi prospettabile l'ipotesi che i nitroderivati possano sostituire
l'EDRF a livello delle coronarie lese, ripristinando la normale e fisiologica
risposta a tutti quegli stimoli che inducono una vasodilatazione in condizioni
normali, ma una vasocostrizione in presenza di un alterato endotelio. Una
conferma di questo è che i nitroderivati eliminano la risposta costrittiva
paradossa ai diversi stimoli a livello delle lesioni coronariche. Se il
ripristino di una normale risposta sia in grado di ritardare o eliminare la
progressione della aterosclerosi è ancora da dimostrare.
Le
caratteristiche di ottima tollerabilità e la possibilità di diverse
formulazioni, ciascuna con i suoi vantaggi e svantaggi, che si possono bene
adattare alle diverse esigenze del singolo paziente, rendono i nitroderivati i
farmaci di più ampio impiego nel paziente anginoso.
Il
loro uso ricopre la prevenzione della crisi (quando vengano assunti prima di uno
sforzo od una situazione che è nota scatenare l'attacco), l'attacco acuto,
attraverso la forma sublinguale che nel giro di pochi se- effetto terapeutico, e
la terapia a lungo termine, nei pazienti che presentano crisi più frequenti,
sia da soli sia in associazione.
Un
problema da discutere nella terapia cronica è il problema della "tolerance".
Per "tolerance" si intende quel fenomeno che determina l'attenuazione
dell'efficacia del farmaco dopo somministrazioni ripetute, con necessità di
impiego di dosi più alte per ottenere lo stesso effetto terapeutico.
È ampiamente dimostrato che l'impiego prolungato di nitroderivati a dosi
tali che implichino livelli ematici costantemente elevati, porta ad una
riduzione degli effetti emodinamici, di quelli antiischemici e degli effetti
collaterali. La causa di questo fenomeno è stata attribuita a meccanismi
biochimici (esaurimento dei gruppi SH intracellulari che costituiscono il
tramite per la trasformazione a ossido nitroso), bioumorali (aumento della
renina, catecolamine e aldosterone) ed emodinamici (espansione del volume
plasmatico), ma in ogni caso ha delle caratteristiche individuali nel singolo
paziente. Il fenomeno è comunque parziale e viene eliminato lasciando un
intervallo libero tra le somministrazioni. Una volta che la tolerance si è
instaurata, il tempo di "Wash-out" dal nitroderivato necessario per
ripristinare una risposta vascolare è comunque superiore al tempo di
"finestra terapeutica" che sarebbe stata necessaria per prevenirlo.
Questo fenomeno rende ragione di alcune regole generali nell'impostare una
terapia con nitroderivati in modo da averne il massimo vantaggio terapeutico.
Se
il paziente presenta crisi sporadiche per sforzi massimali o situazioni
scatenanti note, il nitroderivato per via perlinguale quale profilattico prima
dello sforzo o come terapia acuta della crisi occasionale costituisce la terapia
di scelta. Nel paziente che per la frequenza delle crisi necessiti di una
copertura prolungata, il nitro derivato in monoterapia non sembra una terapia
del tutto adeguata. Se da una parte, infatti, vi potrebbe essere la tentazione
di coprire solo quel periodo in cui si presentano le crisi, che nel paziente con
angina da sforzo è per lo più diurno, non bisogna dimenticare che spesso si
verificano episodi silenti notturni o nelle prime ore del mattino, che sono tra
l'altro le ore nelle quali più si verificano eventi maggiori. Inoltre, è stato
segnalato come la sospensione brusca del nitroderivato possa precipitare, per
fenomeni di rebound, delle crisi anginose.
È quindi in questo caso buona regola somministrare il nitroderivato in
modo intermittente, ma comunque in associazione ad altri principi che assicurino
una copertura farmacologica anche durante la "finestra terapeutica".
In ogni caso il nitroderivato va impiegato alle dosi minime efficaci attraverso
una "titration", in modo da ottimizzare la dose individuale in base
alla risposta del singolo, valutata come calo della pressione arteriosa in
ortostatismo del 10% o aumento della frequenza cardiaca basale di 10 battiti/min,
senza comparsa di effetti collaterali. L'obiettivo terapeutico della terapia con
nitroderivati è la riduzione del numero delle crisi anginose, dell'ischemia
silente valutata all'Holter, l'aumento della soglia ischemica e del tempo di
ischemia alla prova di sforzo. Nessuno studio ha dimostrato se i nitroderivati
riducano l'incidenza di infarto o modifichino la sopravvivenza nei pazienti
trattati, né se ritardino l'evoluzione della malattia coronarica.
I
betabloccanti costituiscono il trattamento cardine dell'angina da discrepanza.
La fondamentale azione farmacologica si esplica attraverso la riduzione del
consumo di ossigeno mediato dalla riduzione della frequenza cardiaca e della
forza contrattile. Il lieve aumento di volume cardiaco, con conseguente aumento
del precarico, non è comunque tale da essere controproducente ai fini del
consumo di ossigeno. Durante la crisi ischemica, i betabloccanti inibiscono la
tachicardizzazione riflessa scatenata dal dolore e quindi riducono la durata e
l'entità dell'episodio stesso.Un temuto effetto, ovvero quello di aumento del
tono coronarico con conseguente peggioramento dei fenomeni vasospastici, è in
realtà una evenienza clinica molto rara e, di fatto, i betabloccanti hanno
dimostrato di ridurre all'Holter sia gli episodi ischemici, con aumento della
frequenza cardiaca, sia quelli nei quali la frequenza non si modifica,
verosimilmente legati ad un aumento primario del tono coronarico.
I
principali limiti sono legati agli effetti collaterali importanti, quali la
precipitazione di uno scompenso o di aritmie ipocinetiche severe, qualora non
venga eseguita una precisa indagine anamnestico-strumentale su possibili
controindicazioni, quali una funzione cardiaca depressa e/o la presenza di
disturbi della eccito-conduzione. I betabloccanti nei pazienti con infarto
microardico hanno dimostrato di ridurre in modo significativo sia il reinfarto
sia la morte improvvisa. Non si hanno dati analoghi per quanto riguarda
l'efficacia nei pazienti con angina stabile.
Per
quanto concerne le regole nell'uso del betabloccante nell'angina stabile, prima
di tutto va esclusa la presenza di controindicazioni che, se presenti,
determinano effetti collaterali gravi.
È quindi buona regola avere una valutazione strumentale della funzione
ventricolare sinistra, quale quella ottenibile con ecocardiogramma. Il tipo di
betabloccante non è di per sé fondamentale, purché non abbia attività
simpaticomimetica intrinseca, proprietà che può limitare gli eventuali
vantaggi del betablocco.La disponibilità di forme a mono-somministrazione
giornaliera aumenta la adesione alla terapia da parte del paziente.
Il
dosaggio è diverso a seconda del farmaco impiegato, ma in ogni caso va
individualizzato per il singolo paziente, prendendo come parametro la frequenza
cardiaca basale ed il comportamento della frequenza durante sforzo: un adeguato
betablocco è presente quando la frequenza basale è intorno ai 55-60
battiti/min. e durante sforzo non vi è un incremento oltre i 100 battiti/min.
Per le forme in mono-somministrazione è importante assicurarsi che la copertura
terapeutica avvenga durante tutto l'arco della giornata, e quindi bisogna
controllare la frequenza cardiaca immediatamente prima della somministrazione.
Per
quanto riguarda le possibili associazioni, più frequentemente impiegate sono
quelle con nitroderivati + calcioantagonisti diidropiridinici. Nei pazienti
ipertesi e anginosi questa associazione costituisce quella di prima scelta,
mentre nei non ipertesi va intrapresa esclusivamente in quei pazienti che
presentano sintomi nonostante la monoterapia, perché solo in questo caso si è
dimostrata una efficacia terapeutica maggiore. Nei pazienti con depressione
della funzione contrattile, questa associazione può precipitare uno scompenso
per il sinergismo tra gli effetti inotropi negativi diretti dei
calcicantagonisti e del betabloccante. L'associazione betabloccante + verapamil
o diltiazem va lasciata allo specialista in quanto, se da una parte permette la
riduzione delle dosi di ognuno dei due singoli farmaci, tuttavia potenzialmente
presenta la possibilità di pesanti effetti collaterali ( 10% di aritmie
ipocinetiche sintomatiche e 15% di ipotensione o scompenso).
Un
fenomeno importante da tenere presente nel trattamento con betabloccante, è il
fenomeno del rebound da sospensione, ovvero la precipitazione di una risposta
adrenergica in caso di bruscasospensione. Il trattamento con betabloccante
induce infatti un aumento del betarecettori a livello cellulare ed una
improvvisa sospensione del farmaco smaschera questo ipertono adrenergico con
conseguente precipitazione di tachicardia, ipertensione, crisi anginose,
infarto. Il farmaco va quindi sempre sospeso gradualmente e il paziente va
avvisato degli eventuali pericoli di una auto-sospensione improvvisa della
terapia.
Per
il trattamento dell'angina stabile da sforzo vanno distinti gli effetti dei
calcioantagonisuinon dudropiridinici (verapamil, diltiazem, gallopamil) da
quelli dei diidropiridinici (nifedipina, nisoldipina, nicardipina, amlodipina,
nimodipina), per il meccanismo di azione completamente diverso e principalmente
imputabile alla selettività d'azione a livello cardiaco o periferico e alla
risposta secondaria di tipo riflesso del sistema neurovegetativo, fattori assai
importanti per rendere ragione di risultati clinici a volte contrastanti (tab.02
Calcioantagonisti
non-diidropiridinici. Appartengono a questo gruppo i derivati
fenil-alchilaminici (verapamil, gallopamil) e quelli benzatiazepinici (diltiazem).
Nei pazienti con ischemia da lavoro questi farmaci aumentano significativamente
la tolleranza allo sforzo, anche se non modificano significativamente la
pressione arteriosa e la frequenza cardiaca al culmine dello sforzo.
È quindi verosimile che l'effetto sia principalmente legato ad una
migliore perfusione, probabilmente per inibizione della vasocostrizione riflessa
in corrispondenza della lesione, secondaria all'aumento del flusso durante
lavoro. Un secondo effetto, descritto particolarmente per il diltiazem, è un
potenziamento del circolo collaterale. Gli studi che hanno valutato l'efficacia
di questi farmaci a confronto con i betabloccanti, trattamento tradizionale
dell'angina stabile, hanno dimostrato una analoga efficacia, anche se le dosi
devono essere alte. Questi calcicantagonisti possono quindi essere considerati
delle valide alternative al betabloccante nei pazienti con angina stabile,
soprattutto nelle forme di tipo misto.
Calcio
antagonisti di idropiridinici. I calcioantagonisti di tipo diidropiridinico, un
tempo rappresentati unicamente dalla nifedipina, stanno attualmente espandendosi
per la comparsa sul mercato di principi che presentano delle proprietà additive
estremamente interessanti, quali quella della selettività vascolare più
spiccata e della emivita prolungata. I risultati terapeutici di questi farmaci
nella angina da sforzo sono stati contrastanti. Si è infatti dimostrata una
risposta individuale al farmaco tale per cui alcuni pazienti ne hanno un grosso
beneficio, sia in termini di tolleranza allo sforzo che di riduzione degli
episodi totali di ischemia rilevati all'Holter, mentre altri non ne hanno alcun
beneficio o addirittura hanno un effetto sfavorevole. I motivi di questa diversa
risposta sono probabilmente da ricercare nell'importanza relativa della
componente vasospastica nella patogenesi della ischemia in ogni singolo caso. Se
si selezionano pazienti con angina da sforzo a soglia variabile o con
concomitanti episodi a riposo, si vede che il diidropiridinico riduce gli
episodi di ischemia nella vita quotidiana. Nei pazienti nei quali la ischemia è
puramente da discrepanza, l'aumento del consumo di ossigeno secondario alla
tachicardia riflessa è verosimilmente responsabile del mancato effetto clinico.
Se questo valga anche per le forme a lento rilascio, che non avendo dei picchi
plasmatici determinano una minore attivazione riflessa, non è ancora stato
valutato. Nei pazienti con angina da sforzo è comunque un buon principio
somministrare il diidropiridinico in associazione al betabloccante. Analogamente
ai nitroderivati non sono disponibili studi che abbiano valutato la efficacia
dei calcioantagonisti nel prevenire le complicanze e nel modificare la
mortalità nei pazienti con angina stabile. Un dato attualmente estremamente
stimolante è emerso da alcune esperienze cliniche che hanno dimostrato la
proprietà del calcioantagonista (nifedipina) di fare regredire o di contenere
l'evoluzione delle lesioni coronariche. Questi dati necessitano di ulteriori
conferme e sono in corso studi che valuteranno l'efficacia della nifedipina a
lento rilascio in questo particolare fenomeno.
Un
accenno merita l'associazione terapeutica calcioantagonista-calcioantagonista.
Quella più studiata è l'associazione nifedipina + diltiazem che si è
dimostrata sicuramente più efficace della monoterapia con i singoli principi,
anche se con un potenziamento degli effetti collaterali minori, quale l'edema
agli arti inferiori, probabilmente per un potenziamento dell'effetto della
nifedipina da inibizione del metabolismo epatico ad opera del diltiazem.
I
calcioantagonisti non presentano né il fenomeno della tolerance né quello del
rebound da sospensione e in questo senso sono più sicuri dei betabloccanti nei
pazienti che tendono ad autoridurre il farmaco o non sono affidabili circa la
regolarità della terapia.
La
dose e il numero di somministrazioni dipende dal tipo specifico di
calcioantagonista. L'adeguatezza della dose può essere stabilità valutando,
per quanto riguarda i calcioantagonisti non diidropiridinici, una riduzione
della frequenza cardiaca basale, mentre per i diidropiridinici è più empirica
ed essenzialmente corrisponde alla dose che dà un effetto clinico senza la
comparsa di effetti collaterali.
Le
basi razionali per l'impiego degli antipiastrinici nell'angina stabile si
fondano sull'ipotesi che le principali complicazioni, angina instabile, infarto
e morte improvvisa, sono legate ad un processo trombotico, parziale o totale,
nel quale le piastrine svolgerebbero un ruolo fondamentale. Una seconda ipotesi
è che la rottura di piccole placche darebbe luogo ad una parziale trombosi
murale con successiva organizzazione fibrotica del trombo, che contribuirebbe ad
una progressiva riduzione del lume del vaso e quindi alla progressione della
malattia coronarica. È ovvio
che la portata clinica di questa ipotesi sarebbe grandissima, in quanto implica
il fatto che una inibizione della trombosi con anticoagulanti o antipiastrinici
dovrebbe ridurre la evoluzione della malattia coronarica.Risultati preliminari
hanno dimostrato che i pazienti trattati con aspirina e dipiridamolo, ad un
follow-up clinico ed angiografico di 5 anni, presentano una minore incidenza di
nuove lesioni coronariche ed hanno meno infarti. Sulla base di questi dati e in
considerazione della patogenesi delle sindromi ischemiche acute, sembra
razionale l'impiego di aspirina alla dose di 165 o 325 mg/die.
Una
volta scelta, in base ai dati clinici e strumentali, la opportunità di una
terapia medica, un punto fondamentale per una corretta impostazione è la
valutazione dell'obiettivo terapeutico. Nella condizione ideale il paziente deve
essere caratterizzato, in assenza di terapia farmacologica, per quanto riguarda
la funzione contratole (ecocardiogramma o cineventricolografia con tecnezio), la
soglia di ischemia (prova da sforzo) e la presenza di episodi di ischemia
silente (Holter). Nei pazienti con prova da sforzo positiva ad alta soglia, la
opportunità di quest'ultima indagine può essere discussa in quanto raramente
presentano episodi di ischemia spontanea silente. Gli stessi test andranno
ripetuti dopo avere iniziato la terapia. L'end-point è ovviamente una
negativizzazione della prova da sforzo, l'abolizione degli episodi di ischemia
silente senza una riduzione della funzione contrattile, che potrebbe essere
indotta dai farmaci inotropi negativi impiegati. I test andranno ripetuti
regolarmente, inizialmente ogni 6-12 mesi e, comunque, ogni qualvolta il
paziente noti una modificazione della propria sintomatologia. Andranno avviati
alla corona-rografia i pazienti che presentino delle caratteristiche di alto
rischio (tab.03
Rientrano
in questa definizione tutti quei pazienti, con o senza fattori di rischio per
cardiopatia ischemica, che non presentino sintomi clinici di malattia
cardiovascolare, nei quali si sia riscontrato all'Holter o alla prova da sforzo
uno slivellamento asintomatico del tratto ST di tipo ischemico. Questa
condizione identifica un gruppo con un rischio di sviluppare eventi cardiaci
(angina, infarto, morte improvvisa), ad un successivo follow-up, da 2 a 7 volte
superiore rispetto alla popolazione normale. Questo dato è importante in quanto
la opportunità di un trattamento in questi pazienti è ancora molto dibattuta.
La patogenesi degli episodi ischemici silenti, in base ai dati disponibili,
sembra essere legata sia ad un aumento del consumo di ossigeno che ad una
riduzione primaria del flusso coronarico. Non è invece noto perché alcuni
episodi siano ischemici ed altri sintomatici: una spiegazione parziale può
essere una diversa percezione individuale del dolore ed una diversa gravità e
durata del tipo di episodi ischemici.
È discusso se, di fronte al riscontro di una ischemia silente, debba
essere iniziata una terapia antiischemica specifica in aggiunta alla ovvia
correzione dei fattori di rischio. A sfavore dell'inizio di una terapia, che
dovrà essere proseguita per tutta la vita, sta il fatto che è vero che questi
pazienti hanno un rischio più alto di sviluppare eventi, tuttavia la
maggioranza tende a sviluppare angina, ovvero la cardiopatia ischemica da
silente diventa sintomatica (quindi potrebbe essere trattata solo a questo
punto); in secondo luogo nessun farmaco ad oggi ha dimostrato di prevenire
l'infarto o la morte improvvisa, né l'evoluzione della malattia coronarica in
questi pazienti.
A
favore di un trattamento stanno i dati indiretti relativi all'importanza dell'ischemia
silente associata ad altre manifestazioni della cardiopatia ischemica (angina
instabile, infartomiocardico), ove assume un peso prognostico uguale a quello
della ischemia sintomatica (e pertanto viene trattata esattamente come
quest'ultima), e il fatto che il 20% degli infarti e il 25% delle morti
improvvise in pazienti coronaropatici si verifica in assenza di sintomatologia
anginosa. Un ulteriore peso a favore del trattamento è che la distribuzione
circadiana degli episodi ischemici silenti è simile a quella dell'infarto
miocardico e della morte improvvisa. Quello che non è chiaro è se questi
pattern che si sovrappongono riflettono in modo indipendente gli effetti dello
stesso processo fisiopatologico o se siano casualmente correlati, e questo rende
scettici sul fatto che l'eliminazione dei primi si rifletta in una riduzione dei
secondi.
In
considerazione di quanto sopra esposto, al momento non è possibile dare una
direttiva certa circa il trattamento dell'ischemia silente in assenza di altre
manifestazioni di malattia coronarica. Se l'ischemia si manifesta a basso carico
di lavoro o gli episodi rilevati all'Holter sono frequenti e prolungati, va
considerata come una condizione di rischio alla stessa stregua di una ischemia
sintomatica e quindi affronta con gli stessi criteri prima indicati. Se invece
si manifesta per carichi di lavoro alti e senza caratteristiche di rischio, la
decisione se iniziare o meno una terapia è individuale e deve tenere in
considerazione le caratteristiche del singolo paziente quali la presenza di
fattori di rischio associati e la loro correggibilità, il modello di vita del
paziente. Qualora si decida di intraprendere una terapia antiischemica, non vi
sono studi che indichino la opportunità di una particolare dasse di farmaci
antiischemici rispetto ad altri. L'impiego dei betabloccanti è stato suggerito
in quanto si sono dimostrati in grado di ridurre la morte improvvisa e il
reinfarto in altre manifestazioni della cardiopatia ischemica (e
specificatamente nel post-infarto). Tuttavia tali dati sono indiretti e,
soprattutto, questi farmaci presentano effetti collaterali spesso poco
accettabili da parte di un paziente asintomatico (impotenza, affaticabilità). I
nitroderivati e i calcioantagonisti, entrambi efficacia nell'abolire l'ischemia
silente, ciascuno con peculiari caratteristiche, non sono stati specificatamente
testati, soprattutto per quanto riguarda la capacità di prevenzione degli
eventi. Recenti trial hanno dimostrato che l'acido acetilsalicilico alle dosi di
325 mg/die, in una popolazione non selezionata, è in grado di esercitare una
valida profilassi primaria per gli eventi ischemici. In un altro studio, nel
quale il farmaco veniva somministrato a dosi più elevate, è stato parimenti
dimostrato un aumento del rischio di ictus emorragico, fatale e non fatale, nei
pazienti trattati. Dopo la pubblicazione di questi lavori sono emerse tutta una
serie di proposte quali l'opportunità di trattare vaste fasce di popolazione ai
fini di una profilassi primaria dell'ischemia. Attualmente sembra abbastanza
chiaro che il trattamento indiscriminato della popolazione non è indicato, ma
in fasce di rischio più elevato, come sono i pazienti con ischemia silente, è
verosimile che l'uso di basse dosi di ac. acetilsalicilico costituisca una
indicazione elettiva.
Il
paziente asintomatico con accertata ischemia silente va seguito con la
ripetizione del test da sforzo e dell'Holter a cadenza semestrale. Nel paziente
nel quale si sia deciso di intraprendere una terapia antiischemica specifica, l'endpoint
è quello di eliminare l'ischemia, sia essa all'Holter o alla prova da sforzo.
Nei casi nei quali si sia intrapresa solo una terapia antiaggregante, l'end-point
sarà quello di mantenere una stabilità della condizione. Un abbassamento della
soglia di ischemia o l'aumento del numero degli episodi ischemici all'Holter
possono essere spia di una evoluzione della malattia e costituire l'indicazione
ad intraprendere una terapia antiischemica attiva.
L'angina
instabile comprende una serie di entità cliniche eterogenee quali la angina di
recente insorgenza, l'angina ingravescente, le crisi ischemiche prolungate. Tra
le tante definizioni, la forma clinica cui faremo riferimento è quella
caratterizzata dalla presenza di episodi di ischemia miocardica acuta
transitoria a riposo o da sforzi fisici moderati, in un paziente che non aveva
mai precedentemente presentato sintomi anginosi (angina di recente insorgenza) o
che li presentava solo per sforzi intensi.
Ciò
che caratterizza da un punto patogenetico l'angina instabile è l'improvvisa e
drastica riduzione della riserva coronarica. Studi angiografici, angioscopici e
autoptici hanno suggerito come alla base della instabilità vi sia una ben
precisa caratteristica anatomica della placca aterosclerotica, che di per se
stessa può essere più o meno grave e non necessariamente è critica. La
caratteristica anatomica fondamentale è la rottura della placca, come ha ben
dimostrato Falk, sulla quale si ha una deposizione trombotica parziale. Questa
deposizione trombotica può in seguito diventare totale, con evoluzione verso
l'infarto, o essere inglobata e diventare nuovamente quiescente, con una
progressione della severità della stenosi stessa (fig.04
Per
quanto riguarda i dassici farmaci cardiovascolari (nitroderivati,
calcioantagonisti, betabloccanti) diciamo subito che se da una parte sono utili
nel controllare i sintomi non hanno dimostrato di ridurre l'incidenza di eventi
(tab.04
Gli
unici farmaci che hanno dimostrato di ridurre la mortalità e l'evoluzione verso
l'infarto sono gli antiaggreganti e l'eparina. L'efficacia dell'aspirina è
stata testata in grossi trial clinici prospettici, randomizzani, verso placebo,
in doppio cieco. Questi trial insieme hanno dato una chiara risposta sulla
efficacia della terapia antiaggregante a breve, medio e lungo termine a diversi
dosaggi. In aggiunta a questi studi lo studio Italiano sulla tidopidina ha
dimostrato una efficacia rispetto a placebo nel ridurre gli eventi.L'eparina in
infusione continua costituisce sino ad oggi l'unico farmaco che ha dimostrato di
ridurre oltre alla evoluzione verso l'infarto anche la refrattarietà
dell'angina.
I
determinanti prognostici fondamentali nella angina instabile, oltre alla
anatomia coronarica e alla funzione ventricolare sinistra, sono la persistenza
di ischemia, sintomatica o silente, nelle prime 48 ore di ricovero. La gestione
del paziente con angina instabile, proprio per la frequente e imprevedibile
evoluzione verso l'infarto, impone il ricovero in ambiente ospedaliero ove viene
effettuata una terapia infusionale con eparina e nitroderivati e l'eventuale
associazione di calcioantagonisti o betabloccanti. Tra i calcioantagonisti vanno
privilegiati quelli di tipo diltiazem o verapamil, in quanto i diidropiridinici
in monoterapia non hanno effetti favorevoli. Questi ultimi vanno invece
associati a pazienti in pretrattamento con betabloccanti.
La
coronarografia va fatta in tempi brevi. In presenza di una anatomia coronarica
favorevole, il paziente va sottoposto ad intervento di rivascolarizzazione,
tenendo tuttavia in conto che nella "fase calda" l'intervento di
rivascolarizzazione è gravato di una più alta incidenza di complicanze quali
infarto miocardico, sindrome da bassa portata, morte. Nei limiti del possibile
va quindi prediletta una strategia che comporti una stabilizzazione con terapia
medica per procrastinare dopo il mese l'intervento o la eventuale angioplastica.
Se il paziente ha sintomi persistenti, l'intervento andrà ovviamente
anticipato.
Per
quanto concerne la terapia in cronico del paziente nel quale i sintomi vengano
ben controllati dalla terapia medica e non sia indicato un intervento di
rivascolarizzazione, i principi attivi disponibili sono gli stessi dei quali si
è trattato precedentemente. L'impiego dei betabloccanti un tempo veniva
criticato perché si riteneva che la maggior parte degli episodi ischemici a
riposo fosse legato a vasospasmo e che questo potesse essere potenziato dal
betabloccante. In realtà la maggior componente "funzionale" è legata
ad una trombosi reversibile e d'altra parte si è dimostrato che i betabloccanti
riducono in modo importante il numero e la durata degli episodi ischemici, in
quanto inibiscono la tachicardizzazione riflessa e l'attivazione di quei
riflessi simpatici brevi che sostengono con un feed-back positivo l'attacco
ischemico. Inoltre il betabloccante, iniziato per via endovenosa e proseguito
per via orale, ha dimostrato di ridurre il rischio di evoluzione verso l'infarto
nei pazienti con crisi prolungate (minaccia di infarto). L'unico sottogruppo per
il quale l'indicazione va limitata è costituito dai pazienti con
sopraslivellamento del tratto ST durante angor, nei quali farmaco principe è il
calcioantagonista o il nitroderivato.
Per
quanto riguarda i calcioantagonisti, anche in questo caso esistono risultati
diversi tra i diidropiridinici e i non diidropiridinici. Il verapamil per via
orale ha rivelato una efficacia analoga al betabloccante nel ridurre gli episodi
sintomatici ed un migliore controllo degli episodi silenti. Il diltiazem ha
mostrato la stessa efficacia del betabloccante con un numero minore di effetti
collaterali. Per quanto riguarda la nifedipina, l'unico diidropiridinico testato
adeguatamente in questa patologia, l'efficacia dipende dalla terapia che il
paziente assumeva precedentemente.Nel paziente pretrattato con betabloccante, il
farmaco è estremamente efficace nel ridurre la ricorrenza dei sintomi, attenua
la necessità di ricorrere ad un intervento di rivascolarizzazione ed è molto
più efficace dell'associazione del nitroderivato o dell'aumento del
betabloccante stesso. Nei pazienti non previamente trattati con betabloccanti
invece, forse a causa dell'attivazione riflessa del sistema simpanico, la
nifedipina sembra avere un effetto controproducente e pertanto non è indicata.
Nel
trattamento a lungo termine è fondamentale l'impiego di antiaggreganti quali
aspirina alle dosi di 325 mg o, nei pazienti che presentino controindicazioni,
tidopidina. La terapia antiaggregante ha dimostrato una efficacia a breve, medio
e lungo termine e pertanto rappresenta il trattamento principe nella angina
instabile.
In
questa forma la patogenesi dell'attacco ischemico è legata allo spasmo di un
vaso coronarico con conseguente brusca alterazione del flusso. In alcuni rari
casi lo spasmo avviene su coronarie angiograficamente normali, ma nella
maggioranza dei pazienti è presente una lesione più o meno critica. L'episodio
ischemico può essere complicato da infarto miocardico, aritmie ventricolari o
da morte improvvisa. Questa grave complicanza si verifica soprattutto quando lo
spasmo avviene su una lesione organica severa.
Vista
la patogenesi, i farmaci più razionalmente impiegati in questa forma sono i
calcioantagonisti e i nitroderivati. Vari studi clinici hanno dimostrato
l'efficacia di nifedipina, verapamil e diltiazem nel trattamento degli attacchi
ischemici in pazienti con angina variante, senza differenza significativa tra i
diversi farmaci. Accanto alla efficacia clinica è stato anche dimostrato un
miglioramento prognostico nei pazienti trattati con calcioantagonisti.
L'imprevedibilità
della evoluzione naturale della malattia, caratterizzata da periodi di
remissione e di riacutizzazione, rende difficile dare indicazioni generali sulla
durata del trattamento e soprattutto sul giudizio clinico circa la sua
efficacia. È stata
evidenziata recentemente una precisa correlazione tra risposta alla terapia
medica e risposta ai test provocativi di vasospasmo (ergonovina e
iperventilazione): una buona percentuale di pazienti, soprattutto quelli con una
risposta iniziale favorevole al trattamento, va infatti incontro a remissione
spontanea, dimostrata all'elettrocardiogramma dinamico, degli episodi ischemici
e alla negativazione dei test provocativi. Anche in questo caso, i nuovi
calcioantagonisti più selettivi e con maggiore emivita, tale da consentire la
monosomministrazione, costituiscono un vantaggio per la compliance del paziente.
Le dosi di farmaci necessarie per ottenere il raffreddamento spesso sono
decisamente elevate in "fase calda" (nifedipina 360 mg/die, diltiazem
360 mg/die, verapamil 480 mg/die), ma poi possono essere ridotte. L'end-point
terapeutico è costituito dalla negativizzazione dei test provocativi e
dall'abolizione degli episodi all'elettrocardiogramma dinamico. Un test
provocativo non invasivo estremamente sensibile, soprattutto nella fase calda
della malattia, è costituito dal test all'iperventilazione che può essere poi
facilmente ripetuto al follow-up.
La
durata della terapia nei soggetti che abbiano risposto in modo favorevole è
discussa, soprattutto nei pazienti con coronarie normali o lesioni non
significative.
Rientrano
in questa entità clinica quelle forme di insufficienza ventricolare sinistra la
cui patogenesi è di origine ischemica, che possono costituire la prima
manifestazione di malattia coronarica o essere il risultato di una lunga storia
clinica caratterizzata da infarti ripetuti, aneurisma ventricolare sinistro
postinfartuale, esiti di bypass aorto-coronarico con degenerazione dei graft.
Attualmente
la causa più frequente di scompenso è costituito dalla cardiopatia ischemica
(70-80%), seguita dalla cardiomiopatia dilatativa e quindi dalle più rare forme
di origine valvolare postraumatica e degenerativa o congenite.La gestione
terapeutica dei pazienti ischemici presenta alcune peculiarità rispetto alla
gestione del comune scompenso. In primo luogo, va ricordato che in alcuni
pazienti esistono delle forme reversibili che è importante individuare per
avviare il paziente alla correzione chirurgica. Le cause di scompenso nel
paziente con cardiopatia ischemica sono riportate in tab.05 È
stato infatti dimostrato che, in caso di ischemia residua, l'intervento di
rivascolarizzazione migliora la prognosi nei pazienti con frazione di eiezione
moderatamente depressa (35-49%). Se il paziente si colloca in tale sottogruppo
dovrebbe essere avviato ad un programma di rivascolarizzazione. Nei pazienti che
presentano una funzione più severamente compromessa (frazione di eiezione
<35 % ) il bypass aorto-coronarico è proponibile qualora vi sia
dimostrazione di un'ampia zona ischemica ipocinetica o acinetica, ma
metabolicamente vitale.
Nel
20% dei pazienti con cardiopatia ischemica e scompenso le cause
dell'insufficienza ventricolare sinistra sono legate a complicanze
postinfartuali.Nei pazienti con aneurisma ventricolare sinistro la possibilità
di un intervento di resezione è legata alla presenza di una buona
contrattilità dei segmenti residui, che deve essere quindi indagata attraverso
lo studio della cinesi regionale con ecocardiografia o cineventricolografia
radioisotopica. Le altre due cause (insufficienza mitralica da disfunzione del
papillare o rottura di corde e difetto interventricolare) generalmente si
manifestano nella fase acuta dell'infarto, ma vanno comunque ricordate
soprattutto nel paziente nel quale vi siano episodi parossistici di scompenso.
Il 60% dei soggetti con disfunzione del papillare posteromediale va incontro a
cronicizzazione con episodi parossistici di edema polmonare. Il riscontro di una
insufficienza mitralica severa in un paziente con un recente infarto e segni di
insufficienza ventricolare sinistra deve fare avviare un procedimento
diagnostico (Eco-Doppler, coronarografia) volto ad un intervento di correzione
del difetto valvolare ed eventuale intervento associato di rivascolarizzazione.
Un
altro gruppo di pazienti con insufficienza ventricolare sinistra, che si candida
per una correzione chirurgica, è quello con disfunzione acuta parossistica
(edema polmonare acuto) e normale funzione ventricolare sinistra. In questi
pazienti il deficit è parossistico, non vi è una storia di pregressi infarti e
comunque la frazione di eiezione al di fuori dell'attacco acuto non è tale da
giustificare lo scompenso. Il meccanismo della insufficienza ventricolare è
legato ad una ischemia, spesso del tutto asintomatica, che determina una
alterazione importante sia della diastok che della sistole. Un paziente di
questo tipo deve essere avviato a coronarografia in quanto è stato dimostrato
che questo quadro clinico si associa in un'alta percentuale di casi a
coronaropatia severa dei tre vasi.
Nei
pazienti che non sono passibili di intervento la terapia medica presenta alcune
peculiarità. La terapia classica dello scompenso prevede quali farmaci di prima
scelta gli ACE-inibitori, in quanto studi su popolazioni non selezionate per il
tipo di cardiopatia hanno dimostrato una migliore sopravvivenza. Nei pazienti
con cardiomiopatia ischemica l'impiego di questi farmaci ha alcuni elementi a
favore ed altri a sfavore.A favore, specialmente nei pazienti con esiti di
infarto miocardico o aneurisma ventricolare sinistro, sono i dati sperimentali
che hanno dimostrato la capacità di questi farmaci di evitare la deformazione
della cavità cardiaca nel periodo postinfartuale, secondaria alla presenza di
zone acinetiche o, addirittura, discinetiche, ed avere quindi un effetto
"modellante" favorevole sia a breve che a lungo termine.
È ipotizzabile che l'instabilità elettrica responsabile di aritmie
maligne e della morte improvvisa, possa originare dalla tensione esistente nel
passaggio tra zone acinetiche e normocinetiche. Una riduzione di queste tensioni
meccaniche dovrebbe essere favorevole, quindi, anche in termini prognostici. A
questo proposito è in corso lo studio GISSI 3 che valuterà l'effetto immediato
e a lungo termine di tale approccio terapeutico. Un effetto sfavorevole potrebbe
essere legato alla importante azione ipotensiva di questi farmaci che può
portare ad una riduzione della pressione di perfusione coronarica, elemento
fondamentale per avere un flusso adeguato soprattutto in presenza di lesioni
coronariche critiche.Questo è tanto più problematico in quanto spesso questi
pazienti sono in terapia con nitroderivati che potenziano l'effetto ipotensivo
degli ACE-inibitori e che non sono tollerati in associazione. Può quindi
presentarsi il dilemma se sospendere il nitrato, che costituisce una classica
terapia della ischemia miocardica, a favore dell'ACEinibitore, la cui efficacia
nel paziente ischemico è ancora sub-judice. In realtà vi sono segnalazioni
circa il peggioramento dei sintomi anginosi in pazienti con miocardiopatia
ischemica trattati con ACE-inibitori. Al momento sembra ragionevole tuttavia
consigliare l'impiego di tali farmaci eventualmente partendo da basse dosi.
I
nitroderivati costituiscono anche in questi pazienti una terapia classica. Per
quanto concerne la finestra terapeutica, al fine di prevenire la tolerance, può
essere adottato un criterio diverso rispetto a quello impiegato nel paziente con
angina da sforzo che conduce una vita attiva durante il giorno. Infatti questi
pazienti, proprio per la sintomatologia clinica, spesso conducono una vita di
risparmio durante la giornata. Il clinostanismo, durante la notte, porta ad un
aumento della volemia e del precarico, per ritorno del liquido dello spazio
extravascolare a quello intravascolare. Questo aumento del precarico può essere
sufficiente a precipitare sia lo scompenso sia l'angina. Può quindi essere più
conveniente una copertura terapeutica con nitroderivato limitatamente al periodo
notturno, lasciando per il giorno, eventualmente, l'ACE-inibitore. L'ACE-inibitore
in associazione al nitroderivato sembra essere in grado di attenuare il fenomeno
della tolerance soprattutto agli effetti emodinamici, ma la rilevanza clinica di
questo fenomeno è ancora da confermare.
L'impiego
dei calcioantagonisti in questi pazienti può costituire un problema.Quelli di
tipo diidropiridinico sono infatti dotati di un'azione inotropa negativa
diretta, generalmente controbilanciata dalla risposta simpatica secondaria che
porta ad un aumento della contrattilità. In pazienti che tuttavia spesso
presentano un'attivazione cronica del sistema simpatico basale, tale da avere
una deplezione dei depositi catecolaminici, l'azione diretta di tali farmaci
può non essere più controbilanciata e provocare un ulteriore peggioramento
della funzione contrattile. I nuovi calcioantagonisti, come la nisoldipina, con
azione più selettiva e forse privi di una azione inotropa diretta, dovranno
sicuramente essere valutati in questo contesto. Il diltiazem, che ha una azione
inotropa negativa meno potente, sembra essere un farmaco utile, a basse dosi, ed
è in via di valutazione.
I
betabloccanti sono attualmente impiegati in alcuni sottogruppi di pazienti con
cardiomiopatia, in quanto hanno dimostrato di migliorare sia la prognosi che i
parametri emodinamici, soprattutto in pazienti con una eccessiva elevazione
della risposta adrenergica basale. È
verosimile che i pazienti con miocardiopatia su base ischemica siano un
sottogruppo nel quale questi farmaci possono essere particolarmente favorevoli,
ma il loro uso va riservato ad un ambito strettamente specialistico per i
pesanti effetti collaterali che potrebbero comparire in questi pazienti.
Ultimi
punti importanti da analizzare sono relativi all'impiego della digitale, degli
anticoagulanti e della terapia antiaritmica.
È stato dimostrato che la digitale peggiora la prognosi nei pazienti con
infarto miocardico acuto e da qui è stata tratta una generica controindicazione
all'uso della digitale in pazienti con cardiopatia ischemica. Va tuttavia
ricordato che tale risultato è emerso limitatamente ai pazienti con infarto
miocardico acuto. È
verosimile che, nei pazienti con scompenso cronico su base ischemica, che
presentano nella stragrande maggioranza aumento dei volumi ventricolari e
tachicardia sinusale, la riduzione della frequenza cardiaca e dei volumi operata
dalla digitale possa essere comunque favorevole ai fini di una riduzione del
consumo di ossigeno, che costituisce nel paziente ischemico uno dei fattori
fondamentali. In questo contesto quindi il farmaco può essere impiegato,
ponendo sempre attenzione al rischio di aritmie ventricolari.
Per
quanto riguarda gli anticoagulanti, si è visto che questi pazienti hanno il
medesimo rischio embolico di quelli con cardiomiopatia dilatativa (6% anno) e vi
sarebbe quindi il suggerimento a iniziare tale trattamento, mantenendo
eventualmente i livelli di INR intorno ai 2,5. È incerto l'effetto protettivo degli antiaggreganti.
La
terapia antiaritmica in questi pazienti costituisce un grosso problema. Infatti,
da una parte, vi è un'alta incidenza di aritmie ventricolari anche maggiori
all'elettrocardiogramma dinamico, dall'altra si è visto che l'impiego di
farmaci antiaritmici non previene la morte improvvisa, ma nei pazienti ischemici
può addirittura peggiorarla.Se le aritmie sono sintomatiche vanno trattate
mentre quelle asintomatiche non hanno una indicazione alla terapia antiaritmica
profilattica. Tra i farmaci antiaritmici sono di scelta quelli con scarso
effetto inotropo negativo come la mexilenna, la procainamide o l'amiodarone.
Il
fine della terapia nel paziente con miocardiopatia ischemica è il miglioramento
dei sintomi dello scompenso e della angina e la profilassi della morte
improvvisa.
Per
quanto riguarda il primo punto, spesso la terapia, per lo più di associazione,
richiede una fine individualizzazione con impiego dei farmaci a dosi
inizialmente basse in quanto, proprio per le condizioni precarie, in questi
pazienti il profilo terapeutico di qualsiasi farmaco è comunque ridotto. Un
ulteriore elemento da considerare è che diventa fondamentale una ottimizzazione
di tutti quei parametri che determinano il rapporto apporto/consumo di
ossigeno.Va quindi attentamente corretta la presenza di eventuali anemie per
migliorare la capacità ossiforica del sangue, vanno impiegati diuretici per
ridurre il precarico e vanno mantenuti adeguati livelli di albuminemia e di
natriemia per garantire una normale capacità oncotica del sangue, soprattutto
in considerazione che le condizioni di malassorbimento secondarie alla bassa
portata cronica e le terapie tendono a squilibrare facilmente questi parametri.
La frequenza cardiaca, tendenzialmente elevata, va ottimizzata intorno agli
80-85 battiti/min, in modo da avere un adeguato tempo di diastole durante il
quale avviene la perfusione coronarica.
Per
quanto concerne il miglioramento della sopravvivenza, non esistono sino ad oggi
studi che abbiano dimostrato una efficacia di alcun farmaco in questo specifico
sottogruppo. Di fatto, mutuando risultati su popolazioni non selezionate con
scompenso (dove tuttavia la maggior parte dei pazienti era portatore di
cardiopatia ischemica), gli unici farmaci che hanno dimostrato una efficacia
sono gli ACE-inibitori e, in misura minore, l'associazione idralazina + nitrati.
Poiché quest'ultima associazione in genere induce una tachicardia che può
peggiorare la sintomatologia anginosa, l'unico farmaco che si candida per una
terapia cronica è l'ACE-inibitore.
Chierchia
S., Brunelli C., Simonetti I. e Coll.: Sequence of events in angina at rest:
primary reduction in coronary blood flow. Circulation, 61 (4):
759-68, 1980.
Deedwania
P., Carbajala E., Nelson J. e Coll.: Silent ischemia is an independent
predictor of survival in stable angina. J. Am. Coll., Cardiol, 13
(2): 3A, 1989.
DeMots
H., Glasser S.P. and the Transderm-Nitro trial Study group: Intermittent
transdermal nitroglycerin theraphy in the treatment of chronic stanle angina.
J. Am. Coll. cardiol., 13:786-93, 1989.
Fox
K.M., Mulchay D.A.: Therapeutic rationale for the management of silent
ischemia. Circulation,
82 II: II-155-160, 1990.
Franciosa
J.A., Nordstrom L.A., Cohn J.N. e Coll.: Nitrae theraphy for congestive heart
failure. JAMA, 240:443-447, 1978.
Fuster
V., Chesebro J.H.: Mechanisms of unstable angina. N. Engl. J. Med., 315
(16): 1023-5, 1986.
Gage
J.E:, Hess O.M., Murakami T. e Coll.: Vasoconstriction of stenotic arteries
during dynamic exercise in patients with classic angina pectoris: reversibility
by nitroglycerin. Circulation, 73: 865-76, 1986.
Glazier
J.J., Chierchia S., Brows M.J. e Coll.: Importance of generalized defective
perception of painful stimuli as a cause of silent ischemia in chronic stable
angina pectoris. Am. J. Cardiol., 1 (3): 940-5, 1986.
Gottlieb
S.O., Weisfeld M.L., Ouyang P. e Coll.: Silent ischemia as a marker for
unfavourable prognosis in patients with unstable angina. N. Engl. J. Med., 314
(19): 1214-9, 1986.
Helfant
R.H.: Stable angina pectoris:
risk stratifications and therapeutic options. Circulation, 82: II 66-II 70, 1990.
Lubsen
J.: Medical management of unstable angina. What have we learned from the
randomized trials. Circulation, (82 –II: II 82-II 87), 1990.
Makhoul
N., Dakak N., Flugeman N.J. e Coll.: Nitrate tolerance in heart failure:
differential venous, pulmonary and systematic effects. Am J. Cardiol., 65:28
J., 1990.
Maseri
A.: Pathogenetic mechanisms of angina pectoris: expanding views. Br.
Heart. J., 43 (6): 648-60, 1980.
McGregor
M.: Pathogenesis of angina pectoris and role of nitrates in relief of
myocardial ischemia. Am.
J. Med., 74 (6b): 21-27, 1983.
Quyyumi
A.A., Crake T., Wright C.M. e Coll.: Medical treatment of patients with
severe exertional and rest angina: double blind comparsion of hetabloker,
calcium antagonist, and nitrate. Br. Heart J., 57 (6): 505-11, 1987.
P.A.
Merlini
Assistente
Dipartimento Cardiologico De Gasperis,
Ospedale
Niguarda – Ca’Granda, Milano
F.
Rovelli
Primario
Emerito di Cardiologia,
Ospedale
Niguarda - Ca’ Granda, Milano
TORNA ALL'INDICE TORNA ALL' HOME PAGE
Vedi anche le sezioni storiche del sito:
La Grande Crociata
Il sacrificio di milioni di esseri umani per riscattare la barbarie nazista
Immagini che hanno fatto la storia di questo secolo che sta finendo.
Collana monografica: Annali dell’Africa Orientale Italiana