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ARGOMENTI DI MEDICINA CLINICA
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Ultimo aggiornamento: 23.12.2013
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Negli
ultimi anni le conoscenze nel campo della patogenesi del diabete mellito sono
aumentate in maniera considerevole. La diversità dei meccanismi di insorgenza
del diabete mellito di tipo I (IDDM) e di tipo II (NIDDM) hanno fatto prevalere
il convincimento che si tratti di due distinte condizioni morbose che hanno in
comune il fatto di provocare un innalzamento dei livelli glicemici. Ciò
nondimeno, in ambedue i casi si riscontrano molteplici alterazioni a carico di
numerosi organi ed apparati con interessamento micro e macrovascolare e
compromissione delle strutture nervose.
Fondamentalmente
queste manifestazioni sono dovute al deficit di attività insulinica ed alle
turbe metaboliche ad essa correlate e pertanto sono da considerare delle
"complicanze" della malattia diabetica. E' tuttavia possibile che al
loro determinismo prendano parte anche fattori ereditari, considerato che, a
parità di squilibrio metabolico, esse sono estremamente frequenti in alcune
razze e rare in altre.
Nel
trattare le "complicanze" del diabete mellito tralasceremo di
considerare i vari tipi di coma che si possono osservare in corso di diabete
mellito in quanto essi sono, a nostro parere, conseguenza diretta dello
scompenso metabolico (complicanze acute) e pertanto fanno parte del quadro
nosologico della malattia.
La
vasculopatia tipica del diabete mellito è quella che colpisce i piccoli vasi
(capillari, arteriole e venule) e che viene comunemente indicata col termine di
"microangiopatia diabetica".
Questa
interessa tutti i distretti dell'organismo, benché in alcune sedi, a causa
della struttura e della funzione dell'organo colpito, dia luogo a quadri
morfologici particolari; la sua frequenza raggiunge il 98% in pazienti adulti
con diabete manifesto. Una correlazione diretta della incidenza e gravità delle
lesioni microangiopatiche con la durata del diabete viene oggi ammessa dalla
maggior parte dei ricercatori.
L'aspetto
fondamentale della microangiopatia diabetica è costituito dall'ispessimento
della membrana basale del vaso di entità variabile e di regola proporzionale
alla durata della malattia. La membrana basale ispessita può essere unilaminare
o pluristratificata e l'endotelio può presentare sia processi degenerativi,
fino alla completa scomparsa di tutti gli elementi cellulari, che fenomeni
proliferativi di reazione. A queste lesioni si possono sovrapporre altri eventi,
quali l'occlusione trombotica, la degenerazione e la fibrosi della parete vasale
con eventuale dilatazione aneurismatica, ed associati processi essudativi e
proliferativi nel tessuto circostante.
A
livello delle arteriole è stata da tempo notata la deposizione di sostanza
PAS-positiva in tutti gli strati della parete vasale e la proliferazione delle
cellule endoteliali con riduzione, talvolta notevolissima, del lume vasale.
Manifestazioni analoghe si osservano a carico delle venule.
E'
noto che l'ispessimento della membrana basale dei capillari nei diabetici è
ubiquitario, tuttavia bisogna tener presente che l'entità del fenomeno varia da
una regione all'altra e che può essere notevolmente diversa anche in porzioni
vicine degli stessi organi e tessuti. A queste alterazioni morfologiche si
associano costantemente delle alterazioni funzionali che si esprimono con
aumento della permeabilità capillare.
Col
termine di membrana basale si intende una struttura specializzata extracellulare
situata al di sotto delle cellule epiteliali ed endoteliali, che le separa tra
di loro e/o dal tessuto connettivo dello stroma adiacente. Come è stato
appurato da studi di microscopia elettronica, tutte le membrane basali hanno
alcune caratteristiche istochimiche in comune, nel senso che fissano
intensamente i coloranti specifici per i carboidrati e per i radicali anionici.
Dal
punto di vista ultrastrutturale, le membrane basali quasi sempre appaiono come
strutture trilaminari, costituite da una regione centrale elettrondensa
("lamina densa" o "lamina rara"). Qualora le membrane basali
separino le cellule dalla matrice stromale, la regione elettrontrasparente a
contatto con la membrana plasmatica è definita come "lamina lucida
interna", mentre il lato opposto della lamina basale è identificato come
"lamina sottobasale". Lo spessore relativo di tali regioni varia in
maniera notevole tra le membrane basali dei differenti tipi di tessuto, nonché
in funzione dell'età.
Tutte
le membrane basali agiscono da sostegno per le cellule differenziate e regolano
la filtrazione selettiva. In alcuni distretti, quali la membrana basale
glomerulare e quella dei capillari cerebrali, le funzioni di permeoselettività
sono particolarmente sviluppate e specializzate. Pertanto le membrane basali
avranno componenti biochimici in comune che serviranno a compiere le funzioni di
sostegno, ed altri componenti biochimici che servono alla funzione specifica.
Studi
sulla composizione delle membrane basali di varia origine indicano che esse
contengono glicoproteine collageniche e non collageniche, così come
proteoglicani solforati. Gli aminoacidi quali l'idrossiprolina e l'idrossilisina
si trovano quasi esclusivamente nel collageno e la loro presenza è considerata
un marker per queste proteine.
Studi
con anticorpi specifici hanno permesso di stabilire che il collageno che forma
la membrana basale è il collageno di tipo IV. Questo tipo di collageno è
caratterizzato da un alto contenuto di 3-idrossiprolina, da un basso contenuto
di alanina e da un elevato contenuto di lisilidrossiprolina, rispetto ad altri
tipi di collageno. Più del 70% dei residui di idrossilisina sono sostituiti con
un disaccaride: il galattosil-glucosio. Questo elevato contenuto di esosi neutri
associati alla idrossilisina è una caratteristica del collageno di tipo IV.
Le
molecole di procollageno nel collageno di tipo IV si aggregano a gruppi di
quattro assumendo una struttura raggiata, denominata "a forma di
ragno" (fig.01
Gli
altri principali costituenti della membrana basale sono rappresentati dai
glicosaminoglicani (GAG). I GAG sono lunghe catene non ramificate di
polisaccaridi formate dalla ripetizione di un disaccaride. I GAG possiedono un
numero elevato di cariche negative dovute alla presenza di gruppi solforici o
carbossilici, o di entrambi, su molti dei residui monosaccaridici. Sono stati
identificati sette gruppi di glicosaminoglicani: l'acido ialuronico (l'unico nei
cui monomeri non sono presenti gruppi solfato), il condroitin-4-solfato, il
condroitin-6-solfato, il dermatan-solfato, l'eparan-solfato, l'eparina ed il
cheraton-solfato.
I
GAG nella forma definitiva si legano con legami covalenti a residui di serina di
una proteina, per formare molecole di proteoglicani; sotto tale forma si
ritrovano nella matrice cellulare. I proteoglicani sono molto diversi dalle
tipiche glicoproteine.
Le
glicoproteine generalmente contengono dall'1 al 60% in peso di carboidrati sotto
forma di catene oligo-saccaridiche, relativamente brevi, ramificate e di
composizione variabile, che terminano spesso con un residuo di acido siliaco.
I
proteoglicani invece, hanno un peso molecolare intorno ad alcuni milioni di
dalton e contengono di solito dal 90 al 95% in peso di carboidrati sotto forma
di catene di GAG lunghe e non ramificate, generalmente senza residui di acido
siliaco. Le catene dei GAG, tendono ad attrarre grandi quantità di acqua,
formando così dei gel idratati anche a concentrazioni molto basse, ed è
proprio per questa loro capacità che la sostanza fondamentale tende a
rigonfiarsi in modo da essere resistente alle forze di compressione. Per la loro
conformazione porosa ed idratata, le catene di GAG permettono la rapida
diffusione di molecole idro-solubili, la migrazione delle cellule ed altre
funzioni cellulari. Nella membrana basale si pensa che essi siano in grado di
formare gel contenenti pori di dimensioni e densità di carica variabili,
funzionando così da setacci per regolare gli spostamenti di molecole secondo le
loro dimensioni c/o carica. I GAG, infatti, si pongono a ponte tra le molecole
di fibronectina ed occupano gli spazi liberi che restano tra membrana plasmatica
cellulare e fibrille collageniche della lamina densa (fig.02
Va
infine rammentato che i vari componenti della membrana basale non vengono
sintetizzati solo ad opera delle cellule connettivali (fibroblasti), ma vengono
prodotti anche da parte delle cellule endoteliali ed epiteliali del distretto
interessato.
Il
problema patogenetico della microangiopatia diabetica è ancora estremamente
dibattuto. Nel trattare l'argomento occorre distinguere fra patogenesi
dell'aumento di spessore della membrana basale dei microvasi (Capillary Basement
Membrane Thickening o CBMT) e patogenesi delle altre componenti della
microangiopatia.
Gli
eventi patogenetici che portano alla formazione del CBMT sono complessi e
coinvolgono diversi tipi cellulari a livello microvascolare. Certamente gli
eventi biochimici più importanti avvengono a livello interstiziale, dove
cellule residenti (periciti, cellule mesangiali) e cellule non residenti (macrofagi)
interagiscono attraverso numerosi meccanismi.
Sicuramente
molta attenzione meritano le modificazioni del metabolismo tissutale, le turbe
del trasporto di ossigeno, i processi istoreattivi, le alterazioni lipidiche del
sangue e le anomalie di alcune funzioni endocrine.
Grande
importanza viene attualmente attribuita alle turbe del metabolismo tissutale nel
determinismo della CBMT del diabetico. I principali meccanismi biochimici che
concorrono a determinare la patogenesi della microangiopatia sono i seguenti: a)
l'attivazione della via metabolica dell'aldoso-reduttasi con accumulo di polioli;
b) la via del diacilglicerolo-proteinkinasi C; c) la glicazione non enzimatica;
d) i potenziali redox e lo stress ossidativo.
La
via dell'aldoso-reduttasi e dei polioli. Il glucosio può essere convertito in
sorbitolo nella maggioranza delle cellule dall'enzima aldoso-reduttasi, che può
utilizzare gli esosi come substrato per la riduzione, attraverso il NADPH, ai
loro rispettivi alcool zuccheri (polioli). In corso di iperglicemia cronica si
attiva l'aldoso reduttasi che fa accumulare sorbitolo nei tessuti abbassando i
livelli di mioinositolo. Una volta formatosi, il sorbitolo non diffonde
attraverso le membrane e quindi si elevano i suoi livelli cellulari; le cellule,
così, possono subire un danno osmotico. Gli elevati livelli di glucosio e
sorbitolo competono con la captazione di mioinositolo nei tessuti e il
conseguente abbassamento dei livelli del pool cellulare di mioinositolo può
determinare una alterazione dei segnali intracellulari.
La
via del diacilglicerolo-proteinkinasi C. L'iperglicemia provoca un aumento
dell'attività cellulare della proteinkinasi C (PKC) come conseguenza
dell'aumentata de novo sintesi di diacilglicerolo dal glucosio. La PKC è
implicata in molte funzioni cellulari e la sua attività, stimolata
dall'iperglicemia prolungata, può essere danneggiata. La PKC è coinvolta nella
regolazione di una vasta gamma di funzioni vascolari quali la permeabilità, la
contrattilità, la coagulazione, il flusso sanguigno capillare, l'azione
ormonale, il metabolismo della membrana basale, la sintesi e l'azione dei
fattori di crescita; tutte queste funzioni sono state alterate nei diabetici. Le
alterazioni della PKC si accompagnano, negli organi bersaglio delle complicanze
diabetiche, ad un aumento dei livelli di diacilglicerolo (DAG). Le alterazioni
della PKC e del DAG non sono mediate né dall'alterazione osmotica, né
dall'azione degli inibitori dell'aldoso-reduttasi, e quindi il loro meccanismo
patogenetico resta da chiarire.
La
via della glicosilazione non enzimatica delle proteine. Il glucosio ed il
fruttosio possono reagire in maniera non enzimatica con i gruppi aminici delle
proteine, lipidi ed acidi nucleici formando basi di Shiff prontamente
reversibili ed i prodotti di Amadori più lentamente reversibili. Questi ultimi
possono andare incontro ad autossidazione, con formazione di radicali liberi e
di prodotti terminali non-reattivi, o a riarrangiamento, con formazione di
prodotti intermedi che possono andare incontro ad ulteriore trasformazione per
formare molecole irreversibili chiamate prodotti terminali di avanzata
glicosilazione (AGE). La formazione di AGE produce tre tipi di conseguenze: 1)
crosslinking delle proteine extracellulari; 2) alterate interazioni
cellule-matrice; 3) modificazione della struttura e funzione del DNA. La
presenza di queste molecole alterate nell'interstizio richiama i macrofagi che
hanno sulla loro superficie recettori per gli AGE e l'interazione tra AGE e
recettori macrofagici determina la liberazione di citochine e fattori di
crescita che concorrono alla proliferazione cellulare ed alla produzione di
matrice extracellulare.
Alterazioni
dei potenziali redox e stress ossidativo. L'eccesso di produzione di glucosio
attraverso vie enzimatiche e non enzimatiche genera una aumentata produzione di
radicali liberi. Essi esplicano il loro effetto soprattutto sugli acidi grassi
polinsaturi, di cui è ricca la membrana cellulare, le lipo-proteine circolanti
ed i polipeptidi glicati. Nel diabete è stata riscontrata una aumentata
attività di radicali liberi che può correlare con la presenza e la gravità
della retinopatia. Di recente, l'uso di sostanze con azione antiossidante quali
la vitamina C ed E nonché il glutatione ridotto e la quercitina sembrano
trovare spazio nella prevenzione della comparsa e nella progressione delle
complicanze croniche del diabete mellito.
Da
quanto precedentemente è stato esposto sulla composizione della membrana basale
risulta evidente il ruolo preponderante che hanno gli esosi nella composizione
della membrana basale. E' quindi comprensibile che l'esposizione delle cellule
per prolungati periodi ad elevate concentrazioni di glucosio possa produrre una
alterazione delle glicosilazioni enzimatiche e non enzimatiche delle proteine.
Questo avviene soprattutto in quei tessuti in cui l'insulina non è
indispensabile al trasporto intracellulare del glucosio. In questi tessuti vi è
una libera permeabilità al glucosio ed a causa della iperglicemia si determina
una elevata concentrazione intracellulare di glucosio nel loro contesto. E' noto
anche che le cellule endoteliali, produttrici della membrana basale, sono
liberamente permeabili al glucosio e che pertanto la sua utilizzazione
all'interno della cellula è strettamente regolata dalla concentrazione del
glucosio stesso nell'interstizio. Due sono gli effetti che questo fenomeno può
provocare sulla sintesi della membrana basale. Il primo riguarda la
glicosilazione della idrossilisina nella catena peptidica a livello
dell'apparato di Golgi. L'iperglicemia altera in maniera significativa la
regolazione della sintesi dei disaccaridi della membrana basale con conseguente
più elevato tenore di glicosilazione delle proteine. Il secondo effetto è a
livello della sintesi e del metabolismo delle proteine della membrana basale.
Infatti, fibroblasti coltivati in un mezzo contenente elevate concentrazioni di
glucosio aumentano significativamente la sintesi del collageno. Anche
qualitativamente il collageno prodotto in concentrazioni elevate di glucosio
risulta alterato, e contiene quantità quasi doppie di idrossiprolina rispetto
ai controlli.
A
livello renale è stata anche riscontrata in corso di iperglicemia diabetica una
riduzione dell'attività beta-galattosidasica glomerulare con conseguente
riduzione del catabolismo delle proteine. Questo è aggravato dal fatto che la
maggiore glicosilazione può ridurre anche la sensibilità delle proteine
all'azione enzimatica delle proteasi. Infine, nella malattia diabetica vi è
incremento degli inibitori dell'attività proteasica e ciò favorisce l'accumulo
di tali proteine abnormemente glicosilate.
Un'altra
lesione metabolica importante nella patogenesi della microangiopatia diabetica
consiste nell'attivazione, in presenza di elevate concentrazioni di glucosio,
dell'aldoso-reduttasi. Questo enzima catalizza la trasformazione degli esosi in
sorbitolo; tale molecola difficilmente supera la membrana plasmatica, si
accumula nella cellula intracellulare e porta in essa ad un accumulo di acqua e
sali (vedi anche nella patogenesi delle altre complicanze).
Il
quadro fisiopatologico descritto fino ad ora trova ampio riscontro nei dati
relativi alla composizione della membrana basale nei soggetti diabetici. Essa
infatti è alterata nei suoi costituenti a livello di vari organi ed apparati.
Se esaminata al microscopio ottico, la membrana basale dei microvasi risulta
ispessita e vi si nota un accumulo di materiale PAS positivo. Tale alterazione
è riscontrata anche al microscopio elettronico dove si osserva una maggiore
ampiezza delle maglie del reticolo fibrillare del collageno di tipo IV, dato che
ci rende ragione dell'accresciuta permeabilità capillare con perdita di
proteine. L'alterazione nella composizione qualitativa e quantitativa dei GAG ha
come conseguenza una modificazione delle cariche negative che sono importanti
nel trasporto delle proteine sulla base della loro carica elettrica.
Nel
diabete mellito sia clinico sia sperimentale è stato osservato uno spiccato
aumento dei valori plasmatici dell'Hb-A1C, una variante dell'Hb-A che presenta
glucosio, od un esoso analogo, legato alla molecola. Questa emoglobina, che nel
soggetto normale costituisce il 5% dell'emoglobina totale, e si ritrova invece
nei diabetici in quantità assai superiore, presenta una affinità per
l'ossigeno molto maggiore di quella dell'Hb-A; il suo aumento nel soggetto
diabetico può compromettere la cessione dell'ossigeno ai tessuti, concorrendo
in parte, a determinare quella condizione di relativa ipossia tissutale che da
tempo è stata riconosciuta in questi pazienti. La glicosilazione dell'Hb-A e
quindi la sua trasformazione in Hb-A1C è direttamente correlata con livelli
glicemici. E' da rilevare altresì che gli scambi gassosi fra circolo e tessuto
possono essere ostacolati nel diabetico, anche nelle fasi precoci della
malattia, dall'edema interstiziale conseguente all'aumento della permeabilità
capillare e dalla macroangiopatia stenosante. Che tale condizione sia in grado
di determinare, o concorrere a determinare, la microangiopatia sembra dimostrato
dall'alta prevalenza delle alterazioni microvascolari in vicinanza delle aree
retiniche di non perfusione. Del resto un ispessimento della membrana basale dei
microvasi si osserva costantemente, anche se in grado minore che nel diabetico,
nei soggetti portatori di arteriopatia cronica obliterante a livello dei tessuti
ischemici.
I
meccanismi attraverso i quali l'ipossia può indurre l'aumento di spessore della
membrana basale dei capillari sono probabilmente di vario ordine. Bisogna
comunque ricordare che l'ipossia causa una sofferenza cellulare di grado
variabile fino alla necrosi cellulare, e da questi eventi si determina una
liberazione di fattori di crescita o citochine responsabili di complicanze
microvascolari a diversi livelli, come descritto in dettaglio nella descrizione
delle complicanze distrettuali.
L'iperlipemia
non risulta chiaramente correlata con la frequenza della microangiopatia.
Tuttavia è probabile che questo fattore possa aggravare l'entità del CBMT
quando già l'aumento di spessore si è manifestato.
L'effetto
aggravante, ma non determinante, delle turbe lipidiche plasmatiche potrebbe
trovare la sua spiegazione nella perdita della permeabilità selettiva della
membrana basale ispessita che permetterebbe il transito attraverso la membrana
capillare di lipidi plasmatici in quantità eccessiva ed il loro accumulo nella
parete del vaso.
Il
fattore endocrino che sembra avere importanza nel determinismo dell'ispessimento
della membrana basale dei microvasi è l'ormone della crescita (GH). Gli
elementi per i quali viene sostenuto che il GH svolge un ruolo nel determinismo
della CBMT sono costituiti da una serie di esperimenti pionieristici nei quali
veniva rilevato un marcato miglioramento della microangiopatia diabetica, specie
a livello retinico dopo ipofisectomia, impianto intrasellare di 90Y od
irradiazione dell'ipofisi e dalla constatazione che la concentrazione sierica
giornaliera di GH è significativamente più alta della norma nei soggetti
affetti da diabete mellito. Il tasso ematico di questo ormone è scarsamente
abbassato nei diabetici dal carico glucidico, mentre aumenta significativamente
dopo lo sforzo. Infine l'assenza di alterazioni dei microvasi nei nani
ateliotici diabetici somatoprivi è un'ulteriore conferma per questa ipotesi.
Risulta anche che la somministrazione di GH può determinare nell'animale
normale le alterazioni delle cellule mesangiali renali caratteristiche del ratto
diabetico ed indurre uno spiccato aumento di spessore della membrana basale
glomerulare; inoltre questo ormone induce una spiccata proliferazione in vitro
delle miocellule della parete aortica. E' probabile che nel determinare
l'accresciuta sintesi della membrana basale dei microvasi l'ormone GH svolga
azioni combinate e coordinate con gli effetti dell'iperglicemia. Negli ultimi
tempi si è visto che la presunta azione del GH può essere dovuta ad un
coinvolgimento dell'Insulin Like Growth Factor 1 la cui produzione a livello
retinico è alterata in corso di iperglicemia e che provoca in vitro
proliferazione cellulare e sintesi dei componenti della membrana basale.
L'ispessimento
della membrana basale è certamente la più precoce e costante espressione della
microangiopatia, ma non è l'unico aspetto della compromissione microvascolare
nel diabete mellito. Specialmente dopo la fase iniziale altre modificazioni si
presentano sia a carico dei capillari sia delle arteriole e delle venule, quali
la proliferazione delle cellule endoteliali o la riduzione delle medesime, la
stenosi del lume vasale fino alla sua completa scomparsa, l'infiltrazione di
fibrina e/o di materiale lipoproteico nelle pareti dei vasi arteriosi e venosi,
la dilatazione aneurismatica e l'occlusione trombotica.
Questi
fenomeni, che non sono costanti e sono di gravità variabile nei singoli
soggetti e nei differenti settori corporei, hanno particolare importanza nel
condizionare l'evoluzione della microangiopatia e nel determinare la
compromissione funzionale delle diverse strutture ed organi.
L'iperplasia
endoteliale sembra da ascriversi a fattori metabolici ed in particolare
all'iperglicemia, all'ipossia ed all'acidosi; la desquamazione endoteliale, che
si osserva con maggior frequenza in vicinanza di aree di necrosi ischemica, ma
non esclusivamente, è forse da considerarsi prevalentemente legata al deficit
di apporto di O2; la fibrosi delle pareti arteriolari e venose è correlata in
parte con l'azione di enzimi lisosomiali immessi nello spazio interstiziale per
la sofferenza ischemica e metabolica degli elementi cellulari ed in parte con la
deposizione di fibrina nella parete stessa; la presenza di fibrina e di
materiale lipoproteico è conseguente all'aumento della permeabilità capillare
ed alla sua perdita di selettività; la frequenza delle trombosi è favorita
dalla condizione trombofilica del diabete. Sull'importanza di quest'ultimo
fattore è stata richiamata insistentemente l'attenzione negli ultimi tempi.
Le
componenti finora identificate di questa condizione trombofilica nel diabetico
sono: alcune turbe della funzione piastrinica, la riduzione di alcuni inibitori
fisiologici della coagulazione e la deficiente attività fibrinolitica.
Per
quanto riguarda il primo punto è accertata la presenza di un grado notevole di
iperadesività ed iperaggregabilità piastrinica sia in vitro sia in vivo, la
diminuzione della velocità di disaggregazione delle medesime e la riduzione del
loro ,tempo di sopravvivenza. E' stato inoltre dimostrato un aumento del
contenuto piastrinico in acido arachidonico, precursore di endoperossidi
prostaglandinici e trombossano A2, ad attività proaggreganti. Per quanto
riguarda gli altri punti è stata dimostrata una notevole diminuzione nei
diabetici dell'antitrombina III, con aumento dei fattori della coagulazione I, V
e VIII; inoltre sono aumentati costantemente alcuni fattori inibitori della
coagulazione (alfa1-antitripsina e beta2-macroglobulina) come indice di una
condizione di ipercoagulabilità. Si è constatata altresì una evidente
ipoattività fibrinolitica, sia spontanea sia da stasi venosa, ed è stata
segnalata una ridotta liberazione di attivatore del plasminogeno dalle cellule
endoteliali, con normali e bassi tassi endocellulari del medesimo.
Questa
condizione trombofilica può facilmente portare, in concomitanza di altri
fattori, a trombosi microvascolare e correlata ischemia tissutale, caduta delle
cellule endoteliali, comparsa di essudati, emorragie ed impregnazione di fibrina
sia della parete vasale che dei territori circostanti con conseguente fibrosi.
La formazione del trombo può d'altra parte essere facilitata dai tassi più
bassi della norma di prostaciclina riscontrati nei diabetici a livello
endoteliale, dalla non rara segmentale assenza del rivestimento endoteliale dei
microvasi e dalla aumentata viscosità ematica. Quest'ultima è stata più volte
documentata e viene attribuita alle modificazioni sieroproteiche. Conseguenza
diretta di questa modificazione è oltre all'aumento della viscosità plasmatica
anche l'aumentata aggregabilità eritrocitaria. I livelli di glicoproteine
circolanti sono proporzionali ai livelli glicemici e si riducono notevolmente
quando il paziente torna in buon equilibrio. Anzi, il dosaggio delle proteine
glicate nel sangue, in genere la fruttosammina, è stato introdotto recentemente
come un indicatore del controllo metabolico a breve termine (alcuni giorni), da
affiancarsi a quello oramai consolidato dell'emoglobina glicosilata, che misura
il controllo metabolico medio nei 2 mesi precedenti l'esame. E' inoltre
probabile che nel determinismo dell'iperviscosità, e conseguentemente della
facilitazione della trombosi, specie a livello dei piccoli vasi, intervengano
l'aumento dell'aggregabilità eritrocitaria e la ridotta deformabilità delle
emazie osservate nel diabetico.
Le
anomalie della aggregabilità eritrocitaria sono correlate con i livelli di
emoglobina glicosilata circolante. D'altra parte è noto che gli eritrociti dei
soggetti diabetici sono meno deformabili di quelli dei soggetti normali, e tale
anomalia è correlata con il livello di controllo metabolico della malattia. Il
fenomeno è da riportarsi ad un'aumentata glicosilazione delle proteine di
membrana ed è associata ad un elevato grado di viscosità della membrana
eritrocitaria.
La
formazione del trombo può essere inoltre determinata, in presenza della
sopradescritta condizione trombofilica, da molti altri fattori, ed in particolar
modo dall'acidosi diabetica, dall'aggravarsi dell'ipossia e dagli stati
infettivi. Lo scompenso metabolico determina un effetto lesivo a carico
dell'endotelio, aumenta la viscosità ematica, incrementa l'ipossia tissutale,
induce l'accumulo di metaboliti acidi vasoattivi e la immissione
nell'interstizio di enzimi lisosomiali.
La
patologia renale correlata con il diabete mellito è costituita dalla
glomerulopatia diabetica, dall'arteriosclerosi delle arterie renali, dalle
lesioni tubulari e dall'infezione delle vie urinarie con conseguente
pielonefrite. Spesso, il quadro anatomopatologico è costituito dalla
combinazione dei segni di glomerulosclerosi, pielonefrite e arteriosclerosi.
La
nefropatia è una delle più gravi complicanze del diabete mellito.
Dai
rilievi compiuti sulla numerosa casistica della Joslin Clinic risulta infatti
che la nefropatia rappresenta la causa di morte del 9% dei diabetici,
globalmente considerati. Lo studio comparativo dimostra che la mortalità per
nefropatia è nei diabetici di ben 17 volte superiore a quella che si riscontra
in una popolazione di non diabetici.
La
frequenza dei reperti anatomici di nefropatia nei diabetici è molto elevata.
Tipici reperti patologici sono stati riscontrati nel 75% dei soggetti diabetici
sottoposti a biopsia renale. Tuttavia la frequenza dei segni clinici di
compromissione renale è assai minore.
I
fattori etiologici che sembrano avere importanza nel determinismo della
nefropatia diabetica sono gli stessi già esaminati nel capitolo della
microangiopatia diabetica. Particolare valore è pertanto attribuito dalla
maggior parte degli Autori all'iperglicemia derivante dalla deficienza
dell'attività insulinica ed alle sue conseguenze in considerazione del fatto
che tipiche lesioni renali diabetiche sono state osservate in soggetti con
diabete pancreatico e con emocromatosi, come pure nel diabete da allossana o
dopo pancreasectomia totale. Un fattore che sembra decisamente influenzare la
frequenza e la gravità della compromissione renale è la durata del diabete, in
quanto il numero dei soggetti con reperti bioptici e sintomatologia clinica
caratteristici della compromissione aumenta col progredire degli anni
dall'inizio del diabete.
Le
fondamentali lesioni anatomopatologiche del rene diabetico sono costituite da:
1)
la lesione nodulare, caratterizzata dalla presenza di una o più masserelle
jaline rotondeggianti e fortemente PAS-positive, situate al centro di un lobulo
periferico del glomerulo; l'incidenza di questa lesione è diversamente valutata
dai vari Autori: dal 25 al 60%;
2)
la glomerulosclerosi diffusa, che consiste in un ispessimento diffuso della
membrana basale; questo quadro è più frequente della forma nodulare;
3)
la lesione essudativa, la meno specifica delle tre, che è ad insorgenza tardiva
ed è caratterizzata dalla presenza di lesioni essudative (cappe fibrinoidi) e
di gocce capsulari (o ialine). Queste ultime sono formazioni rotondeggianti, di
composizione simile alle cappe fibrinoidi, che si ritrovano sul versante
epiteliale nella capsula di Bowmann.
Un'altra
caratteristica del rene diabetico è costituita dalle gravi lesioni delle
arteriole preglomerulari con marcata stenosi del lume vasale.
La
microscopia elettronica ha evidenziato particolari aspetti della nefropatia
diabetica. L'alterazione fondamentale è costituita dall'ispessimento della
membrana basale del glomerulo; nelle fasi più avanzate lo spessore della
membrana basale è anche di sei volte superiore alla norma. I pedicilli sono in
alcuni casi parzialmente fusi e possono, nei casi più avanzati, risultare del
tutto assenti. E' stata rilevata una correlazione positiva tra spessore della
membrana basale e durata del diabete.
La
patogenesi della nefropatia diabetica si identifica con quella della
microangiopatia. Occorre peraltro ricordare come nel rene l'insulina non sia
indispensabile al trasporto del glucosio e quindi l'iperglicemia che si instaura
come conseguenza della carenza insulinica, o della sua inefficienza funzionale,
produce un rapido aumento dei tassi del glucosio a livello delle cellule renali.
Le conseguenze sono molteplici: si assiste ad un aumento delle glicosilazioni
enzimatiche e non enzimatiche delle proteine che, assieme all'aumento dei
radicali liberi, determina un primo danno delle cellule endoteliali. Ne deriva
una diminuzione della sintesi dei GAG, con riduzione delle cariche negative, ed
al tempo stesso un ispessimento della membrana basale con allargamento dei pori
delle maglie del connettivo reticolare. L'azione di filtrazione glomerulare
comporta in queste condizioni passaggio di proteine che prima venivano
trattenute. La perdita avviene prima in base alla carica delle proteine, con
perdita preferenziale delle proteine a carica anionica, e successivamente in
base al peso molecolare, con perdita di proteine gradatamente di peso più
elevato. Anche l'attivazione dello shunt dei pentoso-fosfati, la diminuzione
della sintesi del mioinositolo e la diminuzione dell'attività ossidoriduttiva
concorrono alla genesi del danno iniziale della cellula endoteliale. Gli elevati
livelli di glucosio determinano inoltre un aumento della reattività piastrinica
con aumento della produzione di trombossano A2 e diminuzione della sintesi di
prostaciclina. Da ciò consegue una iperaggregabilità piastrinica facilitata
dall'aumento del fattore VIII e dalla diminuzione della fibrinolisi, con
conseguenti microtrombosi, ischemia tissutale e liberazione di fattori di
crescita che concorrono alla genesi della microangiopatia. Un ulteriore
meccanismo invocato nella patogenesi della nefropatia diabetica è quello della
alterazione del sistema di controtrasporto sodio-litio. Questo genera un aumento
del sodio intracellulare ed un'alterazione del pH (alcalinizzazione), che a loro
volta sono causa del danno della cellula endoteliale del glomerulo.
Anche
i fattori di crescita sono coinvolti nella patogenesi della sofferenza
glomerulare diabetica. Quelli maggiormente implicati sono l'Insulin Like Growth
Factor 1, il Tumor Necrosis Factor ed il Vascular Endothelial Growth Factor.
Recenti esperimenti, anche del nostro gruppo, sembrano far pensare che il
TNF-beta sia il principale fautore della sintesi di matrice extracellulare
mesangiale, mentre l'IGF-1 sarebbe implicato anche nella proliferazione delle
cellule mesangiali.
Dal
punto di vista clinico non è facile inquadrare la nefropatia diabetica,
principalmente per la scarsità dei sintomi, segni clinici e reperti di
laboratorio, nelle fasi precoci. Si deve inoltre precisare che la nefropatia
diabetica ha tempi di insorgenza e velocità di progressione diversi nei due
tipi di diabete; questo è da attribuirsi a vari fattori quali: a) età di
insorgenza, che è notevolmente più bassa nel tipo I; b) periodo di latenza,
che manca nel tipo I e che è molto variabile nel tipo II; c) malattie
intercorrenti quali ad esempio l'ipertensione che nel tipo II può precedere la
comparsa del diabete. Una classificazione che consente un buon inquadramento
clinico della nefropatia diabetica è quella prospettata da Mogensen nel 1983 ed
accettata a tutt'oggi dalla stragrande maggioranza degli studiosi. In questa
classificazione che è stata studiata nei diabetici di tipo I si identificano 5
fasi o stadi.
Nel
primo stadio si assiste ad una iniziale ipertrofia-iperfunzione del rene, già
presente al momento della diagnosi di diabete mellito. Il rene è aumentato di
volume, con aumento del volume glomerulare ed ipertrofia-iperplasia del nefrone.
Il filtrato glomerulare è molto aumentato (aumento della clearance creatininica),
la perdita di albumina è rilevabile con la tecnica della microalbuminuria, e la
pressione arteriosa è normale.
Nel
secondo stadio si ha il danno renale senza segni clinici: questo inizia dopo
circa 2 anni dalla diagnosi di diabete mellito. Compare l'aumento dello spessore
della membrana basale e l'aumento del mesangio. Il filtrato glomerulare è
aumentato, l'escrezione di albumina è normale o comincia a comparire la
microalbuminuria, la pressione arteriosa è normale.
Nel
terzo stadio si assiste alla comparsa della incipiente sintomatologia clinica
della nefropatia diabetica, e questo si instaura tra i 10 e i 15 anni di
malattia diabetica. Il quadro istologico renale è immutato rispetto allo stadio
2, ma il filtrato glomerulare è normale, è presente una micro- o
macroalbuminuria e la pressione si fa modicamente elevata.
Nel
quarto stadio si ha la nefropatia diabetica clinicamente conclamata che compare
dopo i 15-20 anni di malattia. Il reperto istologico è caratterizzato da
glomerulosclerosi diffusa e nodulare, si assiste ad assottigliamento e fibrosi
capsulare con ialinosi arteriolare. Il filtrato glomerulare è ridotto,
l'escrezione di albumina fortemente aumentata e la pressione arteriosa elevata.
Il
quinto stadio è quello della insufficienza renale terminale, con esito finale
dopo 25-30 anni di malattia; questo è dominato da un quadro di sclerosi
glomerulare. Il filtrato glomerulare è fortemente ridotto, così come è
ridotta la escrezione di albumina, mentre si assiste in genere ad un cospicuo
aumento della pressione arteriosa con quadri di vera e propria ipertensione
maligna.
Questi
ultimi stadi sono pertanto caratterizzati da proteinuria cospicua, edemi
diffusi, insufficienza renale ed ipertensione arteriosa grave, complesso
sintomatologico che costituisce la "sindrome di Kimmelstiel e Wilson".
I
tempi di latenza delle varie fasi sopra descritte sono stati studiati nel
diabete mellito di tipo II, i tempi di latenza sono molto più variabili in
relazione a vari fattori (età di insorgenza, periodo precedente le anomalie
manifeste del ricambio dei carboidrati ecc.).
Si
deve ricordare che la proteinuria è all'inizio irregolarmente presente
(soltanto dopo strapazzo fisico od alimentare, dopo un episodio febbrile ecc.),
e successivamente diviene stabile; che gli edemi possono essere modesti, che la
riduzione della clearance renale è precoce, ma si aggrava di regola lentamente
negli anni. Questo dato spiega la ragione per la quale, pur essendo precoci le
alterazioni anatomopatologiche del rene, i diabetici vengono a morte più
frequentemente per altre complicanze della malattia piuttosto che per
insufficienza renale.
Nel
determinismo e nell'evoluzione della insufficienza renale clinicamente manifesta
i fattori infettivi giocano un ruolo importante.
E'
noto che il diabete mellito favorisce l'instaurarsi ed il cronicizzare dei
processi infettivi. Questa condizione di minore resistenza alle infezioni è da
correlarsi con il deficit di funzionalità granolucitaria e con la depressione
della reattività immunologica cellulare presenti in questi pazienti.
Fra
i processi infettivi cronici, riscontrati nei diabetici, particolare frequenza
hanno le infezioni delle vie urinarie. I dati riguardanti l'incidenza di questo
tipo di infezioni sono assai variabili, il che è in parte dovuto alla
diversità dei criteri di valutazione dei reperti riscontrati. Alcuni Autori
hanno osservato la presenza in un numero elevato di diabetici di batteriuria
clinicamente silente, altri invece non hanno riscontrato differenze sensibili
rispetto a soggetti di controllo. Più alta sarebbe l'incidenza della
leucocituria nei diabetici, quale indice di pielonefrite cronica.
Che
un processo pielonefritico cronico possa precipitare nel diabetico
l'insufficienza renale è comprensibile se si considera che tale condizione è
già di per sé in grado di ridurre l'efficienza dell'organo e può accentuare
l'effetto di quei fattori che sono responsabili della nefrosclerosi
intercapillare. La compromissione delle arteriole preglomerulari è di
particolare importanza. La ialinosi di queste arteriole, con la conseguente
riduzione del lume vascolare era già stata segnalata nella nefropatia diabetica
di Kimmelstiel e Wilson, ma è rilevante l'osservazione che questi processi
interessano prevalentemente l'arteriola afferente e che essi sono presenti e di
pari entità anche nei diabetici non ipertesi, così da risultare un elemento
sufficientemente caratteristico ed utile per la diagnosi. E' da escludere che
queste alterazioni siano la causa principale delle alterazioni glomerulari in
quanto l'arteriosclerosi in assenza di diabete determina un quadro istologico
diverso da quello della glomerulosclerosi intercapillare, caratterizzato da
atrofia ischemica del glomerulo; è possibile invece che esse siano conseguenza
della patologia glomerulare diabetica o siano determinate da meccanismi analoghi
a quelli che causano le lesioni essudative glomerulari. E' suggestivo pensare
che in corso di infezione e nelle fasi di scompenso metabolico del diabete si
possa avere, per liberazione di sostanze vasoattive e di enzimi lisosomiali, un
brusco aggravamento della stenosi, e quindi l'ischemia, con le relative
conseguenze sulla efficienza funzionale del rene.
Recenti
studi ultrastrutturali condotti su biopsie renali di pazienti con diabete
mellito di tipo II hanno messo in evidenza che solo in circa il 30% dei casi
sono presenti quadri anatomopatologici simili a quelli riscontrati nel diabete
di tipo I con grave espansione mesangiale, mentre in oltre il 40% dei casi sono
presenti segni preponderanti di sclerosi delle arteriole periglomerulari accanto
ad una espansione mesangiale di lieve entità.
Lesioni
tubulari di vario tipo sono descritte in corso di diabete mellito.
L'infiltrazione di glicogeno delle cellule tubulari (fenomeno di
Armanni-Ebstein) si verifica nel diabete incontrollato. Sembra che esso
costituisca una risposta tissutale alla disidratazione.
La
necrosi tubulare acuta è una complicanza frequente nel coma diabetico. E'
probabilmente correlata con la deplezione acuta di potassio che si verifica nel
coma, ma sembra che anche gli episodi di grave e prolungata ipotensione e shock
ne siano in parte responsabili. Altri segni di sofferenza tubulare in corso di
diabete sono costituiti dalla comparsa di una bassa soglia renale per il
glucosio e per l'acido lattico.
Nel
corso della malattia diabetica l'occhio è molto frequentemente interessato
dalle complicanze della malattia. Sono principalmente interessati il cristallino
e la retina.
L'opacizzazione
del cristallino (cataratta) insorge con più frequenza e più precocemente nei
diabetici. Un fattore patogenetico importante in questa patologia è
rappresentato dall'aumento della ossidazione dei gruppi sulfidrilici a livello
del cristallino. La conseguente formazione di legami incrociati tra le varie
molecole sarebbe responsabile della polimerizzazione delle proteine del
cristallino in aggregati a più elevato peso molecolare. Il fenomeno è
aggravato dalla tendenza delle proteine del cristallino a subire ossidazione
sulfidrilica, per glicosilazione non enzimatica.
Un
ulteriore meccanismo che determina l'instaurarsi della cataratta è
rappresentato dalla formazione dei polioli in eccesso; in presenza di elevate
concentrazioni di glucosio, per la ridotta attività insulinica, viene attivato
anche nel cristallino l'enzima aldoso-reduttasi che catalizza la trasformazione
del glucosio e/o del galattosio in sorbitolo. L'eccessiva concentrazione di
polioli determina, a sua volta, un rigonfiamento osmotico che richiama ioni
sodio, in questo contesto si ha la precipitazione di cristalli che peggiora
l'opacizzazione della lente. L'osservazione che l'uso di farmaci inibitori della
aldoso-reduttasi può ritardare l'insorgenza della cataratta diabetica
nell'animale da esperimento è un dato a sostegno di tale ipotesi.
Dall'era
preinsulinica ad oggi la frequenza della retinopatia diabetica è andata
progressivamente aumentando. Attualmente la sua incidenza si aggira intorno al
50%.
La
frequenza di questa complicanza è in rapporto diretto con il tempo trascorso
dalla diagnosi della malattia, con l'età del paziente e con il grado di
controllo delle alterazioni metaboliche del diabete.
Al
momento della diagnosi segni di retinopatia sono presenti in circa il 6% dei
casi. A distanza di 15 anni dal riconoscimento del diabete circa il 41% dei
pazienti mostra segni di retinopatia ed a distanza di 25 anni questi segni sono
presenti in percentuale variabile dal 67 all'80%.
La
vista non è necessariamente ridotta nei soggetti con retinopatia diabetica
essendo danneggiata soltanto quando le lesioni interessano la macula o quando è
presente neoformazione vasale che interessi il vitreo. Tuttavia in un gruppo di
diabetici affetti da retinite proliferante, è stato rilevato che la riduzione
del visus aumentava progressivamente con il
passare
del tempo, tanto che a distanza di 5 anni della prima osservazione la metà dei
pazienti di questo gruppo erano giunti alla cecità totale.
La
retinopatia diabetica è costituita da un insieme di lesioni degenerative,
essudative e proliferative i cui elementi fondamentali sono la dilatazione
segmentaria dei vasi, i microaneurismi, le emorragie, gli essudati, le
obliterazioni delle arteriole precapillari e dei capillari, la neoformazione
vascolare ed infine la retinite proliferante (fig.03
La
lesione più caratteristica, se pure non esclusiva, è costituita dai
microaneurismi. Questi appaiono all'osservazione clinica come piccole formazioni
rosse puntiformi, spesso numerose, dislocate soprattutto in corrispondenza della
regione polare posteriore e nelle vicinanze di altre lesioni retiniche, quali le
zone di essudazione, di occlusione vascolare o di neoformazione vascolare. Si
tratta di piccole dilatazioni sacciformi, sferiche od ovoidali, a carico
prevalentemente del lato venoso dei capillari secondo alcuni, prevalentemente a
carico di quello arterioso secondo altri. I microaneurismi possono andare
incontro a rottura e possono regredire spontaneamente. Un altro segno iniziale
della retinopatia diabetica è costituito dalla dilatazione, talvolta fusiforme
dei vasi venosi di maggiore calibro.
Le
emorragie sono talora piccole e puntiformi, spesso rilevabili in vicinanza delle
piccole venule perimaculari, talora invece più ampie. Possono essere profonde o
superficiali. Mentre le emorragie superficiali regrediscono facilmente senza
lasciare traccia, quelle più profonde permangono per mesi. Le estese emorragie
superficiali possono associarsi alla presenza di numerose piccole venule
neoformate, dalla rottura delle quali si pensa debbano derivare le emorragie.
Gli
essudati si presentano sotto forma di chiazze bianco-ceree con disposizione
digitata od a ventaglio (essudati duri). Sono situati nello strato plessiforme
esterno e consistono di depositi ialini PAS-positivi, contenenti talora sostanze
lipidiche. Contengono fibrina ed altre sostanze proteiche che, attraverso i vasi
lesi, provengono dal sangue circolante.
Oltre
a queste macchie ceree di essudato si possono osservare macchie o placche
cosiddette a "fiocco di cotone" (essudati molli). Rappresentano zone
di ischemia che si formano là dove le piccole arterie precapillari si
occludono. Contengono frammenti di cilindrassi in via di degenerazione. Queste
chiazze biancastre non sono pertanto degli "essudati", ma aree dello
strato delle fibre nervose necrotiche per microinfarti.
L'ultimo
elemento che caratterizza il quadro è la neoproduzione vasale. Nelle zone
adiacenti ai territori ischemici si formano gruppi di nuovi vasi. Questi vasi
neoformati possono essere messi in evidenza con particolare chiarezza mediante
l'iniezione di fluoresceina la quale permette una visualizzazione perfetta di
tutta la rete capillare. La retinopatia proliferativa è caratterizzata da
neoformazione di vasi che penetrano nel corpo vitreo, con formazione di dense
membrane, a partire da tutti i quadranti della retina, che talora finisce per
distaccarsi. Più spesso si verifica negli stati avanzati della retinopatia
diabetica e ne rappresenta l'aspetto più grave in quanto comporta una
progressiva riduzione del visus. La neoformazione vasale sembra determinata
dall'ischemia; sono stati isolati fattori di crescita, generati o liberati dalla
retina in corso di iperglicemia cronica o per processi legati all'interezione
tra AGE e loro recettori, ischemia o necrosi, capaci di determinare la
neoproduzione microvascolare (Platelet-Derived Growth Factor, Insulin-Like
Growth Factor I, Tumor Necrosis Growth Factor Beta, Vascular Endothelial Growth
Factor, Fibroblast Growth Factor).
Sul
piano clinico la retinopatia diabetica viene distinta in "non
proliferante" e "proliferante" a seconda che siano o non siano
presenti spiccati fenomeni di neoformazione vasale.
La
retinopatia "non proliferante" è caratterizzata, oltre che dalla
presenza di microaneurismi, di emorragie e di essudati anche dall'aumentata
permeabilità capillare retinica che viene con grande precisione evidenziata
dall'angiografia a fluorescenza e dalla presenza di piccole aree di non
perfusione capillare retinica individuabili all'esame diretto come
"essudati molli" e meglio definibili mediante l'angiografia a
fluorescenza. Lo studio della permeabilità capillare retinica permette di
riconoscere le fasi iniziali della sofferenza retinica e di valutarne nel tempo
le modificazioni.
La
retinopatia "proliferante" è caratterizzata dalla neoformazione
vasale, che di regola inizialmente interessa la periferia retinica. I vasi
neoformati si dispongono in un primo tempo sulla superficie retinica e
successivamente invadono il vitreo. La neoformazione vasale è correlata con la
comparsa delle aree ischemiche della retina.
Accanto
alle componenti della retinopatia diabetica fin qui esaminate sono da ricordare
le alterazioni sclerotiche delle arterie, regolarmente presenti, dopo un periodo
variabile dall'inizio della patologia retinica, anche nei pazienti non ipertesi.
In
linea generale, se si accetta la tesi che la retinopatia è in definitiva
soltanto l'espressione locale della generalizzata microangiopatia diabetica, i
problemi patogenetici ed evolutivi della forma si identificano con quelli già
discussi della patologia microvascolare.
Le
diverse lesioni che abbiamo singolarmente descritto si trovano nella retinopatia
associate tra di loro in vario modo a seconda del grado di evoluzione e della
gravità della malattia.
La
formazione degli essudati e delle emorragie, così come quella delle aree di
necrosi, sono conseguenza diretta delle alterazioni parietali dei microvasi. A
facilitare l'occlusione del vaso e la sofferenza della parete vasale potrebbero
intervenire la formazione dei depositi lipidici nella parete e la costituzione
di aggregati lipidici nel suo lume, come pure la formazione di trombi, favorita,
da un lato dalle alterazioni endoteliali e dall'altro, dalla condizione
trombofilica presente nei soggetti diabetici.
Tuttavia
la microangiopatia retinica dei diabetici non si identifica completamente con la
microangiopatia sistemica di questi pazienti.
Si
è osservato che i periciti intramurali dei capillari retinici degenerano
precocemente nel diabete, persistendo al loro posto soltanto un'ombra di nucleo,
i cosiddetti mural cell ghost; la sofferenza di questi elementi sembra specifica
del danno diabetico. Si deve ricordare, comunque, che la funzione dei periciti
è ancora discussa.
Le
ipotesi che vedono nella microangiopatia la causa unica della retinopatia sono
state criticate in base al fatto che l'occlusione sperimentale delle arterie
retiniche non è in grado di provocare la formazione di microaneurismi.
Alcuni
Autori, infatti, pensano che le lesioni caratteristiche della retinopatia
diabetica siano conseguenza anche delle alterazioni metaboliche del tessuto
retinico, il quale ha una elevata richiesta di energia che gli deriva, in
condizioni normali, soprattutto da processi di glicolisi.
Nel
diabete mellito la cronica alterazione metabolica dei glicidi condurrebbe
gradualmente ad alterazioni osmotiche della retina cui consegue imbibizione
idrica e turgescenza del tessuto. Questa aumentata tensione intraretinica
ostacolerebbe la circolazione capillare e ne conseguirebbero stasi, anossia,
alterazioni parietali degenerative dei capillari, microaneurismi ed essudati.
Un
altro fattore patogenetico della retinopatia diabetica è quello delle turbe di
regolazione dell'ormone della crescita. I meccanismi d'azione attraverso i quali
l'eccesso di GH può provocare l'aggravamento della retinopatia sono, peraltro,
già stati esaminati trattando la patogenesi della microangiopatia.
Il
decorso della retinopatia diabetica è quanto mai irregolare. Le lesioni minori
talvolta rimangono invariate per 10-15 anni e la regressione dei singoli
elementi costituenti la retinopatia è stata osservata da molti, specialmente
nei soggetti in età giovanile. La regressione è più frequente nei primi anni
della malattia. Riduzione in numero e volume dei microaneurismi è stata notata
nel 16,1% dei casi entro il primo anno dal riconoscimento del diabete e nel 2,7%
entro i cinque anni; scomparsa degli essudati e delle emorragie nel 6,2% dei
casi.
Un
quadro florido di retinopatia con presenza di molti microaneurismi ed emorragie
può trasformarsi col tempo in una forma con alterazioni modeste; anche
emorragie gravi e ripetute del vitreo possono regredire completamente senza
aggravamento della riduzione del visus. L'elemento più grave per la prognosi è
costituito dalla presenza di neoformazione vasale.
Ma
anche questo rilievo non comporta necessariamente una prognosi infausta per il
visus. Infatti in circa il 10% dei pazienti con retinopatia diabetica
proliferante si osserva arresto spontaneo del processo per periodi di un anno e
più. Specialmente nelle fasi iniziali della retinopatia un buon controllo del
metabolismo glucidico influenza beneficamente i sintomi della retinopatia e ne
rallenta l'evoluzione.
La
macroangiopatia rappresenta uno dei maggiori problemi per il paziente diabetico,
sia insulino-dipendente (IDDM) che non insulino-dipendente (NIDDM), dal momento
che è alla base di circa l'80% delle cause di morte nei soggetti diabetici.
L'aterosclerosi coronarica è responsabile di circa i 3/4 della mortalità nei
diabetici, il resto della mortalità è dovuto a malattie vasculari cerebrali e
periferiche degli arti inferiori. La malattia coronarica, la vasculopatia
cerebrale e l'arteriopatia periferica hanno una prevalenza da 2 a 4 volte
maggiore nei diabetici rispetto alla restante popolazione. Comparativamente ai
controlli l'infarto è due volte più frequente nei soggetti diabetici maschi e
tre volte più frequente in quelli di sesso femminile. L'arteriopatia degli arti
inferiori è prevalentemente localizzata alle arterie tibiali, anteriore e
posteriore, ed a quelle peroneali mentre nei soggetti non diabetici interessa
quasi regolarmente le arterie femorale e poplitea. L'ictus cerebrale è circa
due volte più frequente nei soggetti con diabete conclamato rispetto alla
popolazione generale.
Questi
dati trovano conferma in numerosi studi condotti in estese fasce di popolazione.
Lo studio di Framingham, in soggetti di età compresa tra 35 e 64 anni, ha
evidenziato come il rischio annuale, corretto per età, delle malattie
cardiovascolari dei soggetti diabetici nei confronti dei non diabetici maschi e
femmine era compreso tra il doppio dell'aumento del rischio relativo per le
coronaropatie nel maschio diabetico, a più di 8 volte per le vasculopatie degli
arti inferiori e le coronaropatie nelle donne diabetiche. Nella maggior parte
degli studi condotti, l'aumento relativo di malattia aterosclerotica nei
soggetti diabetici sembra essere più evidente nel sesso femminile, rispetto a
quello maschile, eliminando così la relativa protezione che caratterizza le
donne non diabetiche di età media nei confronti dell'aterosclerosi.
Il
diabete mellito è anche la causa più comune di coronaropatia nei giovani;
circa il 50% dei pazienti con nuova diagnosi di NIDDM ha infatti evidenziato una
preesistente malattia coronarica al momento della diagnosi di diabete. E'
accertato altresì che l'evoluzione dell'infarto del miocardio è nei diabetici
più grave che nei controlli, in quanto un numero maggiore degli infartuati con
alterazione del ricambio glucidico viene a morte entro 5 anni dall'episodio
acuto.
Studi
autoptici hanno evidenziato una estensione maggiore ed un anticipo nel tempo del
processo aterosclerotico coronarico nei diabetici, rispetto ai soggetti di
controllo. Un dato interessante deriva da uno studio condotto su giovani affetti
da IDDM; infatti in soggetti con esordio del diabete prima dei 15 anni di età,
deceduti prima dei 40 anni di età, è stato riscontrato un severo e diffuso
restringimento delle arterie coronarie principali. Questi dati sono stati
confermati da studi coronarografici su pazienti affetti da coronaropatia
sintomatica. Lo stesso andamento presenta la prevalenza di lesioni
aterosclerotiche a carico delle arterie al di sotto del ginocchio con una
frequenza maggiore nel paziente diabetico rispetto ai controlli.
I
meccanismi che sono alla base dell'elevata incidenza di aterosclerosi nei
soggetti diabetici sono da riportare in parte al diabete di per sé ed in parte
alla maggior prevalenza di alcuni tra i principali fattori di rischio per
l'aterosclerosi, come per esempio le alterazioni del metabolismo lipidico.
Infatti con una certa frequenza nei diabetici si riscontrano ipertrigliceridemia
associata a ipercolesterolemia. L'entità di tali alterazioni non è ben
conosciuta e varia nei diversi studi, anche perché sulla reale prevalenza di
dislipidemia nel diabete interferiscono diversi fattori, primo fra tutti il
grado di compenso glicemico, ma anche l'ipertensione arteriosa ed il fumo di
sigaretta.
Questi
fattori di rischio, che sono tuttavia gli stessi fattori di rischio anche nella
popolazione non diabetica, hanno un potere maggiore sulla mortalità
cardiovascolare nei pazienti con diabete mellito. L'ipertensione è presente nel
35% dei pazienti con IDDM ed in circa il 50% di quelli con NIDDM. Anche altri
fattori di rischio (dislipidemie, obesità) per aterosclerosi hanno una maggiore
prevalenza nei diabetici.
Comunque,
nonostante le differenze esistenti tra le diverse popolazioni studiate, sembra
che, almeno per quanto riguarda il NIDDM, la prevalenza della dislipidemia, in
particolare l'ipertrigliceridemia (o meglio VLDL-trigliceridi) e la riduzione
del colesterolo HDL, sia 2-3 volte superiore rispetto alla popolazione non
diabetica. Infatti mentre il colesterolo LDL può essere normale o modestamente
aumentato, dai dati dello studio di Framingham si deduce che gli aumenti estremi
di trigliceridi e di VLDL, così come la riduzione dei livelli di colesterolo
HDL, sono circa 2 volte superiori rispetto alla popolazione normale. Pertanto le
alterazioni del metabolismo lipidico in corso di diabete rappresentano un
problema di notevole entità, che va attentamente studiato dal punto di vista
fisiopatologico e adeguatamente trattato dal punto di vista terapeutico per
cercare di ridurre il rischio cardiovascolare nei pazienti diabetici.
L'ipertensione
ha una prevalenza maggiore nella popolazione diabetica, sia IDDM che NIDDM,
rispetto alla popolazione generale; rappresenta un fattore di rischio per
l'aterosclerosi sia nei diabetici sia nei non diabetici.
Nei
soggetti affetti da NIDDM esiste frequentemente una condizione di
iperinsulinismo associato ad insulinoresistenza. Gli elevati livelli circolanti
di insulina devono essere considerati un fattore importante nella patogenesi
della lesione aterosclerotica nel diabetico. La condizione di insulinoresistenza
e di iperinsulinismo si associa frequentemente ad obesità centrale,
dislipidemia e ad ipertensione aumentando notevolmente il rischio di
aterosclerosi.
L'obesità
viscerale comporta un rischio maggiore per la malattia macrovascolare rispetto
all'obesità sottocutanea. Infatti l'accumulo di adipe a livello viscerale si
associa frequentemente ad insulinoresistenza ed iperinsulinismo, spesso
coesistono alterazioni lipidiche con aumento dei livelli circolanti di
trigliceridi, riduzione del colesterolo HDL, aumento delle particelle di LDL
piccole e dense.
L'aumento
della prevalenza delle lesioni aterosclerotiche nel diabete può essere
correlato solo in parte ad un eccesso di fattori di rischio (dislipidemia,
ipertensione, obesità centrale). Di fatto la sola presenza dei vari fattori di
rischio cardiovascolare è insufficiente a spiegare il notevole aumento delle
lesioni aterosclerotiche nel diabetico; ciò lascia presumere che esistano altri
meccanismi specifici, nel diabete, in grado di favorire i processi di
aterogenesi.
La
glicazione non enzimatica delle proteine è un processo molto esteso nei
soggetti diabetici rispetto al resto della popolazione. Il processo di
glicazione non enzimatica, in genere, viene messo in relazione
all'invecchiamento e pertanto la condizione diabetica si può considerare come
uno stato di invecchiamento accelerato con tutti i fenomeni ad esso correlati.
Non sono comunque noti con esattezza i meccanismi attraverso cui la glicazione
delle proteine favorisca le alterazioni aterosclerotiche. Alcuni studi hanno
evidenziato che: la glicazione non enzimatica delle proteine limita il legame
delle LDL al loro recettore, riducendone così il loro metabolismo; la
glicazione dell'HDL ne favorisce la sua eliminazione dal plasma riducendo la
capacità di stimolare l'uscita di colesterolo dalle cellule arteriose.
La
glicazione del collageno potrebbe favorire, inoltre, i processi aterogenetici
tramite l'intrappolamento delle lipoproteine nella matrice extracellulare,
rendendole più suscettibili alle modificazioni ossidative; inoltre il collagene
glicato favorisce i processi di aggregazione piastrinica, favorendo, così, le
fasi tardive dell'aterogenesi.
Dalla
glicazione del collagene e delle altre proteine derivano i prodotti tardivi di
glicazione avanzata (AGE). E' stato dimostrato che gli AGE sono in grado di
favorire la migrazione attraverso l'endotelio dei monociti e la conseguente
espressione del PDGF da parte dei macrofagi, giocando un ruolo importante negli
stadi precoci dell'aterogenesi.
Oltre
ai processi di glicazione non enzimatica le lipoproteine, nel diabetico, possono
subire altre modificazioni che le rendono potenzialmente aterogene.
L'ossidazione delle LDL induce l'adesione dei monociti all'endotelio, stimola la
chemiotassi nei confronti dei monociti e svolge un'azione citotossica per le
cellule endoteliali. I processi di ossidazione, nel diabetico, sono accelerati e
favoriti dalla glicazione delle proteine. Le LDL glicate possono essere
immunogene e stimolare, quindi, la formazione di anticorpi circolanti. Gli
immunocomplessi circolanti possono essere fagocitati dai macrofagi, favorendo,
per la grande quantità di lipidi in essi presenti, la formazione delle cellule
schiumose. Il diabete mellito si associa ad una condizione di predisposizione ai
processi trombotici a causa della presenza di alterazioni dell'aderenza e
dell'aggregazione delle piastrine riscontrata nei diabetici. Inoltre, i livelli
di numerosi fattori della coagulazione e dell'inibitore dell'anticoagulante del
plasminogeno tissutale (TPA) sono aumentati nel diabetico favorendo in
definitiva i processi della coagulazione.
I
fattori di crescita e le citochine svolgono ruoli importanti nella chemiotassi e
nella proliferazione delle cellule muscolari lisce della parete arteriosa.
Esistono pochi dati sulle alterazioni a carico di questi fattori nel diabetico.
Tra le citochine, che possono essere coinvolte nei processi di aterogenesi
ricordiamo: le interleuchine 1, 2 e 6, il Clony Stimulating Factors (CSFs), il
Tumor Necrosis Factor (TNF); tra i fattori di crescita ricordiamo: il Platelet
Derived Growth Factor (PDGF) prodotto dalle cellule della placca in via di
sviluppo, dalle cellule endoteliali, dai macrofagi e dalle cellule muscolari
lisce; l'Insulin-Like Growth Factor (IGFI), il Fibroblast Growth Factor (FGF) ed
il Transforming Growth Factor (TGF e Beta). Queste molecole regolano i processi
di crescita cellulare e numerosi aspetti dell'immunità che finiscono per agire,
con meccanismi poco noti, sul processo aterogenetico.
La
lesione precoce dell'ateroma, stria lipidica, è provocata dall'accumulo di
cellule contenenti grassi (cellule schiumose) negli spazi subendoteliali. Queste
cellule schiumose derivano per lo più da monociti circolanti che hanno
fagocitato i lipidi provenienti dalle lipoproteine presenti in circolo. Lo
sviluppo della stria lipidica comporta la migrazione delle cellule schiumose dal
circolo alle lesioni iniziali della parete arteriosa, probabilmente a causa
della presenza di aree danneggiate del rivestimento endoteliale. Al processo
concorrono inoltre le cellule muscolari lisce che proliferano, migrano nella
lesione iniziale e quindi producono tessuto collagene per la formazione della
placca fibrosa, oppure fagocitano i lipidi e si trasformano in cellule
schiumose. Con il progredire della lesione, le strie lipidiche tendono ad
ingrandirsi, si accumulano abbondanti depositi extracellulari di lipidi e si
attiva un processo reattivo fibrotico molto simile al processo di guarigione di
una ferita. Ne deriva lo sviluppo di una placca fibroadiposa priva di un
rivestimento endoteliale che favorisce l'aggregazione piastrinica, il deposito
di fibrina e, in qualche punto, la trombosi intravasale responsabile della
manifestazione clinica finale.
In
conclusione, alla luce delle più recenti acquisizioni, si può ritenere che la
facilitazione dell'aterogenesi nel diabetico sia da attribuire in parte alla
frequente presenza dei comuni fattori di rischio, in parte alla presenza di
condizioni patologiche che sono tipiche della malattia diabetica. Queste ultime
riguardano il connettivo con il processo di glicazione delle proteine, la
condizione trombofilica dei diabetici, l'ischemia correlata con i gradi più
avanzati di microangiopatia nella parete dei vasi arteriosi e verosimilmente
anche l'anomala proliferazione, legata alla maggior produzione di alcuni fattori
di crescita, di particolari cloni miocellulari ed infine la precipitazione di
immunocomplessi a livello della parete arteriosa. Inoltre, bisogna considerare
che le alterazioni microvascolari riducono la possibilità di formazione dei
circoli collaterali in caso di ostruzione arteriosa; le anomalie metaboliche
tissutali riducono la capacità di adattamento in caso di ischemia; le
alterazioni dell'innervazione simpatica riducono il controllo neurotrofico
rendendo inadeguate le reazioni vasomotorie atte a favorire la formazione dei
circoli collaterali.
In
accordo con la definizione elaborata dalla Consensus Conference di S. Antonio
(1988);la neuropatia diabetica è considerata un disordine neurologico, clinico
o subclinico, presente in soggetti diabetici in assenza di altre cause di
neuropatia. Essa colpisce il sistema nervoso periferico sia a carico della
componente somatica che autonomica. In studi recenti su popolazioni la
prevalenza globale della neuropatia diabetica è del 25-30% dei soggetti
esaminati con valori più bassi alla diagnosi che crescono con l'aumentare degli
anni di malattia. Peraltro l'uso di metodi più sensibili di indagine fanno
aumentare notevolmente l'incidenza della complicanza.
Da
un punto di vista anatomopatologico, la neuropatia diabetica è caratterizzata
da un danno assonale con perdita delle fibre mieliniche e amieliniche, a
prevalente interessamento distale e da una demielinizzazione segmentaria che
può essere di due tipi: primaria con perdita delle cellule di Schwann e
secondaria con danno assonale.
Clinicamente
la neuropatia diabetica comprende diversi quadri:
1)
polineuropatia simmetrica distale (sensitiva, motoria, autonomica e mista) che
è la forma più frequente;
2)
neuropatia prossimale simmetrica;
3)
neuropatia asimmetrica (craniale, trunculare, neuropatia dei plessi,
mononeuropatie multiple, neuropatia da intrappolamento);
4)
neuropatia asimmetrica e polineuropatia distale simmetrica.
A
tutt'oggi la patogenesi della neuropatia diabetica rimane sconosciuta anche se
sono stati individuati molti fattori coinvolti nel danno neuronale. Il dibattito
maggiore riguarda i relativi contributi dei fattori metabolici e vascolari. Una
conseguenza importante dell'iperglicemia è l'attivazione della via dei polioli;
nei tessuti come il nervo, nel quale il trasporto di glucosio non è regolato
dall'insulina, l'iperglicemia induce un aumento dello zucchero all'interno delle
cellule con attivazione dell'enzima aldoso-riduttasi che converte il glucosio in
sorbitolo e successivamente ossidato a fruttosio. Tale sostanza incapace di
diffondere attraverso la membrana cellulare si accumula all'interno delle
cellule di Schwann inducendo iperosmolarità e successivo danno funzionale da
cui deriva la demielinizzazione segmentale. Dall'altra parte l'accumulo di
sorbitolo induce una deplezione di mioinositolo e una ridotta velocità di
sintesi di fosfatidilinositolo dal mioinositolo. La ridotta attività della
pompa Na-K ATPasi contribuisce ulteriormente a ridurre il riassorbimento del
mioinositolo. Questo genera una ridotta sintesi dei fosfolipidi assonici
indispensabili al trofismo del nervo: ne risultano alterazioni funzionali quali
la riduzione di velocità di conduzione nervosa e alterazioni strutturali
responsabili della demielinizzazione e denervazione. E' stata anche dimostrata
una riduzione di proteine a livello dei nervi periferici e una ridotta velocità
di incorporazione di aminoacidi nelle proteine mieliniche. Importanza
patogenetica è stata attribuita anche alla glicazione delle proteine indotta
dall'iperglicemia cui conseguirebbe un danneggiamento delle stesse e una
alterata degradazione della mielina. L'alterazione mielinica provoca una
riduzione della capacità isolante delle cellule di Schwann con profonda
alterazione della conduzione saltatoria e conseguente riduzione della velocità
di conduzione. Accanto a tutti questi fattori implicati che costituiscono il
fulcro dell'ipotesi metabolica, sono chiamati in causa anche fattori vascolari
che inducendo una condizione ipossico-ischemica sia a livello del microche del
macrocircolo sarebbero implicati nel danno neuronale. La condizione di ipossia
porterebbe inoltre ad una aumentata formazione di radicali liberi in grado di
danneggiare direttamente il nervo. Il trofismo dei nervi periferici è legato
anche all'azione di fattori di crescita primo tra i quali il Nerve Growth Factor
che, attraverso un meccanismo di migrazione lungo l'assone mantiene la
funzionalità anche nelle zone più distali dei nervi lunghi. In corso di
iperglicemia cronica si assiste ad una profonda alterazione della sintesi e
della attività biologica del Nerve Growth Factor e le conseguenze di ciò si
risentono maggiormente nelle regioni distali degli arti.
La
clinica della neuropatia diabetica varia a seconda del tipo di manifestazione;
nel caso più frequente, cioè in corso di polineuropatia simmetrica distale,
l'esordio è subdolo, insidioso. Solo raramente si ha un esordio acuto
conseguente a uno scompenso metabolico o ad uno stress fisico e/o psichico. I
sintomi a distribuzione distale variano in base alla diversità delle fibre
colpite; generalmente si ha inizialmente un interessamento della componente
sensitiva con iniziali parestesie, che si aggravano di notte, iperestesia e
iperalgesia al contatto con vestiti e lenzuola, dolore spontaneo notturno o
continuo. Più tardivamente si può riscontrare perdita della capacità
discriminatoria termica e vibratoria e interessamento delle fibre motorie e
autonomiche. La sintomatologia obiettiva è costituita dalla riduzione o
scomparsa dei riflessi osteotendinei, dalla ridotta sensibilità alle risposte
vibratoria, tattile e dolorifica e da paresi di alcuni limitati gruppi
muscolari. Il deficit motorio è, nella maggioranza dei casi, limitato agli arti
inferiori interessando con carattere asimmetrico uno o limitati tronchi nervosi.
Abbastanza frequente è il riscontro di una riduzione della efficienza nella
dorsiflessione del piede e dell'estensore breve delle dita. La neuropatia
autonomica costituisce un'evenienza piuttosto frequente, con una prevalenza che
varia dal 17 al 50% dei pazienti diabetici e correla con la mortalità
peggiorando la prognosi della malattia con una maggior incidenza di infarto
miocardico silente, insufficienza respiratoria e morte improvvisa. Si
caratterizza per una disfunzione del sistema nervoso autonomico che interessa
più di un distretto: cardiovascolare, gastrointestinale, genitourinario, si
sviluppa con alterazioni della termoregolazione e della sudorazione seguite da
impotenza e disturbi vescicali fino all'alterazione dei riflessi
cardiovascolari. Le alterazioni più tardive comprendono anomalie permanenti
della sudorazione, ipotensione ortostatica, problemi gastrointestinali e ridotta
consapevolezza degli stati ipoglicemici. Alla combinazione di alterazioni
sensitive e neurovegetative vengono attribuiti i danni trofici degli arti
inferiori tipici del diabete sotto forma di ulcere e osteoartropatie deformanti
caratterizzate dall'assenza di dolore. La diagnosi di neuropatia deve essere
posta sulla base dei rilievi anamnestici in assenza dei quali possiamo trovarci
di fronte a quadri subclinici della malattia che sono i più frequenti e gli
stadi più precoci della neuropatia. E' importante una valutazione della forza e
del tono muscolare attraverso un appropriato esame obiettivo volto ad
evidenziare anche l'integrità dei riflessi osteotendinei. Bisogna esplorare
l'integrità della percezione termica attraverso il termocross e di quella
vibratoria con il diapason graduato o più frequentemente con il biotensiometro.
Per la valutazione della velocità di conduzione si ricorre all'elettromiografia
che è consigliabile eseguire in condizioni di equilibrio glicemico per evitare
falsi positivi. La diagnosi di disfunzione autonomica si avvale soprattutto
dell'impiego di test che studiano l'apparato cardiovascolare ed in particolar
modo l'arco riflesso barocettoriale. Ciò è possibile facendo svolgere al
paziente semplici manovre e registrando le modificazioni della frequenza
cardiaca e della pressione arteriosa. I test cardiovascolari sono didatticamente
distinti in quelli capaci di esplorare l'attività cardioregolatrice
parasimpatica: respirazione profonda (deep-breathing), ortostatismo immediato
(lying-to-standing), manovra di Valsalva o l'attività cardioregolatrice
simpatica: passaggio attivo all'ortostatismo (postural hypotension), contrazione
isometrica prolungata (sustained handgrip). L'esame del tracciato
elettrocardiografico di base si rivela utile per svelare l'allungamento del
tratto QT tipico della neuropatia cardiaca diabetica che predisporrebbe ad una
maggior incidenza di aritmie fino alla morte improvvisa. Oggi sono utilizzate
anche tecniche più sofisticate e meno legate alla variabilità dell'operatore
come l'analisi spettrale della frequenza cardiaca con metodi standardizzati per
la misurazione dell'intervallo RR.
L'interessamento
delle estremità inferiori, in particolare del piede, come sede di complicanza
cronica del diabete mellito è molto frequente; presenta caratteristiche
peculiari sia dal punto di vista medico che da quello economico e psico-sociale
tanto da richiamare l'interesse di numerosi studiosi. Le lesioni del piede sono
da considerarsi fra le complicanze maggiormente invalidanti a causa della
frequente evoluzione verso situazioni patologiche di gravità estrema, tale da
rendere necessaria l'amputazione. Le amputazioni sono nella popolazione
diabetica circa 15 volte maggiori rispetto alla popolazione generale. La lesione
tipica del piede diabetico è l'ulcera; essa viene definita classicamente come:
una perdita di sostanza tale da interessare almeno il derma con eventuali
fenomeni di complicanze infettive batteriche c/o micotiche e che non tende alla
guarigione spontanea. In uno studio effettuato negli Stati Uniti su una grossa
fascia di popolazione, la prevalenza relativa di ulcere nei soggetti diabetici
rispetto ai non diabetici era di 4,8%; in tale studio la prevalenza di ulcere
croniche, nei diabetici, di età <65 anni, era del 5% negli uomini e del 5,6%
nelle donne e nei diabetici di età >65 anni, era rispettivamente del 26,9%
negli uomini e del 27,6% nelle donne. La prevalenza di ulcere del piede
diabetico sembrerebbe maggiore nella popolazione diabetica più anziana e con
una più lunga durata della malattia.
La
classificazione maggiormente usata per le lesioni ulcerative è quella di Wagner
che, prescindendo dal meccanismo patogenetico, prevede la gradazione della
lesione da 0 a 5 in base alla deformità del piede, l'estensione della lesione e
la presenza di infezioni:
-grado
0: assenza di lesioni aperte;
-grado
1: lesione cutanea superficiale a tutto spessore, ma comunque superficiale;
-grado
2: lesione aperta che penetra nei tendini, ossa o articolazioni;
-grado
3: lesione profonda che determina osteomielite ed ascessi;
-grado
4: presenza di gangrena in zone ristrette;
-grado
5: gangrena estesa.
Le
lesioni del piede nel diabetico sono il risultato di un differente intreccio di
componenti patogenetiche e fisiopatologiche indotte dalla neuropatia, dalla
arteriopatia e dalla infezione. Quando si valuta una lesione ulcerativa di un
piede diabetico bisogna innanzitutto chiarire se ci si trova di fronte ad un
piede neuropatico, ischemico o misto. Il piede neuropatico presenta deformazioni
ed aree di ipercheratosi plantare; il piede ischemico è pallido con cute lucida
e sottile, con atrofia degli annessi cutanei, polsi ridotti o assenti.
La
neuropatia periferica somatica, in seguito alla riduzione degli stimoli motori,
favorisce l'instaurarsi di una ipotrofia delle masse muscolari, mentre la
alterazione degli stimoli propriocettivi compromette gli equilibri che
normalmente regolano i fenomeni di bilanciamento tra le varie parti del piede.
Ciò favorisce l'instaurarsi di deformazioni che possono essere permanenti o
interessare il piede soltanto durante il carico. Le modificazioni morfologiche e
funzionali a carico del piede raggiungono livelli estremi nella osteoartropatia
neuropatica in cui si può avere il collasso totale delle strutture con
inversione della volta plantare e conseguente traumatizzazione delle
articolazioni tarsali, metatarsali e metatarso-falangee, costrette ad operare in
condizioni non fisiologiche. Da tale condizione derivano dislocazioni,
frammentazioni e fratture ossee che modificano ulteriormente la morfologia del
piede (piede cubico). In definitiva, l'ipotrofia muscolare, la incoordinazione
osteo-tendinea, la perdita di capacità di adattamento alle varie sollecitazioni
e le deformazioni del piede determinano dei sovraccarichi plantari in zone
circoscritte che conducono alla formazione di ipercheratosi, creando, così, i
presupposti per la formazione dell'ulcera. Ad aggravare la situazione si
aggiunge la perdita delle sensibilità protettive (dolorifica, termica e
tattile) che rendono il piede vulnerabile sia nei confronti di microtraumi sia
verso altre situazioni potenzialmente lesive (taglio di unghie, temperature
eccessive, calzature inadeguate, uso di callifughi ecc.).
La
presenza di neuropatia autonoma periferica contribuisce alla formazione
dell'ulcera sia attraverso la ridotta sudorazione, che conferisce secchezza alla
cute rendendola più esposta alle fissurazioni, sia attraverso alterazioni del
microcircolo. Il flusso ematico a livello del piede neuropatico è aumentato a
causa dell'apertura di numerosi shunt artero-venosi che si traduce in
un'ischemia del microcircolo nutrizionale e finisce per favorire lo sviluppo
delle lesioni a carico del piede. Da rilevare, ancora, che le alterazioni a
carico del sistema nervoso autonomo compromettono il riflesso che, nel soggetto
normale, compensa l'ipertensione capillare determinata dal passaggio dal clino
all'ortostatismo; l'attenuazione di questo riflesso, nei pazienti diabetici
neuropatici, può tradursi in un danno della struttura dei piccoli vasi, mentre
l'aumento della pressione idrostatica capillare, può portare alla formazione di
edema, con maggior predisposizione alle infezioni.
L'ulcera
neuropatica si localizza prevalentemente a livello plantare in corrispondenza
delle teste metatarsali. Qualsiasi zona sottoposta a pressione elevata e
ripetuta può divenire sede di ulcerazione come accade, per esempio, a livello
della superficie dorsale delle dita deformate ad artiglio, o a livello del
margine mediale e laterale dell'avampiede e del tallone. Intorno all'ulcera, che
di solito è singola e non dolente, si trova un tessuto calloso.
L'ulcera
vascolare è dovuta ad una alterazione di flusso ed alla formazione di zone
ischemiche conseguenti alla presenza di arteriopatia obliterante a carico degli
arti inferiori. Le lesioni aterosclerotiche riscontrate nel diabetico non
differiscono, dal punto di vista istologico, da quelle che si riscontrano nel
resto della popolazione. Presentano, comunque, delle caratteristiche peculiari,
soprattutto dal punto di vista topografico, che contribuiscono, sicuramente,
alla maggior prevalenza delle lesioni ischemiche del piede diabetico. In uno
studio condotto con tecniche Doppler la prevalenza dell'arteriopatia ostruttiva
periferica era del 22% nei diabetici di tipo II, di età tra 50 e 70 anni,
rispetto al 3% dei soggetti di controllo.
Le
ostruzioni arteriose nei diabetici interessano nella maggior parte dei casi
entrambi gli arti, colpiscono più segmenti ed i loro circoli collaterali,
coinvolgono preferenzialmente le arterie tibiali anteriori e posteriori e le
interossee. Nel resto della popolazione le lesioni riguardano prevalentemente le
arterie prossimali come le iliache, le femorali e le poplitee. L'interessamento
nei soggetti diabetici delle arterie della triforcazione poplitea aumenta la
frequenza delle lesioni ischemiche a carico del piede poiché queste arterie
hanno minore capacità di formare circoli collaterali rispetto alle arterie
prossimali. Ricordiamo, inoltre, che la bilateralità delle lesioni
arteriopatiche nel diabetico influisce negativamente sulla prognosi dei pazienti
sottoposti ad amputazione, dato che spesso si rende necessaria a distanza di
qualche anno una seconda amputazione.
L'ulcera
ischemica è di solito circoscritta, interessa cute e sottocutaneo;
frequentemente si localizza in qualsiasi regione del piede sottoposta al trauma
delle calzature, mentre è raro osservarla a livello plantare. In genere non è
circondata da tessuto calloso, può avere un margine ben delimitato ed ha un
fondo costituito da materiale crostoso o necrotico. L'ulcera è tipicamente
torpida con scarsa tendenza a formare tessuto di granulazione ed è molto
dolente in assenza della componente neuropatica. La gangrena è ben
individuabile per la presenza di necrosi tissutale con colorazione nera dei
tessuti coinvolti; essa può essere secca con buona demarcazione fra tessuti
necrotici e sani oppure umida per la presenza di infezioni.
Bisogna
sottolineare che spesso le lesioni del piede sono di tipo neuro-ischemico alla
cui comparsa contribuiscono sia alterazioni di tipo neuropatico che ischemico.
La contemporanea presenza delle due condizioni rende il piede più vulnerabile e
conferisce alle lesioni delle caratteristiche cliniche particolari. La presenza
di neuropatia, infatti, attenua il dolore muscolare da sforzo (claudicatio
intermittens) ed anche il dolore a riposo mascherando, così, la presenza di una
insufficienza arteriosa. La perdita delle sensibilità protettive può
facilitare, inoltre, l'ulcerazione di zone ischemiche a causa dell'azione,
inavvertita, da parte di microtraumi e di agenti lesivi esterni (fisici, termici
e chimici).
Ricordiamo,
infine, l'importanza delle infezioni nello sviluppo delle lesioni ulcerative del
piede diabetico. In corso di infezione aumentano le richieste di ossigeno da
parte dei tessuti interessati, viene esercitata un'azione compressiva sulle
arterie del microcircolo da parte dell'edema della sede di lesione, si
instaurano fenomeni trombotici locali ad opera delle endotossine liberate dai
batteri e degli enzimi lisosomiali liberati dagli agenti patogeni e dai tessuti
infetti. Nelle zone ischemiche i processi necrotici possono avere inizio in
seguito ad infezione, ed i processi necrotici localizzati possono estendersi
interessando aree del piede sempre più vaste tanto da rendere necessaria
l'amputazione.
Le
lesioni del piede diabetico sono la conseguenza di modificazioni
fisiopatologiche indotte dalla presenza della neuropatia e dell'arteriopatia
cronica ostruttiva degli arti. Tali modificazioni possono esse stesse essere
causa delle lesioni, ma nella maggior parte dei casi agiscono da fattori
predisponenti nei confronti dell'azione di agenti lesivi esogeni. Sono proprio
questi che prevalentemente causano la lesione iniziale che, evolvendo ed
infettandosi, può condurre fino all'amputazione.
Una
volta classificata la lesione si esegue una esplorazione chirurgica che ha lo
scopo di aprire la lesione e di delimitarla bene e successivamente di detergerla
asportando il materiale necrotico. L'approccio metodologico da seguire nella
terapia locale delle ulcere del piede diabetico comprende: la detersione
dell'ulcera, la sua sterilizzazione e la stimolazione della riparazione dei
tessuti. La detersione dell'ulcera può essere fatta con tre modalità:
chirurgica, meccanica ed enzimatica. Alla fase di detersione segue la
sterilizzazione grazie all'utilizzo di farmaci antibatterici; infine segue la
fase di riparazione tissutale. Nei diabetici i processi di riparazione tissutale
sono rallentati; bisogna fare le medicazioni con molta attenzione per evitare
che esse stesse ritardino la guarigione. Fisiologicamente la risposta locale al
danno viene suddivisa in tre fasi: infiammazione, formazione del tessuto di
granulazione, fase di produzione della matrice connettivale e suo
rimodellamento.
L'approccio
terapeutico locale deve essere il più idoneo possibile a favorire i processi di
guarigione. Si possono utilizzare prodotti che stimolano l'angiogenesi e la
moltiplicazione delle cellule epidermiche favorendo i processi di riparazione.
Un prodotto importante nel favorire la guarigione dell'ulcera è il collageno
che aderendo al fondo della lesione offre la propria struttura come trabecolato
inerte alla proliferazione di fibroblasti e poi viene inglobato nella struttura
del collagene neoformato. In particolare, per quanto riguarda l'ulcera
neuropatica la condotta clinica comprende tre fasi; rimozione del callo,
eradicazione dell'infezione e riduzione delle pressioni di appoggio. E'
fondamentale rimuovere tutto il tessuto necrotico e che le cavità ascessuali
vengano drenate chirurgicamente. Per quanto riguarda le ulcere ischemiche è
necessario effettuare regolarmente un curettage del piede rimuovendo il tessuto
necrotico dalle ulcere. Le ulcere ischemiche sono spesso dolenti e l'azione
analgesica rappresenta una parte importante del trattamento conservativo. E'
importante eradicare eventuali infezioni con terapia antibiotica.
Da
quanto è stato detto sulle complicanze del diabete mellito ed in particolare
sulle conseguenze socialmente invalidanti e sulla loro influenza nel
determinismo delle cause di morte anticipata, appare evidente l'importanza che
riveste il problema della loro prevenzione.
Numerosi
elementi stanno ad indicare che il controllo delle turbe metaboliche del
diabete, ottenuto con la terapia dietetica e medicamentosa, agisce
efficientemente sia nella prevenzione sia nella cura delle complicanze del
diabete.
Non
soltanto il controllo dell'errore metabolico è un mezzo efficace per prevenire
e ridurre l'entità delle complicanze del diabete, ma ancor più lo è nelle
fasi iniziali delle complicanze stesse. Da ciò deriva la necessità di una
diagnosi precoce della malattia diabetica.
La
prevenzione delle complicanze si attua ovviamente innanzitutto con la
prevenzione primaria della malattia diabetica. Date le differenze
etiopatogenetiche fra le due forme della malattia diverse sono le norme da
seguire.
Nel
caso del diabete di tipo I (IDDM) le strategie preventive sono ancora in fase di
organizzazione. Si può tuttavia prevedere che un certo rilievo avrà nel
prossimo futuro la ricerca di anticorpi anti-insula (ICA) o anti-insulina nei
consanguinei (fratelli, cugini) dei soggetti affetti da IDDM. La presenza di ICA
positivi nel siero, con normali livelli di peptide C, anche in risposta al
glucagone, potrebbe indicare un normale patrimonio di cellule beta di tali
soggetti. In tal caso è ipotizzabile un possibile uso della terapia
immuno-soppressiva con ciclosporina per impedire in questi soggetti l'insorgenza
della malattia.
Per
quanto riguarda il diabete mellito di tipo II (NIDDM) la prevenzione primaria
consiste in un'azione di educazione sanitaria che induca i soggetti
geneticamente predisposti a praticare una dieta equilibrata, povera di idrati di
carbonio, specie nella forma di zuccheri semplici. Dovrà essere consigliato
anche l'esercizio fisico e l'attività sportiva non agonistica. Tenuto conto
della correlazione tra diabete e malattie cardiovascolari, nei soggetti a
rischio di NIDDM sarà utile anche limitare l'uso del sale e dei grassi animali,
specie se cotti.
La
prevenzione e cura dell'obesità è un'altra norma da seguire nella profilassi
del diabete mellito. Si deve correggere il sovrappeso e l'obesità, specie se
familiari, perché in questi soggetti è più facile che si manifesti il diabete
mellito di tipo II. I suggerimenti dietetici e di attività fisica prima esposti
sono ugualmente validi, ma si dovranno prescrivere anche diete ipocaloriche
personalizzate. Nell'obesità di grado notevole è giustificato l'uso di cicli
di digiuno modificato con pasti fortemente ipocalorici alternativi.
La
prevenzione secondaria delle complicanze del diabete mellito si attuerà invece
quando ci si troverà di fronte ad una condizione di malattia conclamata.
Innanzitutto si dovrà effettuare una diagnosi precoce nei pazienti nei quali si
possa sospettare la presenza di intolleranze agli idrati di carbonio. A tal fine
la curva glicemica da carico per via orale con prelievi per glicemia ed
insulinemia (IRI) deve essere condotta in tutti i soggetti con predisposizione
genetica, obesità, ipertrigliceridemia, glicosuria post-prandiale occasionale,
iperucemia.
La
prevenzione delle complicanze in caso di diabete conclamato si attua in primo
luogo con un buon controllo metabolico della malattia.
Il
giudizio di buon controllo si basa sui criteri clinici e sull'esame dei valori
di alcuni dati di laboratorio. I criteri clinici dello scarso compenso della
malattia sono: la poliuria, la perdita di peso, la tendenza alla chetoacidosi,
le infezioni urinarie, le micosi cutanee, la craurosi vulvare nonché la
difficoltà alla guarigione delle ferite. Per quanto riguarda i criteri di
laboratorio per prima va considerata la glicemia. Questa non deve superare i 110
mg/dl a digiuno ed i 140 mg/dl due ore dopo i pasti. Tali valori sono indicativi
per la glicemia sul sangue venoso totale, ma modeste correzioni debbono essere
applicate se si misura la glicemia sul siero di sangue venoso o su sangue
capillare totale. Il grado di compenso glicemico giornaliero è estremamente
variabile e quindi va osservato per più giorni prima di esprimere un giudizio
definitivo. Vi sono poi due indici indiretti del livello di compenso glicemico
medio nel paziente: il primo che dà informazione sui livelli glicemici medi
degli ultimi 15 giorni, costituito dal dosaggio della fruttosamina (valori
normali 1,6-2,8 mmol/I); ed il secondo che dà informazioni sui livelli
glicemici medi degli ultimi 60 giorni, costituito dalla emoglobina glicosilata
(valori normali 3,4-6,1%).
A
conferma di quanto esposto, nello studio americano pubblicato nel 1993
identificato con l'acronimo DCCT (Diabetes Complication Control Trial è stato
dimostrato in maniera inequivocabile che il buon controllo della malattia
diabetica (valori di emoglobina glicosilata tra 6,5 e 7%) determina una
diminuzione significativa della insorgenza delle complicanze microvascolari, e
rallenta in maniera altrettanto significativa la loro progressione, in un
vastissimo campione di pazienti affetti da diabete mellito di tipo I e studiati
per 10 anni.
La
scelta terapeutica nei pazienti con IDDM non si pone perché la terapia
sostitutiva insulinica è d'obbligo.
Al
contrario, nel caso di NIDDM si dovrà seguire una scaletta terapeutica
rigorosa. La terapia dietetica e l'esercizio fisico sono l'unica terapia della
intolleranza agli idrati di carbonio ed il primo tentativo terapeutico
obbligatorio nel NIDDM. Solo di fronte ad un provato insuccesso dietetico si
procederà ad associare la terapia con antidiabetici orali. Si deve iniziare con
una solfanilurea da sola in caso di NIDDM magro, mentre va data preferenza alla
metformina da sola in caso di NIDDM obeso. La terapia di associazione dieta ed
antidiabetici orali va mantenuta il più a lungo possibile, evitando un precoce
esaurimento funzionale delle beta cellule mediante un opportuno continuo
equilibrio tra calorie assunte, attività fisica eseguita e dose del farmaco in
due o tre somministrazioni giornaliere. Quando l'uso di un solo antidiabetico
orale non è più sufficiente a mantenere in compenso il paziente diabetico si
procederà alla terapia di associazione tra solfanilurea e metformina. Qualora
questa non sia in grado di assicurare il compenso metabolico si dovrà
provvedere con la somministrazione di insulina. Prima di effettuare la
sostituzione con l'insulina è opportuno effettuare un dosaggio dei livelli
circolanti di insulina di base e dopo stimolo con glucagone, per poter
documentare l'avvenuto esaurimento funzionale delle cellule insulari
pancreatiche. Il trattamento insulinico convenzionale nei pazienti con NIDDM
prevede, all'inizio, l'uso dell'insulina pronta prima dei tre pasti principali
per stabilire il dosaggio ottimale. Sarà poi opportuno provvedere alla
sostituzione con forme di insulina ritardo, in genere a durata intermedia. Nei
pazienti con IDDM l'inizio del trattamento insulinico convenzionale prevede
l'uso di composti ritardo (insulina lenta o ultralenta), con i quali poter
assicurare una adeguata insulinemia in condizioni basali, integrati da
somministrazioni di insulina pronta prima dei pasti.
E'
da segnalare inoltre che attualmente la soluzione più avanzata per ottenere un
compenso metabolico ideale è rappresentata dal pancreas artificiale. Data la
particolare complessità e l'ingombro dell'apparecchiatura, tale sistema è
usato solamente in ambiente specialistico ospedaliero. La somministrazione
continua di insulina per via sottocutanea, basata sull'uso di una sola pompa di
infusione e regolabile manualmente a seconda della necessità, è uno strumento
più maneggevole, rispetto al pancreas artificiale.
Anche
le tecnologie tese a sostituire la somministrazione di insulina esogena con
sistemi biologici autoregolantisi (trapianto di isole di Langerhans, trapianto
di pancreas, auto-trapianto di fibroblasti cutanei contenenti il gene della
sintesi dell'insulina) stanno compiendo notevoli progressi e c'è da sperare che
nei prossimi anni esse possano trovare applicazione affidabile nella pratica
clinica.
Per
quanto riguarda le terapie specifiche delle diverse complicanze del diabete
mellito si possono distinguere due livelli di intervento.
Il
primo consiste nell'uso di farmaci che agiscono su più di una complicanza,
modificando il meccanismo patogenetico che hanno in comune. Questi farmaci sono
di due tipi: gli antiaggreganti piastrinici e gli inibitori
dell'aldoso-reduttasi.
L'uso
degli antiaggreganti piastrinici trae la sua giustificazione dall'importanza che
i meccanismi trombogeni hanno nella patogenesi della micro e macroangiopatia
diabetica. L'uso di questi farmaci avrebbe notevoli vantaggi nella prevenzione
della retinopatia diabetica, della arteriopatia, dell'infarto miocardico e della
gangrena. Maggiormente usati sono l'aspirina a basse dosi e la ticlopidina.
Gli
inibitori della aldoso-reduttasi (AR) appartengono alla più grande famiglia
delle aldeido-reduttasi che sono ossidoreduttasi monomeriche NADPH-dipendenti.
Essi inibiscono l'azione dell'enzima AR che viene attuata in tutti i distretti
interessati alle complicanze del diabete mellito, in presenza di alte
concentrazioni di glucosio. L'uso degli inibitori AR impedisce l'accumulo di
sorbitolo che si è visto avere un ruolo determinante nella patogenesi di queste
manifestazioni. Il primo di questi farmaci che è utilizzabile con la
somministrazione per via orale è l'AY-22284, meglio noto come Alrestain.
Successivamente sono stati sintetizzati altri farmaci quali Tolrestat, Statil,
Sorbinil, Sulindac e Tetramethyleneglutarate (TMG). Vi sono numerosi dati
sperimentali e clinici che indicano come gli inibitori dell'AR abbiano aperto
interessanti prospettive nella prevenzione dell'insorgenza e della progressione
delle complicanze del diabete mellito.
Oltre
alle turbe metaboliche diversi altri fattori sembrano avere importanza nel
facilitare l'insorgenza e nell'accelerare il decorso dell'una e dell'altra fra
le complicanze del diabete mellito: l'ipertensione arteriosa, l'obesità, gli
stati infettivi e il climaterio. La terapia di queste patologie associate deve
essere costantemente attuata di concerto con quella della malattia diabetica.
Il
trattamento specifico delle singole complicanze, riguarda la retinopatia, la
neuropatia e la nefropatia e prevede interventi specialistici che meritano
menzione separata.
Per
la retinopatia va ricordato che un corretto trattamento prevede una diagnostica
precisa. Sarà raccomandabile eseguire visita oculistica di controllo a tutti i
pazienti diabetici con scadenza semestrale, con l'esecuzione regolare di
retinografia nonché di fluorangiografia retinica ove se ne riscontrasse la
necessità. Dal punto di vista terapeutico, oltre all'uso di antiaggreganti
degli inibitori dell'AR, sarà raccomandabile, alla prima comparsa degli
essudati molli, di eseguire cicli di foto-coagulazione con apparecchi laser.
Altrettanto
importante è la diagnostica precoce per il trattamento della neuropatia
diabetica. Sarà raccomandabile, in questo caso, eseguire periodicamente un
accurato esame clinico, anche con l'uso regolare dei test diagnostici
precedentemente elencati, in tutti i pazienti affetti da diabete mellito.
Anche
nel caso della nefropatia diabetica è importante ricercare i reperti di
laboratorio precoci che permettano di portare diagnosi della malattia nella sua
fase iniziale. Si ricercherà quindi la microalbuminuria notturna, per più
notti consecutive, dosandola con uno specifico e sensibile metodo
radioimmunologico o immunoenzimatico. E' opportuno inoltre eseguire ai diabetici
ecografie renali periodiche onde rilevare la iniziale ipertrofia renale. Dal
punto di vista terapeutico molte ipotesi sono state formulate, ognuna delle
quali è tesa a prevenire l'instaurarsi di uno dei meccanismi patogenetici. In
merito è stato proposto:
1)
l'uso di dieta aproteica al primo comparire della microalbuminuria per eliminare
il possibile effetto tossico sul rene degli aminoacidi;
2)
l'impiego precoce di diete iposodiche per agire sull'alterazione del
controtrasporto sodio-litio;
3)
l'utilizzo degli inibitori della ciclo-ossigenasi per abolire gli squilibri
nella sintesi di prostaglandine;
4)
l'uso di ACE inibitori nei pazienti anche non ipertesi serve a rallentare il
progredire della lesione glomerulare, come documentato dalla scomparsa della
microalbuminuria.
Nessuno
di questi suggerimenti terapeutici ha, sino ad oggi, ottenuto un successo
unanime tra i medici diabetologi; è quindi necessario attendere il risultato di
ulteriori sperimentazioni. Nella prevenzione della nefropatia diabetica,
pertanto, l'unico presidio sicuro a disposizione del medico resta il regolare
buon controllo dell'equilibrio metabolico della malattia diabetica.
Alberti
K.G.M.M., defronzo R.A., Keen H., Zimmet P. (eds.): International Textbook of
Diabetes Mellitus. John Wiley, Londra, 1997.
Kahn
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Pickup
J.C., Williams G.: Complicanze croniche del diabete, Edizione Italiana,
Mediserve, Milano, 1995.
P.
ARCANGELI
Professore
Fuori Ruolo di
Clinica
Medica Generale e Terapia Medica,
Istituto
di Medicina Interna ed Immunoallergologia,
Università
di Firenze
C.M.
ROTELLA
Professore
Associato di Malattie Metaboliche
E
del Ricambio,
Istituto
di Medicina Interna ed Immunoallergologia,
Università
di Firenze
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