HOME PAGE CARLOANIBALDI.COM HOME PAGE ANIBALDI.IT
ARGOMENTI DI MEDICINA CLINICA
Ultimo aggiornamento: 23.12.2013
mail to
Webmaster Per
tale definizione la cirrosi si distingue da altre condizioni quali la
nodularità focale del fegato (iperplasia nodulare focale), dalla trasformazione
nodulare diffusa senza fibrosi (iperplasia rigenerativa nodulare), dalla fibrosi
senza nodularità (ad esempio nella schistosomiasi). Il
processo cirrotico rappresenta l'ultimo stadio nell'evoluzione cronica di
molteplici malattie epatiche. Le cause più frequenti sono riassunte nella tab.01 La
patogenesi è legata a momenti necrotico-infiammatori, degenerativi, fibrotici,
rigenerativi variamente intrecciati e singolarmente prevalenti nelle varie
eziologie che finiscono comunque per sovvertire l'architettura vascolare
dell'acino di Rappaport. Il
vecchio concetto anatomo-patologico di cirrosi post-necrotica è errato.
Implicherebbe un danno cronico rigenerativo-fibroso che si perpetua
autonomamente dopo una necrosi epatica massiva, quand'anche sia cessato l'evento
che ha causato la necrosi stessa; è dubbio che ciò accada in realtà, dal
momento che di regola anche l'epatite massiva e fulminante (che sopravvive
all'insulto immediato) guarisce se viene eliminato il momento patogeno. Da
rilevare che la classificazione istologica in epatite cronica persistente,
epatite cronica lobulare ed epatite cronica attiva non assume un significato
prognostico preciso nei confronti del rischio cirrotico; mentre tradizionalmente
l'epatite cronica attiva è considerata una malattia evolutiva e l'epatite
cronica persistente è considerata una malattia benigna studi recenti indicano
che anche quest'ultima, se di natura virale, mantiene un potenziale evolutivo,
sebbene la progressione verso la cirrosi avvenga in tempi più lunghi che nelle
forme attive. L'espressione
clinica della cirrosi è svariata. Nel
singolo caso è determinata dalla presenza in diversa combinazione delle
numerose alterazioni funzionali, emocoagulative e circolatorie causate dal
processo cirrotico ma due eventi assumono maggior rilievo, l'insufficienza
epatocellulare e l'ipertensione portale. La loro entità può essere così lieve
da non causare disturbi soggettivi, oggettivi e funzionali (cirrosi latente od
asintomatica) o così elevata da permettere la diagnosi a prima vista: è ben
noto il prototipo del paziente terminale, caratterizzato da denutrizione ed
ipotrofia muscolare, addome batraciano, cute scura e itterica, foetor epatico,
sensorio torpido. In
pazienti asintomatici la cirrosi può essere rivelata da una manifestazione
clinica apparentemente insignificante, oppure da un'alterazione biochimica o da
una anomalia alla diagnostica epatica per immagine nel corso di una visita
medica occasionale, di un check-up o di un intervento chirurgico condotto per
altre cause. Segni
clinici d'allarme sono i modesti edemi agli arti inferiori, l'eritema palmare,
la pigmentazione bruna delle gambe (usualmente attribuita a varici), i nevi
"a ragno", la ginecomastia, l'ipertrofia parotidea, la pigmentazione
palmare e della linea alba, un fugace subittero, una epistassi inspiegata, una
metrorragia o una amenorrea senza cause ginecologiche, la perdita della libido
nell'uomo, una dispopsia flatulente, una nausea mattutina (frequente nei
cirrotici etilisti), una epatomegalia di consistenza dura o una splenomegalia di
imprecisata eziologia. Campanelli
bioumorali di allarme sono una alterazione delle aminotransferasi, delle
gammaglutamiltransferasi, della fosfatasi alcalina, un aumento della frazione
gammaglobulinica delle proteine plasmatiche, una piastrinopenia non giustificata
da una malattia ematologica primitiva, la positività per un marcatore virale. Sintomi
di cirrosi non complicata che portano talora il paziente a cercare aiuto medico
sono l'astenia e la febbricola. Spesso l'esordio clinico coincide con una
complicazione. Un
vago senso di peso al fianco destro è comune nel cirrotico ed è probabilmente
legato alla tensione della capsula di un fegato ipertrofico, alla presenza di
necrosi o di nodi rigeneranti subcapsulari, talora alla distensione colecistica
(ben evidente in laparoscopia). L'ascite in tensione può essere causa di dolore
addominale diffuso. Dolori
alle logge renali sono frequenti in occasione di diuresi terapeutiche di
eccessiva entità (distensione delle capsule renali?). Un vivace dolore in sede
epatica è spesso indice della trasformazione neoplastica di un nodo rigenerante
(nel qual caso è talora possibile l'ascoltazione di un soffio all'ipocondrio
destro), di una calcolosi biliare concomitante o di una necrosi acuta espressa
clinicamente da un episodio di ittero-ascite con aumento delle aminotransferasi
e peggioramento degli indici di funzionalità epatica. Talora il cirrotico
lamenta dolori epigastrici di tipo pseudoulceroso che recedono con dieta e
terapia specifica, legati a duodenite con gastrite ipersecretiva, a gastrite
emorragica o a vere ulcere peptiche. Il
dolore all'ipocondrio sinistro è raro; la splenomegalia è di regola indolente
se non complicata da infarto splenico. La ragione di un dolore ipocondriaco
sinistro irradiato al dorso è talora da ascrivere a una pancreatite cronica
(frequentemente associata alla cirrosi alcolica). Oltre
alle manifestazioni circolatorie secondarie all'ipertensione portale, vi possono
essere nel cirrotico una certa atrofia dei villi intestinali cui conseguono
segni di malassorbimento, perdita proteica fecale ed aumento delle IgA
circolanti. All'ipoalbuminemia
contribuisce la perdita albuminica fecale insieme alla diminuzione della sintesi
proteica ed alla dispersione nell'aumentato pool liquido interstiziale. Nel
cirrotico è anche frequente una sindrome da colonizzazione batterica del tenue
con deconiugazione dei sali biliari e diarrea irritativa. La steatorrea è
generalmente secondaria alla fibrosi alcolica; essa è però anche causata dalla
ridotta secrezione biliare e dalla diversa composizione della bile stessa. Le
ernie dei visceri addominali sono assai frequenti. Non devono venire riparate se
non nella certezza di un totale e duraturo compenso dell'ascite, a scanso di
gravi esiti post-operatori (sventramento, suppurazione, necrosi della parete
addominale). L'ateromasia,
l'aterosclerosi e l'infarto miocardico sono nettamente meno frequenti nel
cirrotico rispetto alla popolazione sana. La
bassa capacità di saturazione dell'emoglobina di molti pazienti cirrotici è
attribuibile alla presenza di shunts intrapolmonari. La
presenza di shunt extrapolmonari tra cuore destro e sinistro è stata
prospettata da vari Autori ma non rivestirebbe un ruolo fondamentale nella
desaturazione. Nel
cirrotico avanzato è spesso presente endotossinemia. Mentre le endotossine
batteriche di derivazione intestinale sono normalmente filtrate dal fegato sano,
nel cirrotico i lipopolisaccaridi pirogeni, non più depurati dal sistema
reticolo-endoteliale epatico numericamente e funzionalmente depresso, guadagnano
accesso alla circolazione generale attraverso gli shunts portosistemici. I
pazienti sono febbrili, senza un andamento particolare della curva termica. L'emocultura
risulta negativa, l'uso protratto di antibiotici per via parenterale inefficace. In
queste forme può essere utile l'uso della norfloxacina o rifaximina che
sterilizzano il lume intestinale o della colestiramina che lega le endotossine. Una
volta sospettata la cirrosi, la diagnosi è solitamente facile e si basa su una
accurata ricerca anamnestica, sull'esame obiettivo, laboratoristico e
strumentale. Gli
elementi principali da ricercare nell'anamnesi e nell'esame obbiettivo sono
riassunti nella tab.02 La
tappa successiva è un gruppo di esami indispensabili e sufficienti al primo
approccio diagnostico (tab.03 Il
primo gruppo di esami, oltre che svelare una eventuale insufficienza renale, una
iperglicemia o una anemia, consente di valutare l'entità della necrosi
epatocitaria (aminotransferasi), della colestasi (bilirubinemia, gammaglutamil
transpeptidasi, fosfatasi alcalina), delle capacità sintetiche (albuminemia,
colesterolemia, tempo di protrombina), del danno coagulativo (tempo di
protrombina, tempo di trombina), dell'attività del processo infiammatorio (aminotransferasi,
iperglobulinemia). Il
secondo gruppo di esami consente di accertare in modo non invasivo le più
comuni cause della cirrosi, quali l'epatite virale (presenza di un marcatore
virale), la forma autoimmune (presenza di autoanticorpi), l'emocromatosi
(aumento della ferritinemia, sideremia, aumentata percentuale di saturazione
della transferrina) ecc. Altre
eziologie possono essere evidenti dall'anamnesi (alcolismo) o richiedere esami
strumentali, quali la colangiografia retrograda per dimostrare lesioni biliari
primitive (colangite sclerosante) o il cateterismo delle vene sovraepatiche
(sindrome di Budd-Chiari), oppure la biopsia epatica (tesaurismosi). Da
rilevare che l'insieme dei dati bioumorali e clinici e la diagnostica per
immagini, (ecografia e tomografia assiale computerizzata) hanno reso in molti
casi superflua la biopsia epatica, in quanto la diagnosi di cirrosi è
ragionevolmente formulabile sulla base dei soli dati non invasivi. Nelle forme
cirratiche, inoltre, la biopsia è spesso controindicata da deficit della
coagulazione e risente sovente di un difetto di campionatura dovuto alla
disomogeneità del substrato ed alla irregolare distribuzione delle lesioni. La
biopsia tuttavia è imperativa quando la presenza di cirrosi è incerta. Può
essere utile ai fini terapeutici quando si sospetti che il processo eziologico
sia ancora attivo; la dimostrazione ad esempio di necroinfiammazione in un
soggetto con cirrosi virale compensata può indurre a trattare il paziente con
interferone per ridurre la flogosi. La disponibilità di un frammento epatico
permette inoltre di determinare la presenza di antigeni virali intraepatici e di
dimostrare accumuli di ferro e di rame (nell'emocromatosi e nel morbo di Wilson)
o di alfa-1-antitripsina. La
biopsia si rende, inoltre, spesso necessaria per confermare una eziologia
biliare della cirrosi. Seppure
la laparoscopia permetta la diagnosi definitiva di cirrosi, il suo uso è
divenuto superfluo con la disponibilità delle nuove tecniche di imaging.
L'esame può venir condotto anche con una attività protrombinica bassa (<
del 50%) e permette la visione diretta e la valutazione globale dell'entità e
del tipo del processo cirrotico; dimostrando la nodularità della superficie
epatica, garantisce la diagnosi differenziale con l'epatite cronica attiva (ECA),
diagnosi spesso non facile in biopsia epatica. Molto spesso usata in passato
nelle diagnosi delle neoplasie epatiche, la laparoscopia è stata sostituita
dall'esame ecografico e TAC che si sono rivelati sensibilissimi nel depistaggio
delle lesioni epatiche occupanti spazio; rimane soprattutto utile nella
diagnostica differenziale di asciti di dubbia natura così come nella
esplorazione del peritoneo. La
gastroscopia è l'indagine più semplice, immediata ed efficace per
l'accertamento della presenza e dell'entità delle varici esofagee. Non può
essere trascurata in presenza di ematemesi o melena, poiché solo la visione
diretta della fonte di sanguinamento consente la diagnosi della sua causa; nel
cirrotico con varici esofagee infatti, il 50% delle emorragie digestive alte non
sono dovute a varici sanguinanti ma a gastrite od ulcera peptica. L'endoscopia
s'impone con urgenza soprattutto nelle ematemesi o melene massive con pericolo
immediato di vita e qualora il primo segno che porta all'osservazione medica sia
il sanguinamento; consente ad un tempo la diagnosi di sede dell'emorragia il
sospetto di cirrosi, e l'eventuale sclerosi delle varici. Gli
studi scintigrafici sono caduti in disuso con l'affermarsi dell'ecografia e
della TAC. La prima è di pratica esecuzione, relativamente poco costosa,
squisitamente sensibile ad alterazioni focali nell'ambito del parenchima
epatico; nella variante doppler permette una adeguata visualizzazione della
circolazione arteriosa e venosa epatica. La seconda è costosa ma fornisce
documentazione dettagliata del volume e dei margini del fegato, nonché, dopo
contrasto, documentazione sulla circolazione venosa portale, intraepatica e
sovraepatica. Non
esiste alcuna terapia specifica per prevenire o rallentare lo sviluppo della
cirrosi, se non la ricerca dell'eziologia e l'allontanamento della noxa
patogena. L'uso della colchicina, non ha trovato seguito; non è stata
dimostrata infatti l'azione "anticirrotica" di questo farmaco.
È possibile solo una terapia "sintomatica" della cirrosi. Non
ne necessita, ovviamente, la cirrosi asintomatica. La
terapia sintomatica è in genere la terapia di una complicazione (vedi paragrafi
successivi). Sostanzialmente
inutili i farmaci cosiddetti epatotropio prometabolici. Non più usati gli
ormoni anabolizzanti. Importante il follow-up periodico (ogni 6 mesi) che
comprenda l'ecografia e la misura dell'alfa-fetoproteina nel siero per
identificare quanto più precocemente possibile un viraggio discariocinetico. Le
prospettive terapeutiche della cirrosi sintomatica e di quella terminale e la
gestione di tali malati è negli ultimi anni radicalmente cambiata in seguito
all'avvento del trapianto epatico come atto terapeutico valido e di routine. La
disponibilità del trapianto ha reso obsolete numerose manovre, soprattutto
chirurgiche, in uso nell'epoca pre-trapianto e destinate a risolvere o palliare
complicazioni gravi della malattia. L'indicazione all'intervento non conosce
più limiti eziologici (tranne forse che nelle forme virali tipo B ad alto
rischio di reinfezione del fegato trapiantato) mentre dipende da un insieme di
elementi clinici tesi ad appurare le possibilità e la qualità della
sopravvivenza contro un rischio operatorio valutabile a circa il 25-30% di
mortalità (a due mesi dall'intervento). Nel
modo più ottimale, l'indicazione al trapianto va posta quando la situazione
epatica e generale comincia a precipitare ma prima che sia precipitata a tal
punto da rendere proibitivo il rischio operatorio. Nel
porre l'indicazione al trapianto vanno valutati una serie di parametri che
corrispondono sostanzialmente ai criteri di prognosi dell'epatopatia cirrotica,
raggruppati nella classificazione di Child e Turcotte (tab.05 1)l'eziologia.
Le forme alcoliche, dopo sospensione totale dell'alcool hanno prognosi migliore
di tutte le altre; 2)l'aspetto
istologico. Le forme con steatosi, le epatopatie croniche sclerosanti con noduli
rigeneranti, le forme cicatriziali post-necrotiche con scarsi elementi
infiammatori o pochi pseudotubuli rigeneranti hanno prognosi migliori delle
forme con ricca infiltrazione parvicellulare nel connettivo, con molti
pseudotubili rigeneranti e spiccate "piecemeal necrosis"; 3)i
test biochimici. Un tasso di attività protrombinica persistentemente diminuito
malgrado vitamina K, una albuminemia inferiore ai 2,5 mg/dl, una
pseudocolinesterasi bassa, l'iperbilirubinemia protratta, l'iposodemia non
attribuibile ai diuretici sono segni prognostici infausti; di contro sono di
valore prognostico limitato i test di funzionalità quantitativa, quali il test
all'aminopirina ed all'antipirina; 4)i
segni clinici. L'ittero colestatico ingravescente, i nevi "a ragno"
numerosi, diffusi e rilevati, l'ascite intrattabile, i ripetuti episodi di
encefalopatia, le emorragie digestive da ipertensione portale, le ecchimosi
superficiali, il decadimento delle condizioni nutrizionali con consumo
muscolare, soprattutto del cingolo scapolo-omerale e dei bicipiti sono segni
prognostici infausti. Si
intende per ascite l'accumulo di fluido libero nella cavità peritoneale.
L'ascite è la più frequente complicazione della cirrosi epatica e la cirrosi
rappresenta la causa più frequente di ascite. Tradizionalmente
l'ascite del cirrotico è limpida, con le caratteristiche del trasudato (poche
cellule, <2,5 g/dl di proteine). In verità l'ascite del cirrotico può
essere ematica in circa il 5% dei casi (senza che ciò abbia un significato
particolare) ed il contenuto proteico è sovente nell'ambito dei valori
dell'ascite essudativa (3-6 g/dl). La quantità totale di proteine nell'ascite
correla inversamente con il rischio di sviluppare una peritonite batterica
spontanea; questa complicazione si manifesta di solito nelle asciti con
contenuto proteico inferiore ad 1 g/dl, ma non in quelle con concentrazioni
proteiche più elevate o nell'ascite cardiaca o neoplastica. Nel
modo più classico, la peritonite batterica spontanea si manifesta con febbre,
dolore addominale, leucocitosi ed in alcuni casi ileo. Talora le manifestazioni
cliniche sono insidiose; la complicazione infettiva può manifestarsi come
febbre d'origine sconosciuta, un dolore addominale apparentemente primitivo, un
deterioramento generale od una encefalopatia inspiegata. L'infezione
è il più spesso sostenuta da batteri di origine enterica (Escherichia,
Klebsiella, Proteus, Pseudomonas) ma può anche essere causata da germi
non-enterici. Nel 90% dei casi positivi alla coltura dell'ascite è incriminato
un solo germe; in circa il 20-30% dei pazienti con le manifestazioni cliniche
della peritonite batterica spontanea la coltura del liquido ascitico è
negativa. L'ascite
non complicata del cirrotico non contiene di regola più di 300-500 leucociti/mm
cubici in gran parte mononucleati. Il numero dei leucociti aumenta oltre 500/mm
cubici con un aumento relativo dei granulociti (>70%) se il paziente sviluppa
una peritonite batterica spontanea. Nell'ascite
non complicata il pH ed il contenuto in lattati è simile a quello del plasma;
il primo diminuisce ed i secondi aumentano se il paziente sviluppa peritonite
batterica spontanea. L'ascite chilosa è infrequente nel cirrotico. Quando
presente, è in genere segno di coinvolgimento linfatico (ad esempio traumatico,
dopo shunt speno-renale). È
importante distinguere l'ascite chilosa dall'ascite pseudochilosa, in cui
l'aspetto lattescente non è dovuto all'aumento dei grassi. La diagnosi si basa
sulla misura dei trigliceridi che nell'ascite chilosa sono superiori ai 110
mg/dl e comunque superiori alla quota plasmatica; inoltre, il trattamento di un
campione di ascite chilosa con etere lo rende limpido, mentre non modifica la
torbidità dell'ascite pseudochilosa. In
circa il 5% dei pazienti con cirrosi l'ascite si complica con l'idrotorace,
solitamente destro ma talora sinistro, in assenza di una malattia polmonare
pleurica o cardiaca. L'idrotorace è il più spesso dovuto al passaggio diretto
di ascite in cavità toracica attraverso fessure che rendono incontinente il
diaframma. Il movimento del fluido è determinato dalla più alta pressione
addominale rispetto a quella toracica. Le caratteristiche del versamento
pleurico sono le stesse dell'ascite concomitante. I
principali fattori che regolano la formazione dell'ascite sono la pressione
osmotica dei colloidi plasmatici e la pressione venosa portale. Mentre il primo
gioca un ruolo critico il secondo ha un ruolo permissivo; la correlazione tra
pressione portale e ascite non è lineare e molti pazienti normoalbuminemici con
ipertensione portale non presentano accumulo di liquido nel peritoneo. Due
opposte teorie sono addotte a spiegare la formazione dell'ascite e le
alterazioni idrosaline tipiche del cirrotico; il rene ritiene avidamente sodio
(la sodiuria è spesso inferiore ai 5 mEq/litro) e la sodiemia è bassa (per
effetto diluizionale dovuto alla ritenzione idrica ma il pool totale di NaCl è
in effetti aumentato). Secondo
una teoria, il primum movens dell'ascite è l'ipovolemia sistemica causata da
ritenzione plasmatica nel compartimento splancnico. L'ipovolemia scatena una
reazione ormonale per cui il rene ritiene sodio avidamente perpetuando il
circolo vizioso che sostiene l'ascite. Secondo
una altra teoria il meccanismo primario dell'ascite è una abnorme ritenzione di
sodio da parte del rene del cirrotico; l'accumulo idrico si localizzerebbe
preferenzialmente nell'addome per le condizioni ipertensive esistenti nel
distretto splancnico. La
diagnosi di ascite è semplice quando l'accumulo di liquido è superiore ad 1-2
litri. L'addome è globoso, v'è ottusità declive, cambio di posizione
dell'ottusità al variare della posizione del malato. L'esame fisico è invece
il più spesso negativo nelle asciti inferiori al litro; il problema diagnostico
è tuttavia risolto dall'attuale diagnostica per immagini (ecografia, TAC,
risonanza magnetica nucleare). L'ecografia
è la tecnica più pratica; la sua sensibilità è ottimale. Se la quantità
d'ascite è minima l'esame rivela il liquido nella doccia paracolica superiore
destra, attorno al fegato o nella pelvi; l'aspetto del liquido è di regola
omogeneo e privo di echi a meno che l'ascite non sia francamente essudativa.
L'ascite del cirrotico s'accompagna spesso a edemi declivi; questi ultimi
possono precedere l'insorgenza dell'ascite. L'edema periferico aumenta con la
posizione eretta e la deambulazione. Nella
diagnosi differenziale dell'ascite vanno considerate cause che non colpiscono
direttamente il peritoneo; sono riportate nella tab.06 Da
rilevare che la cirrosi, le neoplasie primitive e secondarie peritoneali e
l'insufficienza cardiaca congestizia rappresentano più del 90% delle cause di
ascite. Nell'ascite
maligna possono essere presenti cellule neoplastiche, la diagnosi è confermata
da ecografia e TAC. L'ascite
tubercolare dimostra linfocitosi e una alta concentrazione proteica. La diagnosi
è confermata dalla coltura per Micobacterium tuberculosis ma il risultato
richiede molte settimane. La laparoscopia rimane l'esame più adeguato per la
diagnosi in quanto consente la visione diretta del peritoneo. Nell'ascite
biliare è presente bile e bilirubina in quantità superiore che nel plasma.
Nell'ascite pancreatica è presente amilasi in quantità sproporzionata. Gli
altri tipi di ascite non hanno caratteristiche proprie di laboratorio. 1)dieta
asodica (senza aggiunta di sale e con contenuto di un massimo di 1-2 grammi di
sale al giorno), il cui effetto va valutato con il controllo quotidiano del peso
e della diuresi prima di iniziare la terapia con farmaci diuretici. Una causa
frequente di ascite resistente ai diuretici è una insufficiente restrizione
dietetica di sodio. L'assunzione
continua di sale va sospettata nei pazienti in cui non diminuisce l'ascite
malgrado una buona risposta natriuretica. Da ricordare che vari farmaci,
soprattutto gli antibiotici, possono contenere quantità considerevoli di NaCl; 2)se
la dieta asodica non è sufficiente il passo successivo è l'uso di diuretici.
Valgono le seguenti regole: a)usare sempre il minimo dosaggio di diuretici
capaci di mantenere il peso corporeo dopo la riduzione degli edemi e della
ascite; b)associare i saluretici ipokaliemizzanti a quelli iperkaliemizzanti, in
modo da non produrre deplezioni potassiche; c)incrementare l'albuminemia con
infusioni di albumina umana, quando il deficit è spiccato (inferiore ai 2,5
g/dl) e l'ascite è intrattabile con i soli diuretici. In
pratica nel 90% dei pazienti ascitici normoazotemici si ottiene il compenso con
l'uso progressivo di diuretici secondo lo schema seguente, fino a raggiungere
l'effetto desiderato: 1°tempo:
spironolattone o kanrenoato 100 mg/die fino a 200 mg/die (periodo di latenza per
una efficace azione 3-4 giorni); 2°tempo:
spironolattone o kanrenoato 200 mg/die + furosemide 50 mg/die, riducibile, una
volta raggiunto il compenso, a 50 mg a giorni alterni o a 1-2 volte la
settimana; 3°tempo:
spironolattone o kanrenoato 300, 400 mg/die + furosemide 75, 100 mg/die; 4°tempo:
spironolattone o kanrenoato + furosemide + mannitolo al 10% 250 cc + albumina
umana (100 cc e.v. al dì). Il
mannitolo è controindicato se vi sono varici esofagee a rischio. La
terapia diuretica può provocare una sindrome iperazotemica dovuta alla
deplezione del volume intravascolare. Si ammette in questi casi che la diuresi
indotta dai farmaci sia troppo rapida rispetto alla mobilizzazione del liquido
ascitico, con conseguente caduta del filtrato glomerulare e azotemia prerenale;
il fenomeno avviene infatti più frequentemente nei soggetti con sola ascite che
in quelli con ascite ed edemi declivi, rappresentando questi ultimi un serbatoio
di sicurezza per mobilizzare liquido e mantenere la volemia. Da
notare che i farmaci antiinfiammatori non steroidei deprimono la risposta
diuretica e possono rappresentare una causa di ascite refrattaria alla terapia. L'iponatriemia
diluizionale è frequente nel cirrotico, ma di solito asintomatica anche nei
pazienti con iponatriemia marcata. Non va trattata somministrando sodio, in
quanto il sodio totale è aumentato ed un ulteriore incremento esogeno
contribuisce solo ad aumentare la ritenzione idrica. Il trattamento consiste nel
limitare al massimo l'apporto idrico; il mannitolo al 18% può favorire
l'eliminazione di acqua "libera". Allo studio vari composti
antagonisti dell'ormone antidiuretico, nessuno dei quali è ancora entrato
nell'uso clinico corrente. La
maggior parte delle asciti refrattarie si presentano in pazienti iperazotemici.
Ha ripreso corpo negli ultimi anni la terapia di queste forme con la paracentesi
ripetuta accompagnata dall'infusione di albumina (40 g/4-6 litri di ascite)
oppure da un colloide plasmatico (destrano oppure polimerizzato di gelatina, 6-8
g o 125 ml/litro di ascite). I dati disponibili indicano che questo protocollo
costituisce una terapia rapida, efficace e scevra di complicazioni. Non vi sono
studi, tuttavia, che indichino se sia efficace anche nelle cirrosi avanzate con
insufficienza renale conclamata. L'alternativa
chirurgica è costituita dalla derivazione (shunt) peritoneo-giugulare con le
valvole di LeVeen o di Denver. Essi
consistono in tubi di drenaggio le cui estremità sono posizionate nel peritoneo
e nella cava superiore vicino all'atrio. Poiché
la pressione del liquido ascitico è più alta rispetto a quella cavale,
l'ascite scarica nella circolazione generale: una valvola impedisce il reflusso
dalla cava in peritoneo. Malgrado entrambi gli shunt siano efficaci nel ridurre
l'ascite, il loro uso è aggravato in un'alta percentuale di casi
dall'ostruzione, da spesi, da coagulazione intravascolare disseminata indotta da
proteine del liquido ascetico. Allo
stato attuale delle conoscenze lo shunt peritoneo-giugulare non sembra avere
vantaggi consistenti sulla paracentesi seguita da albumina, né garantire una
sopravvivenza più lunga. La
reinfusione di liquido ascitico direttamente nel torrente circolatorio o dopo
concentrazione proteica (Rodiascit) non è più in uso. Casi estremi possono
essere trattati con shunt porto-cava latero laterali; è verosimile, tuttavia
che in questi casi sia più indicato un trapianto epatico. Con
il termine di sindrome epatorenale s'intende una condizione caratterizzata da
oliguria ed insufficienza renale in pazienti con cirrosi epatica avanzata; la
dizione è impropria in quanto implica una relazione diretta fra il danno
epatico e quello renale, finora non dimostrata. La sindrome è caratterizzata da
iperazotemia, oliguria, iponatriemia da eccessiva diluizione, bassa esecrezione
urinaria di sodio in assenza di significative alterazioni anatomiche dei reni;
va pertanto distinta dall'insufficienza secondaria a danni renali acuti e/o
necrosi tubulare conseguenti a shock, setticemia, chirurgia delle vie biliari (tab.07 Gli
episodi di iperazotemia prerenale devono essere tenuti separati da questa
sindrome perché sono dovuti alla disidratazione, sono reversibili con la
riespansione del volume plasmatico e sono identici a quelli che avvengono in
soggetti non cirrotici. Nel
modo più tipico, la sindrome appare in soggetti con cirrosi epatica
scompensata; l'azotemia sale insidiosamente senza causa apparente, l'escrezione
urinaria di sodio è bassa, la funzionalità tubulare è intatta. Nel sedimento
non si osservano cilindruria né microematuria, di regola presenti invece nelle
necrosi tubulari e nelle nefropatie croniche.
È frequente e talora molto marcata l'iponatriemia conseguente all'emodiluizione
causata dalla ritenzione idrica; i livelli sierici del potassio sono variabili,
elevati solo nello stadio terminale. La diagnosi della sindrome può essere
fatta solo in presenza delle seguenti condizioni: 1)insufficienza
renale con inizio usualmente spontaneo e lento (creatininemia <1,5 mg/dl) che
accompagna una grave malattia epatica ascitogena, progredisce nel giro di giorni
o settimane; 2)funzione
tubulare indenne (almeno all'inizio) come dimostrano: a)sodiuria
<10 o <5 mEq/l; b)rapporto
osmolarità urinaria/osmolarità plasmatica (U/P osm) >1,0; c)rapporto
concentrazione creatinina urinaria/plasmatica (U/P osm) >30; 3)mancanza
di reversibilità della sindrome anche quando la pressione venosa centrale
mediante infusioni appropriate di liquidi abbia raggiunto i 10 mmHg. La
causa della sindrome è ignota; la sua patogenesi viene attribuita ad una
anomalia funzionale circolatoria del distretto renale. La portata cardiaca nei
cirrotici con questa sindrome è normale, mentre la perfusione renale è
diminuita; le resistenze vascolari renali sono dunque aumentate. Una
volta stabilitasi l'oliguria la prognosi è grave, il più spesso fatale. Non
esiste trattamento efficace. È
importante limitare l'apporto idrico nei pazienti oligurici ed opportuno aiutare
con ogni mezzo la ripresa della funzione epatica. L'espansione del volume
ematico con plasma o albumina aumenta solo transitoriamente il flusso renale. Non
provata l'efficacia di L-dopamina, saralasina, fentolamina, captopril o
prostaglandine E ed A. In studio la possibilità di risolvere la sindrome con il
blocco del sistema simpatico lombare. Sub-judice l'uso di analoghi della
vasopressina, quali l'ornipressina che rilascerebbero la vasocostrizione renale
a spese di vasocostrizione (ed ipertensione) sistemica. Inefficace la dialisi
peritoneale e l'emodialisi. Il
termine encefalopatia epatica (e.e.) identifica i disturbi neuropsichiatrici dei
pazienti con malattie epatiche acute e croniche. Sono sinonimi l'encefalopatia
porto-sistemica ed il coma epatico. Il termine encefalopatia porto-sistemica
sottolinea l'importanza della diversione di sangue portale dal fegato ma e.e. è
più appropriato dal momento che l'encefalopatia può avere luogo come
conseguenza della sola insufficienza epatocellulare, in assenza di diversione di
sangue portale. L'encefalopatia
può insorgere spontaneamente o essere precipitata da una complicazione (sanguinamento
intestinale, insufficienza renale, sepsi), dall'inappropriato uso di farmaci
attivi sul sistema nervoso centrale o di diuretici, da un sovraccarico proteico
alimentare, da una stipsi ostinata, dall'ipokaliemia; in quest'ultimi casi l'e.e.
è definita secondaria. L'encefalopatia può presentarsi in modo acuto nei
pazienti con epatite acuta grave che s'accompagna ad insufficienza epatica
oppure nei cirrotici con rapido degrado della funzionalità epatica. Vi
sono molte teorie, nessuna delle quali è universalmente accettata o è capace
di spiegare da sola l'e.e. 1)La
barriera ematoencefalica può essere alterata da tossine
"metaboliche", per cui l'encefalo viene a contatto con sostanze
neuroattive che normalmente non vi hanno accesso. 2)Le
alterazioni funzionali possono conseguire all'accumulo di neurotossine non
eliminate come di norma dal fegato malato. La più incriminata è l'ammoniaca;
nel 90% dei pazienti con e.e., la concentrazione dell'ammoniaca arteriosa è
aumentata. Sebbene l'ammoniaca interferisca in vari processi cerebrali, essa è
normale in una quota di pazienti con e.e. ed è, viceversa, aumentata in molti
cirrotici senza segni di encefalopatia. La disfunzione cerebrale, infine, è mal
riproducibile negli animali con la somministrazione di ammoniaca, e solo con
dosi molto elevate della sostanza. 3)Poiché
la sintesi dei neurotrasmettitori è controllata dalla concentrazione dei
relativi aminoacidi precursori e poiché il triptofano, la tirosina e la
fenilalanina, aminoacidi aromatici precursori di serotonina e catecolamine, sono
aumentati nel cirrotico rispetto agli aminoacidi a catena ramificata (valina,
leucina, isoleucina), è stata ipotizzata una relazione fra l'aumentato rapporto
aminoacidi aromatici/aminoacidi a catena ramificata e l'insorgenza dell'encefalopatia
epatica. Una teoria analoga ha proposto che l'e.e. possa essere causata da falsi
neurotrasmettitori, quali l'octopamina, prodotta nel colon dall'azione batterica
sulla tirosina e non eliminata dal fegato, che sostituirebbe neurotrasmettitori
fisiologici quali la dopamina e la noradrenalina. 4)Una
ipotesi più recente attribuisce un ruolo importante all'acido
gamma-aminobutirrico (GABA) che agisce come inibitore della neurotrasmissione
mediante un meccanismo recettoriale comune con le benzodiazepine. Il GABA è pur
esso prodotto dal catabolismo batterico nell'intestino e la sua concentrazione
sarebbe aumentata nei cirrotici. I
sintomi sono variabili. Vi sono inizialmente disturbi della coscienza con
alterazioni del ritmo sonno-veglia. L'apatia e il rallentamento delle attività
psicointellettive sono caratteristiche delle prime fasi dell'e.e. cronica. Nell'encefalopatia
cronica la personalità è spesso mutata, talora solo episodicamente; il
soggetto diventa irritabile, e può compiere azioni inappropriate all'ambiente.
Sul progressivo rallentamento mentale, si possono sovrapporre difetti focali di
coscienza. L'encefalopatia
è spesso caratterizzata da una fase di agitazione psicomotoria che precede il
coma vero e proprio. Si distinguono 4 gradi di alterazioni: lievi, moderate,
severe, profonde (coma) (tab.08 I
riflessi sono di regola conservati e spesso esagerati ma scompaiono nel coma
profondo. Il riflesso plantare è in flessione. Caratteristico
ma non specifico dell'e.e. è l'asterixis, o tremore lento, ondulante delle mani
iperestese sul polso; simile fenomeno può essere dimostrato a lingua protrusa. La
presenza e l'entità della compromissione cerebrale può essere verificata con
l'elettroencefalogramma (rallentamento della frequenza delle onde elettriche
cerebrali), con i potenziali visivi evocati (stimolazione luminosa che eccita
neuroni subcorticali e corticali delle aree visive: la registrazione della
risposta evidenza latenza e morfologie diverse nel cirrotico rispetto al
normale) o più semplicemente, con semplici quiz. Il più in voga è il test di
Reitan della connessione numerica che prevede la connessione da parte del
paziente di una serie di numeri disposti a caso su un foglio; le modalità e il
tempo di esecuzione riflettono, seppur grossolanamente, l'entità del
rallentamento cerebrale dovuto all'encefalopatia. L'associazione
di sintomi neuropsichiatrici con una malattia epatica non è per sé sufficiente
a porre la diagnosi di e.e. Può quindi rendersi necessario differenziare l'e.e.
da lesioni intracraniche (tomografia assiale computerizzata), da infezioni
encefaliche o meningee (puntura lombare) e, soprattutto, da squilibri
idroelettrolitici o metabolici (con gli adeguati esami di laboratorio).
È ovviamente imperativo correggere tali squilibri prima di porre la
diagnosi di e.e. Riesce spesso difficile sulla sola base clinica differenziare
l'e.e. dall'encefalopatia alcolica acuta (Wernicke); in questo frangente può
essere d'aiuto il dosaggio dell'alcolemia. Poiché l'e.e. è spesso scatenata
dall'uso di sedativi è comunque necessario inquisire nell'ambiente familiare od
assistenziale la possibile assunzione di neurolettici. In
molti pazienti l'e.e. è secondaria ad un fattore precipitante la cui correzione
risolve il quadro clinico; i più frequenti sono la stipsi, l'emorragia
intestinale, la sepsi, la disidratazione consecutiva a un esagerato effetto
diuretico e, naturalmente, l'uso di benzodiazepine o altri sedativi.
È buona regola, comunque, infondere glicidi ed elettroliti ad ogni
paziente che presenti e.e. d'insorgenza acuta. Quando
l'e.e. è espressione di insufficienza epatica acuta (epatite virale,
avvelenamento da Amanita phalloydes) va considerata l'indicazione ad un
trapianto di fegato. È
necessario in questi casi contattare un centro trapianti ed inviare
immediatamente il paziente per opportuna diretta sorveglianza. La
terapia vera e propria dell'e.e. mira a contrastare i possibili meccanismi
fisiopatologici che la provocano. Il momento più importante è la diminuzione
dell'ammonio circolante attraverso l'eliminazione della flora intestinale, che
si ottiene praticando un clistere al 20% di lattulosio o mannitolo e/o
somministrando un lassativo salino a rapida azione. Il paziente va tenuto ad una
dieta aproteica; con la risoluzione dell'e.e. le proteine possono essere
concesse in quantità iniziale di 40 g/die fino a 70 g/die. La terapia di
mantenimento comprende l'assunzione continuativa di un disaccaride non
digeribile quale il lattulosio o il lattitolo (40-80 g/die) in modo da
acidificare le feci e ottenere un blando effetto lassativo. Entrambi,
ma soprattutto il lattitolo, provocano inizialmente crampi addominali e
meteorismo, che recedono in genere continuandone l'assunzione; la dose va
personalizzata in modo da ottenere due o tre scariche di feci al dì. La
terapia alternativa consiste nel diminuire la flora batterica intestinale capace
di produrre ammoniaca; gli antibiotici più usati sono la neomicina (2-8 g/die
in quattro somministrazioni) la paromomicina, il metronidazolo, l'aminopenicillina,
la vancomicina, i chinolonici; la neomicina può avere un effetto nefrotossico e
ototossico.
È sconsigliabile l'uso dell'antibiotico per più di 20-30 giorni. Il
ruolo di farmaci capaci di neutralizzare l'ammonio, quali l'ornitina-aspartato o
l'ornitina-alfa-glutarato è limitato.
È possibile un ruolo del benzoato e del fenilacetato, farmaci usati
soprattutto nella terapia di iperammoniemie causate da difetti ereditari del
ciclo dell'urea. L'ipotesi
dei falsi neurotrasmettitori ha indotto a tentativi terapeutici con soluzioni di
uno o più aminoacidi a catena ramificata, con soluzioni di aminoacidi
modificati o con farmaci dopaminergici quali la levodopa e la bromocriptina.
Malgrado risultati favorevoli emersi da studi non controllati, gli studi
controllati finora pubblicati negano a questa terapia un valore reale.
L'infusione endovena di aminoacidi a catena ramificata o la loro
somministrazione per os mantengono valore come supplemento nutrizionale,
permettendo un apporto proteico a taluni pazienti intolleranti alle proteine
naturali. Il
livello ematico degli aminoacidi a catena ramificata può anche essere aumentato
con la somministrazione di chetoanaloghi, ma tali prodotti sono di difficile
reperibilità. In genere le proteine vegetali sono meglio tollerate di quelle
animali e costituiscono pertanto un'alternativa nutrizionale nel paziente con
e.e. cronica "intollerante". Promettente
la terapia con antagonisti delle benzodiazepine (effetto anti-GABA), il cui
prototipo, il flumazenil è stato usato in alcuni pazienti con e.e. acuta e
cronica. L'infusione di 15 mg in 3 ore ha rapidamente migliorato il quadro
clinico in 12 di 30 episodi di e.e. ed in una paziente con e.e. cronica ribelle
alla terapia convenzionale il trattamento con 25 mg 2 volte al giorno ha
prevenuto nel lungo termine l'insorgenza di ogni manifestazione neurologica. Nel
cirrotico il sanguinamento gastrointestinale è una complicanza grave che spesso
provoca lo scompenso dell'epatopatia e comporta una elevata mortalità (tab.02 Il
paziente va innanzitutto rianimato e controllato con misurazioni frequenti del
polso, pressione arteriosa e pressione venosa centrale. Immediate misure
preventive includono: 1)la
rimozione del contenuto gastrico, con sondino naso-gastrico per evitare la
polmonite ab-ingestis; l'introduzione del sondino permette anche di
monitorizzare l'emorragia, e dare lassativi o nutrimenti; 2)la
somministrazione di antibiotici non assorbibili per prevenire infezioni (neomicina
1 g + colistina 1,5 milioni di unità + Nystatin 1 milione di unità ogni 6
ore); 3)adeguato
supporto cardio-polmonare (O2, fisioterapia toracica); 4)adeguato
supporto della funzione renale (colloidi, L-dopamina). Non
appena rianimato, il paziente va sottoposto ad endoscopia. Questo accertamento
non contribuisce a migliorare la sopravvivenza dei pazienti, ma fornisce una
diagnosi immediata e razionalizza la terapia. L'endoscopia permette di accertare
il sanguinamento in atto, la sua sede, la lesione che lo genera, e di eseguire
la eventuale scleroterapia. La diagnosi di varici esofagee sanguinanti è
facile, più difficile quella di varici del fondo gastrico. Accertata
la diagnosi di varici sanguinanti il trattamento può essere farmacologico,
endoscopico (scleroterapia) o meccanico (tamponamento) (fig.03 Terapia
farmacologica. Consiste nella somministrazione di farmaci che diminuiscono la
pressione portale. La
vasopressina (o l'analogo glipressina) ha un'azione vasocostrittiva sul
territorio splancnico cui consegue la diminuzione dell'afflusso venoso alle
varici. Il
farmaco va somministrato alla dose iniziale di 0,4 U/min; può essere
progressivamente aumentata fino a 0,6-0,8 U/ min. La terapia va mantenuta per
12-24 ore. Seppure
la vasocostrizione splancnica possa attenuare od arrestare l'emorragia, la
vasopressina provoca vasocostrizione ed ipertensione sistemica con una serie di
importanti manifestazioni collaterali, fra cui stenocardia, dolori ed ischemia
intestinali, ischemia periferica e talora gangrena. È pertanto utile associare alla vasopressina la
nitroglicerina (orale, transdermica, endovena) il cui effetto vasodilatante
periferico bilancia, attenuandola, la vasocostrizione sistemica della
vasopressina (la dose endovena di nitroglicerina è fra 40 e 400 micro g/min). In
alternativa, la somatostatina vasocostringe pur essa la circolazione splancnica
senza gli effetti collaterali della vasopressina. È al momento considerata la soluzione farmacologica di
prima scelta. L'effetto vasocostrittivo è più intenso e marcato quando la
somatostatina è data a bolo. La terapia inizia dunque con l'infusione rapida
endovena di 250 micro g del farmaco seguita da 250-500 micro g/ora in infusione
continua per alcuni giorni. L'analogo octreotide ha emivita più lunga e la
stessa efficacia farmacologica. Terapia
endoscopica. La scleroterapia è divenuto il procedimento di scelta nel
trattamento delle varici esofagee sanguinanti. Può essere praticata come prima
terapia o dopo terapia farmacologica o tamponamento. Si
usano come sclerosanti l'etanolamina al 5% o il polidocanolo al 5%; possono
essere iniettati intravarice o nel perivarice. Alla prima seduta in emergenza
seguono sedute multiple ad intervalli di 4-7 giorni fino a bonifica totale delle
varicosità esofagee. Studi clinici controllati hanno dimostrato che la
scleroterapia è più efficace della terapia farmacologica e del tamponamento
nel controllo a breve e lungo termine dell'emorragia da varici nel cirrotico. La
scleroterapia è tuttavia passibile di complicazioni quali la disfagia, il
dolore toracico, il versamento pleurico e, più importanti, l'ulcerazione
esofagea ed il sanguinamento conseguente, la stenosi esofagea, la perforazione
dell'esofago, la mediastinite e la sepsi. Compressione
meccanica. La più ancestrale delle manovre per il controllo dell'emorragia da
varici, il tamponamento per compressione con palloncini, mantiene un ruolo come
procedimento d'emergenza per prevenire l'emorragia mortale, per stabilizzare il
paziente in vista di terapia definitiva, per trasferirlo in luoghi di cura
appropriati. Il
tamponamento può essere mantenuto solo per 12-24 ore; oltre tale limite
insorgono ulcerazioni esofagee da compressione, che sono esse stesse causa di
emorragia. Il
procedimento è inoltre complicato da polmoniti da aspirazione, da dolori
toracici, da possibili ostruzioni delle vie respiratorie. La
sonda più adatta per l'emorragia da varici esofagee è quella di
Sengstaken-Blakemore, che contiene due palloncini, uno per la compressione
esofagea ed uno che funziona come ancora nello stomaco, ma che al contempo
comprime la regione cardiale gastrica. L'uso
corretto della sonda di Sengstaken-Blakemore richiede alcune precauzioni: 1)controllare
radiologicamente che i due palloncini siano in situ, ben distesi e che non
tendano col passare del tempo a sgonfiarsi (rifornimenti periodici di aria); 2)la
sonda deve esercitare una delicata trazione sul fondo gastrico a mezzo di un
contrappeso legato al capo esterno (sono sufficienti due klemmers); 3)la
rimozione della sonda, 24-48 ore dopo, va preceduta da un periodo di 6-8 ore in
cui sia rimasta sgonfia in situ e durante il quale il paziente va sorvegliato
per un'eventuale ripresa della emorragia. Terapia
chirurgica. Se ogni intervento farmacologico o le manovre sclerosanti o
tamponanti falliscono, rimane solo l'alternativa chirurgica. La
transezione con apparecchi dotati di cucitrici meccaniche devascolarizzano
l'esofago senza derivare il sangue portale; prevengono pertanto l'emorragia
senza provocare encefalopatia. Gli
shunt chirurgici risolvono l'ipertensione portale a spese tuttavia di un'alta
incidenza di encefalopatia post-shunt. Le varici del fondo gastrico
rappresentano spesso un difficile problema, in quanto non accessibili alla
terapia endoscopica. Per tamponarle è utile il tubo di Linton-Nachlas; contiene
un voluminoso pallone gastrico che posto in trazione sul cardias comprime
egregiamente la regione del fondo. Sovente tuttavia l'unica soluzione definitiva
al problema locale è lo shunt porto-cavale. Da
rilevare che nell'epoca del trapianto di fegato, le indicazioni agli interventi
chirurgici di shunt sono in molti pazienti superate dalla prospettiva più
radicale dell'intervento di trapianto. In
questa prospettiva l'intervento di shunt porto-cava rende più difficile l'atto
chirurgico del trapianto, per cui l'indicazione va posta solo come alternativa
provvisoria nei soggetti che non possono essere trapiantati nell'immediato. In
simili pazienti l'intervento di derivazione più adeguato è verosimilmente lo
shunt mesocavale con interposizione di una vena autologa o con l'interposizione
di uno shunt di Goretex. Il
trattamento dell'ulcera peptica è lo stesso che nel paziente non cirrotico. Tipica
del cirrotico è invece la gastropatia congestizia, sostenuta dall'aumento della
pressione portale. In questa situazione la mucosa gastrica assume spesso aspetto
a mosaico o rassomiglia alla superficie di taglio dell'anguria. La gastropatia
congestizia può causare emorragie massive ma più di frequente causa
stillicidio cronico ed anemia microcitica. Inutile l'uso di antiacidi, di
bloccanti dei recettori H2 dell'istamina e del sucralfato. Uno studio recente
suggerisce che il propranololo è efficace nel ridurre l'incidenza del
risanguinamento nei cirrotici che hanno sanguinato una prima volta per
gastropatia congestizia. Lo shunt porto-cavale è risolutivo. Il
cirrotico che ha sanguinato da varici ha 70 su 100 probabilità di risanguinare
dalla stessa causa. Ovvio dunque che negli anni recenti siano stati intrapresi
una serie di tentativi per diminuire il rischio dell'emorragia ricorrente. Il
tentativo chirurgico mediante shunt porto-cavale, seppure coronato da successo
per quanto riguarda l'abolizione del rischio emorragico non ha tuttavia portato
ad una maggiore sopravvivenza del cirrotico operato; ciò è dovuto alla
mortalità operatoria ed all'insufficienza epatica che si instaura per la
diversione del sangue portale. L'intervento è aggravato da un'alta incidenza di
encefalopatia, spesso invalidante. La soluzione proposta da Warren e Zeppa, lo
shunt spleno-renale distale, è complicata da un minor tasso di encefalopatia
nel breve termine, ma a lunga scadenza questa complicanza si manifesta con la
stessa incidenza dello shunt porto-cava. Lo shunt spleno-renale distale è
tecnicamente più difficile e sovente complicato dalla riformazione di varici e
dal risanguinamento. Il
ruolo a distanza della scleroterapia rimane incerto, ma non sembra superiore
alla derivazione chirurgica nel prevenire il rischio di risanguinamento;
ovviamente l'incidenza di encefalopatia è molto più bassa. Le
procedure di devascolarizzazione implicano un rischio significativo di emorragia
ricorrente.
È verosimile che non meno di 1/3 dei cirrotici con varici esofagee siano
destinati a sanguinare ed è calcolato che il tasso di mortalità legato al
primo episodio di sanguinamento si aggiri attorno al 40%. Ovvio dunque che la
prevenzione del sanguinamento da varici esofagee rappresenti un obiettivo
importante ma il traguardo è lontano dall'essere raggiunto. Lo shunt chirurgico
profilattico, propugnato alla fine degli anni '60, non ha avuto seguito in
quanto seppur capace di azzerare il rischio di sanguinamento diminuisce la
sopravvivenza del paziente per gli effetti dell'encefalopatia post-chirurgica. Il
ruolo della scleroterapia rimane controverso: poiché la sclerosi si complica
frequentemente di ulcere distrofiche dell'esofago, capaci esse stesse di
sanguinamenti violenti, non pare al momento raccomandabile come momento
profilattico dell'emorragia da varici. Più
studi controllati hanno dimostrato efficacia dei betabloccanti (propranololo e
nadololo); probabilmente questa terapia farmacologica rappresenta al momento
l'opzione più valida per la profilassi del sanguinamento varicoso. Il
propranololo va iniziato alla dose di 40 mg/die e la dose massima permessa può
salire sino a 320 mg al giorno. La dose va titolata sulla frequenza cardiaca che
deve cadere del 20-25% 6 ore dopo l'assunzione del farmaco. I pazienti ascitici
sembrano rispondere ai beta-bloccanti molto meno di quelli non-ascitici. Il
fegato gioca un ruolo importante nella regolazione dell'emostasi; la maggior
parte dei fattori della coagulazione, vari anticoagulanti fisiologici e proteine
del sistema fibrinolitico sono sintetizzate da quest'organo. Il fegato depura
inoltre il circolo di fattori della coagulazione attivati e di attivatori del
plasminogeno. Le modalità attraverso le quali il fegato cirrotico può
compromettere l'emostasi sono riportate nella tab.09 Oltre
alla diminuzione delle proteine che conducono alla sintesi della fibrina,
possono essere sintetizzate dal fegato malato abnormi proteine disfunzionali. Le
anomalie del processo emostatico sono ulteriormente complicate da disfunzioni
piastriniche e dalla frequenza di coagulazione intravascolare disseminata;
l'alterazione dell'emostasi è dunque multifattoriale e spesso complicata a tal
punto da rendere virtualmente impossibile determinare le cause della
perturbazione emocoagulativa. La
trombocitopenia del cirrotico è dovuta all'ipersplenismo ma può in parte
derivare da depressione midollare o da interferenze col metabolismo primario
delle piastrine. L'aggregazione piastrinica è spesso alterata, probabilmente in
seguito alle alterazioni di lipoproteine plasmatiche. Le misure dei parametri
emocoagulativi sono importanti nella valutazione del tipo ed entità del danno
epatico e nel determinare il rischio di manovre invasive quali la biopsia
epatica. Non vi sono parametri precisi capaci di preconizzare il rischio di
sanguinamento dopo biopsia epatica. S'assume, tuttavia che il rischio sia alto
per una conta di piastrine inferiore alle 80 x 10 elevato a 9/litro,
un'attività protrombinica del 50% inferiore rispetto al controllo normale ed
una concentrazione di fibrinogeno inferiore a 1,5 grammi/litro. Probabilmente il
parametro più significativo rimane il tempo di sanguinamento che rappresenta
l'emostasi primaria e tiene in conto anche l'attività piastrinica. Quando
asintomatici, i deficit coagulativi non necessitano terapia; la loro correzione
si richiede allo scopo di eseguire indagini cruente. Qualora la correzione sia
impossibile e nondimeno la biopsia epatica sia necessaria per la diagnosi, il
prelievo può essere fatto per via transgiugulare, attraverso le vene
sovraepatiche; in questo modo l'eventuale sanguinamento scarica nella
circolazione sistemica. L'iniezione
sottocutanea di vitamina K (10 mg/die per 3 giorni) è sufficiente nei pazienti
con deficit di assorbimento a riportare l'attività protrombinica a valori
compatibili con le pratiche diagnostiche (attività protrombinica superiore al
50%). Nei pazienti con deficit di sintesi dei fattori della coagulazione,
l'infusione di uno dei prodotti commerciali di concentrati di fattori II, III,
VII, X è spesso, ma non invariabilmente, sufficiente a ripristinare i parametri
coagulativi; il loro uso comporta il rischio potenziale di episodi
tromboembolici dovuti alle presenze di fattori della coagulazione attivati. Similmente,
gli estratti di piastrine forniti dalle banche del sangue suppliscono
temporaneamente al deficit piastrinico. Il plasma fresco fornisce tutti i
fattori della coagulazione ma trattandosi di un prodotto non trattato col calore
può trasmettere virus epatitici. Concentrati
di antitrombina III sono efficaci nel risolvere episodi di coagulazione
intravascolare disseminata. La desamino-D-arginil vasopressina, un analogo
sintetico della vasopressina induce un aumento del fattore VIII: C e del fattore
von Willebrand. I
deficit in corso di emorragie digestive o l'eventuale CID possono essere curati
solo in ambiente ospedaliero dotato di un efficiente centro della coagulazione
(terapia eparinica ecc.); la prognosi di questi pazienti è tuttavia molto
grave. L'uso di fattori concentrati della coagulazione comporta il rischio di
epatite post-trasfusionale. La
splenomegalia che consegue all'aumento della pressione portale comporta spesso
l'instaurarsi della sindrome d'ipersplenismo, la cui manifestazione cardinale è
la riduzione di uno o più degli elementi cellulari del sangue in presenza di un
midollo normale; si manifesta in circa il 40-50% dei cirrotici. E'
verosimile che la sua causa sia la sequestrazione e l'eccessiva distruzione di
elementi ematici figurati da parte della milza megalica. La
manifestazione più frequente dell'ipersplenismo è la trombocitopenia, seguita
dalla granulocitopenia e dall'anemia; quest'ultima, quando presente, è spesso
multifattoriale. L'ipersplenismo
richiede raramente terapia specifica; quest'ultima va considerata solo per
condizioni estreme quali una diatesi emorragica da trombocitopenia severa o
sintomi dolorosi addominali invalidanti causati dalla massa splenica. La
splenectomia rappresenta la cura definitiva ma nei pazienti con ipertensione
portale l'operazione è tecnicamente difficile ed è gravata da considerevole
morbidità; frequente nel postoperatorio la sepsi e la trombosi della porta. Mal
definito il ruolo decompressivo dello shunt porto-cavale o spleno-renale nel
rialzare la conta piastrinica, mentre efficace sembrerebbe l'embolizzazione dei
rami dell'arteria splenica (e conseguente riduzione dell'organo) con coaguli
autologhi, spirali metalliche o gel procoagulanti; queste procedure possono
tuttavia essere complicate da sepsi, ascessi splenici e rottura della milza. Anthony
P.P., Ishak K.G., Nayak N.C. e Coll.: The morfology of cirrhosis. Journal
of Clinical Pathology, 31, 395-414, 1978. Conn
H.O., Attherbury C.E.: Cirrhosis. In Schiff L. and Schiff E.R. eds., “Diseases
of the Liver”, 6^ ed., Philadelphia, J.P. Lippincott Co., 725-864, 1987. Esquivel
C.O. e Coll.: Transplantation for primary biliary cirrhosis. Gastroenterology,
94, 1207-16, 1988. Gaidano
G., Berta L.: Le epatopatie. UTET, 1990. Kaplan
M.M.: Primary biliary cirrhosis. New England Journal of medicine. 316,
521-8, 1987. Leevy
C.M., Popper H., Sherlock S. eds.: Diseases of Liver and Biliary Tract.
Standardization of Nomenclature, Disgnostic Criteria and Disgnostic Methodology.
(Fogarty International Center Proceedings No. 22), Printing Office, 107, 1976. Verme
G.: Progressi in Medicina Interna: Epatologia. UTET, 1989. G.
VERME Primario
Divisione di Gastroenterologia Ospedale
Maggiore di S. Giovanni Battista e
della città di Torino, sede Molinette M.
RIZZETTO Professore
Associato di Gastroenterologia Istituto
di Medicina Interna Università
di Torino
TORNA ALL'INDICE
TORNA ALL' HOME
PAGE PILLOLE
DI STORIA CONTEMPORANEA dal
sito LA
GRANDE CROCIATA Collana monografica:
CLINICA E TERAPIA DELLA CIRROSI EPATICA
Eziologia e patogenesi
Sintomi
APPARATO CARDIO-VASCOLARE E CIRCOLATORIO
APPARATO RESPIRATORIO
Diagnosi
Terapia
Complicazioni
ASCITE
Patogenesi
Diagnosi di ascite - Diagnosi differenziale
Terapia
Si basa sui seguenti principi:
TRATTAMENTO DELL'IPONATRIEMIA
ASCITE REFRATTARIA
SINDROME EPATORENALE
ENCEFALOPATIA EPATICA
Patogenesi
Sintomi dell'encefalopatia epatica
Diagnosi differenziale
Terapia
EMORRAGIA ACUTA
Trattamento dell'emorragia da varici
esofago-gastriche
Trattamento dell'emorragia dovuta a cause
diverse dalle varici
Prevenzione del risanguinamento
Profilassi del (primo) sanguinamento
ANOMALIE DELL'EMOSTASI
IPERSPLENISMO
Letture
consigliate
L'Europa
degli anni '20-'30
Il
resto del mondo
L'ascesa
dei regimi
Cronologia
del Nazismo
L'Europa
in fiamme
Il
1940 giorno per giorno
Antisemitismo
in Europa
L'Olocausto
I
Lager
La
Campagna d'Italia
Il
D-Day
6
Agosto
I
personaggi
Le
cartine
Le
cifre
Links
Filmati