ARGOMENTI DI MEDICINA CLINICA
Ultimo aggiornamento: 23.12.2013
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I
farmaci che consentono di incrementare l'eliminazione renale di sodio e di acqua
(saluretici/diuretici) sono essenziali per il trattamento sintomatico delle
affezioni morbose caratterizzate o complicate da ritenzione idrosalina, sono
utili nel trattamento dell'ipertensione arteriosa di qualunque etiologia e
talvolta consentirebbero di prevenire o almeno di migliorare la prognosi
dell'insufficienza renale acuta. Essi sono anche utilizzati nel trattamento
dell'ipercalcemia, della nefrolitiasi calcica recidivante, del diabete insipido
e del glaucoma.
In
questo capitolo verranno prima esaminate brevemente le caratteristiche
farmacologiche dei principali diuretici, il loro meccanismo d'azione e gli
effetti collaterali conseguenti al loro impiego clinico, quindi verranno presi
in esame vari quadri sindromici in cui essi possono essere utilizzati, da soli o
in associazione con altre categorie di farmaci.
Quasi
tutti i diuretici agiscono inibendo il riassorbimento di sodio e/o di cloro in
uno dei segmenti del nefrone, e incrementando conseguentemente l'escrezione
urinaria di cloruro di sodio e acqua. Solo i diuretici osmotici inibiscono
primitivamente il riassorbimento di acqua, cui consegue successivamente il
trascinamento e l'escrezione degli ioni sodio. I farmaci che agiscono con il
primo meccanismo dovrebbero essere denominati "saluretici", mentre il
termine "diuretici" andrebbe riservato ai secondi. Nella presente
trattazione, per semplicità verrà utilizzato il termine di uso corrente di
"diuretico" per tutti i farmaci presi in esame, indipendentemente dal
rispettivo meccanismo di azione.
I
farmaci diuretici vengono tradizionalmente classificati in base al tratto del
nefrone in cui essi esplicano la loro attività principale.
Come
è noto, in condizioni normali il 99,5 % del sodio {iltrato viene riassorbito
dai tubuli, e l'eliminazione giornaliera, che corrisponde rigidamente
all'introito, non supera mediamente lo 0,5%. La percentuale del sodio filtrato
che viene escreta in seguito alla somministrazione di un diuretico è una.
corretta modalità di valutazione quantitativa dell'attività farmacologica.
Inibiscono
l'attività dell'enzima anidrasi carbonica, che nel tubulo prossimale è
essenziale per il riassorbimento di bicarbonato, sodio e cloro. Questi farmaci
determinano pertanto inizialmente un incremento dell'eliminazione urinaria di
bicarbonato di sodio, cloruro di sodio ed acqua.L'effetto diuretico, però, è
di breve durata e di entità modesta per due ragioni:
1)la
maggior parte dell'acqua e degli ioni che sfuggono al riassorbimento prossimale
vengono attivamente riassorbiti dai segmenti distali del nefrone, e
2)la
perdita urinaria di bicarbonato di sodio determina una deplezione del
bicarbonato plasmatico (acidosi metabolica), cui consegue una riduzione della
concentrazione del bicarbonato che viene filtrato a livello glomerulare e che
compare nel lume dei tubuli prossimali. Tale riduzione condiziona la progressiva
diminuzione dell'efficacia diuretica dei farmaci inibitori dell'anidrasi
carbonica (IAC).
Per
queste ragioni la loro utilizzazione come diuretici è limitata ai pazienti
edematosi e con alcalosi metabolica, per i quali la perdita di bicarbonato con
le urine può contribuire a correggere il pH ematico. In ogni caso essi devono
essere impiegati per brevi periodi (3-5 giorni massimo), per evitare la perdita
dell'efficacia e la comparsa di effetti collaterali.
L'acetazolamide
e la diclorfenamide inibiscono l'attività dell'aniUrasi carbonica in tutti i
distretti corporei in cui l'enzima è presente. A livello dei corpi ciliari essi
riducono il trasporto di bicarbonato di sodio e di conseguenza la velocità di
produzione dell'umor acqueo, sia in occhi normali sia in occhi affetti da
glaucoma ad angolo aperto, come pure da glaucoma secondario. La conseguente
riduzione della pressione intraoculare è alla base dell'utilizzo terapeutico di
tali farmaci nei pazienti glaucomatosi, anche se di recente la disponibilità di
farmaci per uso topico ha modificato non poco le strategie terapeutiche degli
oculisti.
Nel
cuore polmonare cronico l'acetazolamide consente di correggere l'alcalosi
metabolica che consegue all'uso dei diuretici dell'ansa, e che potrebbe
determinare pericolose riduzioni della ventilazione alveolare.
È consigliabile utilizzare il farmaco per periodi di 3-5 giorni, sulla
scorta dei dati emogasanalitici. Nell'idrocefalo refrattario, nella sindrome di
Ménière e nella paralisi periodica familiare ipocaliemica e ipercaliemica
questo farmaco viene talvolta utilizzato con successo, anche se mancano ancora
valutazioni sperimentali adeguatamente controllate.
L'acetazolamide
per uso orale è assorbita rapidamente ed è eliminata prevalentemente per
secrezione tubulare. La sua emivita è di 5-8 ore. La posologia usuale va da 250
a 500 mg al dì. La somministrazione prolungata può determinare deplezione
potassica, che può non essere evidenziata a causa della concomitante acidosi
metabolica, che induce uno spostamento del potassio all'esterno delle cellule.
Nei pazienti con epatopatie croniche il farmaco può determinare un incremento
dell'ammoniemia, a causa dell'incremento del pH urinario e della conseguente
riduzione dell'eliminazione urinaria di ioni ammonio.
La
posologia della diclorfenamide è di 50-200 mg/die.
È liberamente filtrato nei glomeruli e scarsamente riassorbito dai
tubuli, all'interno dei quali esercita una pressione osmotica che riduce il
riassorbimento passivo dell'acqua. Da ciò deriva un aumento di volume del
fluido intratubulare e la diluizione degli ioni sodio, il cui riassorbimento
viene in tal modo ridotto. Ne consegue una diuresi acquosa, in cui cioè il
rapporto tra acqua e sodio è superiore a quello normalmente presente nei
liquidi biologici. Se ne deduce che l'uso prolungato del farmaco, oppure un
dosaggio eccessivo, possono determinare disidratazione ed ipernatriemia. Il
farmaco non viene assorbito dal tubo gastroenterico e viene utilizzato solamente
per via e.v. È disponibile
in soluzione al 15-20%. A seguito dell'infusione e.v. il mannitolo si
distribuisce nel liquido extracellulare, ove esercita la sua attività osmotica
richiamando acqua dall'interno delle cellule. La conseguente espansione del
volume extracellulare contribuisce a potenziarne l'attività diuretica. Se la
funzione renale è normale il farmaco viene rapidamente eliminato con le urine
nel giro di 30-90 minuti.Come per tutti gli altri diuretici, la riduzione della
velocità dl filtrazione glomerulare determina un significativo allungamento
della sua emivita.
L'utilizzazione
del mannitolo per la prevenzione dell'insufficienza renale acuta nelle
situazioni ad alto rischio come:
1)la
chirurgia cardiaca;
2)gli
interventi sugli aneurismi aortici;
3)la
chirurgia delle vie biliari nei pazienti itterici;
4)gli
incidenti trasfusionali;
5)la
mioglobinuria;
6)la
somministrazione di cisplatino; è stata raccomandata da un gran numero di
Autori, anche se la maggior parte delle segnalazioni affidate alla letteratura
non riportano dati derivanti da trial controllati. Altri Autori sostengono anzi
che nelle suddette procedure la superiorità del mannitolo rispetto ad altri
generici "plasma expander" non sarebbe sufficientemente documentata.
Il
meccanismo d'azione del farmaco in queste condizioni cliniche sarebbe
molteplice: all'espansione del volume extracellulare e all'aumento del flusso
intratubulare si accompagnerebbe la riduzione dell'edema del parenchima renale e
della formazione di radicali liberi. La dose utilizzata in questi casi è di
250-500 ml di soluzione al 15-20%.
In
neurologia il mannitolo (come pure il glicerolo, che agisce anch'esso come
diuretico osmotico) è utilizzato per ridurre l'edema cerebrale.
Nelle
sindromi edemigene croniche il farmaco non viene generalmente prescritto, per
l'espansione del volume extracellulare che esso provoca e per la disponibilità
di farmaci di gran lunga più sicuri.
Furosemide,
bumetanide, acido etacrinico e piretanide inibiscono il riassorbimento di sodio,
potassio e cloro a livello del tratto ascendente spesso dell'ansa di Henle. A
dosaggi massimali questi diuretici possono determinare la perdita del 20-25% del
sodio filtrato, vale a dire di quasi tutto il sodio che viene normalmente
riassorbito in questo tratto del nefrone. Questi farmaci sono pertanto i più
potenti diuretici attualmente disponibili. Poiché il riassorbimento di cloruro
di sodio in questa porzione del nefrone impermeabile all'acqua è responsabile
del mantenimento del gradiente osmotico midollare, che consente la produzione di
urine ipertoniche, il blocco di tale trasporto determina la perdita del potere
di concentrazione delle urine. Anche la formazione di urine diluite dipende dal
riassorbimento di cloruro di sodio che avviene nel tratto ascendente spesso
dell'ansa di Henle, per cui tutti questi farmaci determinano altresì la perdita
del potere di diluizione.
Nell'ansa
di Henle il riassorbimento del calcio segue passivamente quello del sodio. Se ne
deduce che i diuretici attivi in questo segmento hanno un effetto
ipercalciurizzante. La perdita di calcio che deriva dai trattamenti a lungo
termine può avere effetti negativi sul metabolismo degli ioni bivalenti, mentre
la stessa proprietà viene efficacemente utilizzata per il trattamento delle
ipercalcemie di qualsivoglia etiologia. L'ipercalciuria ha condizionato in
alcuni pazienti la formazione di calcoli nelle vie urinarie.
La
furosemide è ben assorbita dal tratto gastroenterico: la sua biodisponibilità
è pari al 50-70%. Somministrato per via e.v. essa determina entro pochi minuti
un significativo incremento della diuresi e della natriuresi, che la rendono il
farmaco di prima scelta nelle situazioni cliniche d'urgenza, come l'edema
polmonare acuto. Gli altri diuretici dell'ansa hanno caratteristiche
farmacologiche poco dissimili, anche se la loro struttura molecolare è
eterogenea. Nella tab.02
Tutti
i diuretici dell'ansa hanno un'attività farmacologica dose-dipendente, entro
ampi margini di dosaggio, e tale caratteristica li rende particolarmente
maneggevoli in clinica.
Le
indicazioni terapeutiche sono molto ampie: praticamente tutte le sindromi
edemigene di entità moderato-severa possono essere trattate con un diuretico
dell'ansa. I pazienti refrattari alle misure terapeutiche di primo livello
(dieta iposodica, riposo a letto e/o diuretici tiazidici) rispondono
generalmente alla furosemide per via orale. Nell'insufficienza renale cronica,
con valori di clearance della creatinina inferiori a 30 ml/min, i diuretici
dell'ansa sono l'unica opzione terapeutica, poiché i farmaci che agiscono con
un diverso meccanismo sono inefficaci oppure potenzialmente pericolosi.
Con
la contemporanea somministrazione endovenosa di soluzione fisiologica, la
furosemide è utilizzata per correggere l'ipercalcemia di qualunque etiologia, e
per effettuare la correzione rapida dell'iponatriemia severa (quando il sodio
plasmatico è inferiore a 120 mmol/l).
Nell'insufficienza
renale acuta oligurica la furosemide (talvolta in associazione con la dopamina)
può incrementare la diuresi, migliorando in tal modo (secondo alcuni Autori) la
prognosi relativa alla compromissione renale.
La
maggior parte degli effetti indesiderati dei diuretici di questo gruppo sono
strettamente dipendenti dalla stessa attività terapeutica: incremento
dell'azotemia, iponatriemia, ipocaliemia, ipomagnesiemia e alcalosi metabolica
sono conseguenze di interventi terapeutici troppo zelanti o non sufficientemente
controllati. Tutti questi effetti collaterali verranno esaminati estesamente
più avanti nel paragrafo ad essi dedicato.
Va
segnalata la possibile comparsa di lesioni irreversibili dell'organo del Corti a
seguito della somministrazione di alte dosi di furosemide per via venosa
nell'insufficienza renale.
L'attività
farmacologica principale dei diuretici tiazidici consiste nell'inibizione del
carrier di membrana che riassorbe sodio e doro nel tubulo distale e nel segmento
di connessione. Normalmente questi segmenti del nefrone riassorbono fino ad un
massimo del.5% del sodio filtrato, e di conseguenza l'attività diuretica dei
tiazidici non può non essere minore di quella dei diuretici dell'ansa. La
parziale inibizione dell'anidrasi carbonica che i tiazidici determinano non
contribuisce in maniera rilevante all'eliminazione di sodio, poiché viene
annullata da un aumentato riassorbimento a livello dell'ansa di Henle.
In
assenza di ADH, il riassorbimento sodico distale è essenziale per la formazione
di urine ipotoniche. Il blocco farmacologico di tale trasporto determina per
conseguenza la perdita della capacità di diluire le urine. Il potere di
concentrazione non viene invece influenzato da nessuno dei farmaci di questo
gruppo.
Il
riassorbimento del calcio è incrementato dai tiazidici con un duplice
meccanismo: 1)un'azione diretta sul trasporto di questo ione nel tubulo distale
e 2)uno stimolo indiretto al riassorbimento lungo tutto il nefrone conseguente
alla deplezione del volume extracellulare. A ciò consegue riduzione della
calciuria (utilizzabile a fini terapeutici negli stati ipercalciurici) e
talvolta ipercalcemia.
Tutti
i farmaci di questo gruppo sono rapidamente assorbiti dal tratto gastroenterico
e fortemente legati alle proteine plasmatiche. L'acme dell'attività diuretica
è dopo 3-4 ore dall'assunzione.
I
tiazidici sono tra i farmaci di prima scelta per il trattamento
dell'ipertensione arteriosa in pazienti con normale funzione renale. Essi sono
anche utili nelle sindromi edemigene di entità modesta, in concomitanza con
provvedimenti non farmacologici (restrizione sodica, riposo a letto). Sono anche
utilizzati nella nefrolitiasi calcica recidivante e nel diabete insipido.
L'effetto
indesiderato più frequente, con i tiazidici, è una modesta ipocaliemia,
conseguente all'incrementato flusso intratubulare distale, che in pazienti a
rischio può avere conseguenze cliniche severe. Ipomagnesemia, iperuricemia,
iponatriemia, iperglicemia e ipercolesterolemia sono i più comuni effetti
secondari, di cui si dirà nel paragrafo "Effetti collaterali dei
diuretici".
Sono
stati segnalati, a seguito dell'uso di diuretici tiazidici, rari episodi di
dermatite da fotosensibilità, qualche caso di pancreatite necrotizzante,
rarissimi episodi di nefrite interstiziale acuta allergica e altrettanti di
vasculite necrotizzante.
Nelle
cellule principali dei tubuli collettori corticali il riassorbimento di sodio
avviene attraverso canali della membrana luminale, il cui numero (o la cui
capacità di trasporto) è regolata dall'aldosterone. Stimolate da questo ormone
le cellule riassorbono il catione dal fluido tubulare, creando un gradiente
elettronegativo all'interno del lume, che a sua volta è responsabile del flusso
di potassio e/o di idrogeno dalle cellule alla preurina. L'attività
dell'aldosterone su questo tratto del nefrone è quella di stimolare la
ritenzione sodica, determinando anche ipoealiemia e alealosi metabolica. Al
contrario, l'inibizione dell'attività dell'ormone determina perdita di sodio e
tendenza all'ipercaliemia e all'acidosi metabolica. I diuretici cosiddetti
"risparmiatori di potassio" inibiscono l'attività dell'aldosterone
con un meccanismo di competizione diretta a livello dei recettori ormonali
citoplasmatici delle cellule tubulari (spironolattone e canrenone) oppure
mediante un blocco esercitato direttamente sui canali del sodio (amiloride e
triamterene).
In
questo distretto del nefrone la quantità di sodio che viene normalmente
riassorbita è modesta, pertanto tutti questi farmaci, se somministrati da soli,
hanno un effetto natriuretico trascurabile. Vengono invece utilmente utilizzati
in associazione con tiazidici o diuretici dell'ansa, data la loro capacità di
antagonizzare l'effetto potassio-disperdente di questi ultimi. La logica delle
associazioni tra diuretici agenti con meccanismi diversi verrà discussa in
seguito.
Il
triamterene è rapidamente assorbito dal tratto gastroenterico e altrettanto
rapidamente idrossilato a livello epatico, con la formazione di metaboliti
ancora attivi in senso diuretico. L'emivita del triamterene e dei suoi
metaboliti è di 3-5 ore.Nell'insufficienza epatica e in quella renale il
farmaco viene eliminato dall'organismo più lentamente. La posologia usuale è
di 100 mg una o due volte al giorno. Sono stati segnalati calcoli renali formati
da uno dei metaboliti del triamterene, in seguito a trattamenti protratti nel
tempo. L'associazione di triamterene e indometacina avrebbe determinato più di
un episodio di insufficienza renale acuta.
L'amiloride
viene escreta in forma attiva nelle urine. Ha una durata di azione di circa 18
ore se la funzione renale è normale. Con le posologie comunemente utilizzate in
dinica (5-10 mg una volta al giorno) si verificherebbe una modesta riduzione del
filtrato glomerulare, reversibile alla sospensione della terapia. L'amiloride
determina una modesta riduzione dell'eliminazione renale di calcio.
Nell'insufficienza renale l'emivita del farmaco è significativamente aumentata.
Lo
spironolattone viene rapidamente assorbito dall'intestino e trasformato nel suo
derivato farmacologicamente attivo, il canrenone. Quest'ultimo è anche
disponibile come tale per la somministrazione orale o come canrenoato di
potassio per via intravenosa. Rispetto allo spironolattone, i metaboliti
avrebbero una minore incidenza di effetti indesiderati sulla sfera sessuale (ginecomastia,
riduzione della libido). Per tutti i farmaci di questo gruppo l'effetto
diuretico si evidenza dopo 48-72 ore dall'inizio della somministrazione. Motivo
di ciò è il peculiare meccanismo di azione, consistente in un blocco delle
sintesi proteiche aldosterone-dipendenti. Analoga latenza è evidenziabile
quando la somministrazione viene interrotta. La posologia usuale va da 25 a 300
mg p.o., in una o più somministrazioni, per spironolattone e canrenone, e da
200 a 600 mg e.v., in una o più somministrazioni, per il canrenoato di
potassio.
Come
si è detto, i risparmiatori di potassio vengono spesso adoperati in
associazione con diuretici potassio-disperdenti per il trattamento di sindromi
edemigene croniche. Essi sono particolarmente utili nelle situazioni in cui vi
sia una esaltata sintesi di aldosterone, primitiva (morbo di Conn o iperplasia
surrenalica) o secondaria (ipertensione renovascolare, deplezione del volume
intravascolare).Anche nella sindrome di Bartter consentono la normalizzazione
del quadro elettrolitico.
Significativo
e temibile effetto collaterale è l'ipercaliemia, che può verificarsi se i
risparmiatori di potassio vengono utilizzati in pazienti con dearance della
creatinina inferiore a 30 ml/min, oppure in concomitanza con supplementazioni di
potassio. L'associazione con inibitori dell'enzima di conversione va fatta con
cautela, poiché anche questo gruppo di farmaci riduce l'eliminazione renale di
potassio.
La
natriuresi e la diuresi determinate dall'attività farmacologica di un diuretico
producono un'alterazione dell'omeostasi idrosodica alla quale conseguono una
serie di modificazioni dell'assetto ormonale sistemico e intrarenale,
dell'attività del sistema nervoso simpatico e forse anche della stessa
morfologia delle cellule tubulari renali. Tali modificazioni limitano
l'attività sodio-depletiva e diuretica del farmaco, possono contribuire
all'instaurarsi della cosiddetta "resistenza" o
"refrattarietà" ai diuretici e condizionano la comparsa di numerosi
effetti collaterali. Prima di prendere in considerazione l'utilizzazione dei
diuretici nella pratica dinica è pertanto necessario esaminare brevemente la
dinamica e i meccanismi di adattamento renale e sistemico alla terapia
diuretica.
La
prima somministrazione di un diuretico determina normalmente un evidente
incremento della diuresi e della natriuresi. Quando l'effetto diuretico cessa
(dopo poche ore per i diuretici con elevata dearance renale, come la furosemide,
o dopo un giorno per i diuretici a dearance più bassa, come il clortalidone),
se la somministrazione non viene ripetuta, si assiste di regola ad una fase di
antidiuresi/antinatriuresi, che cessa al ripristino dell'assetto omeostatico
iniziale. Una singola somministrazione di un farmaco diuretico, in altri
termini, determina subito un bilancio idrosodico negativo, che viene in seguito
rapidamente annullato da un'esaltata attività tubulare di riassorbimento.
È la stessa azione farmacologica del diuretico che attiva o esalta i
meccanismi fisiologici antagonisti: in seguito alla deplezione del volume
plasmatico diuretico-indotta si assiste di regola all'incremento dell'attività
del sistema renina-angiotensina-aldosterone (RAA), del tono del sistema nervoso
simpatico, della concentrazione plasmatica della noradrenalina e della sintesi
di ormone antidiuretico (ADH). A questi stimoli neuro-ormonali i nefroni
rispondono con un'esaltata attività di riassorbimento idrosodico, di entità
tale da annullare l'azione del diuretico in breve tempo. La deplezione
idrosodica stimola inoltre il centro ipotalamico della sete: il conseguente
incremento dell'introito idrico contribuisce alla riespansione del volume
extracellulare.
Se
il diuretico viene invece somministrato cronicamente, a dosaggi fissi ed a
intervalli regolari, l'attivazione dei meccanismi fisiologici di compenso non
annulla del tutto la deplezione volemica desiderata. In seguito a
somministrazioni ripetute di un diuretico tiazidico a lunga emivita, come per
esempio il clortalidone, ad una fase iniziale di bilancio idrosodico negativo,
che in genere dura da qualche giorno ad una settimana, fa seguito un nuovo
riassetto omeostatico, in cui le entrate di acqua e di sodio equivalgono alle
uscite, mentre il volume extracellulare è stabilmente ridotto rispetto alle
condizioni di partenza. Tutto ciò è evidenziabile clinicamente con una perdita
di peso di qualche chilogrammo e con il riscontro obiettivo della riduzione
dell'entità degli edemi e/o dei valori pressori. La somministrazione cronica di
clortalidone in questi casi determina una riduzione stabile del riassorbimento
sodico a livello del tubulo convoluto distale e del segmento di connessione, che
come si è detto sono i siti di azione dei diuretici tiazidici, mentre negli
altri tratti del nefrone il riassorbimento sodico non solo non viene inibito, ma
anzi viene incrementato. I succitati meccanismi fisiologici omeostatici
determinano infatti un aumento del riassorbimento nel tubulo prossimale (angiotensina
II, noradrenalina) e nei tubuli collettori (aldosterone); a ciò si aggiunge una
riduzione del carico filtrato di sodio, che consegue alla riduzione del filtrato
glomerulare derivante dalla vasocostrizione pre- e post-glomerulare (angiotensina
II, noradrenalina) e dalla contrazione delle cellule mesangiali (angiotensina
II). Nell'animale da esperimento sottoposto a terapia cronica con diuretici è
stata di recente evidenziata una ipertrofia delle cellule degli ultimi tratti
del nefrone, nelle quali il riassorbimento sodico è esaltato a causa del blocco
farmacologico nei distretti più a monte. L'assetto omeostatico che consegue
alla somministrazione cronica di un diuretico (che in ultima analisi è
l'effetto terapeutico desiderato) è il risultato dell'equilibrio tra
l'attività farmacologica e i meccanismi fisiologici di compenso.
Un
tale risultato terapeutico può essere mantenuto soltanto se la somministrazione
del diuretico viene proseguita senza soluzione di continuità.Alla cessazione
dell'assunzione del farmaco, dopo un tempo variabile in funzione del tipo di
diuretico, delle condizioni generali del paziente e dell'introito di sodio con
la dieta si assiste di regola ad una fase di bilancio idrosodico positivo, con
riespansione del volume extracellulare e ritorno alle condizioni cliniche
precedenti. I diuretici sono dei farmaci tipicamente sintomatici: per tutta la
durata della loro azione essi determinano le desiderate modificazioni del
bilancio idrosalino e dell'assetto dei compartimenti idrici dell'organismo, ma
quando il loro effetto cessa, nell'organismo viene rapidamente ripristinato
lo"statu quo ante".
La
velocità con cui l'effetto diuretico viene antagonizzato è inversamente
proporzionale all'introito di cloruro di sodio con la dieta.
È ormai accertato che elevati introiti di cloruro di sodio sono in grado
di antagonizzare anche l'effetto dei diuretici più potenti, mentre modiche
restrizioni sodiche valgono al contrario a smascherare erronee diagnosi di
"resistenza" ai diuretici.
È buona norma, prima di intraprendere una terapia diuretica in qualsiasi
situazione dinica, quella di prescrivere ai pazienti una dieta iposodica,
sufficientemente documentata e motivata.
La
persistenza di edemi o di valori pressori elevati nonostante la prescrizione di
una dose considerata ottimale di diuretico configura la cosiddetta
"resistenza" o "refrattarietà" al farmaco. In clinica
questi termini vengono molto spesso utilizzati in maniera impropria, poiché
analizzando con attenzione e nel suo insieme ogni quadro clinico, spesso si
riesce ad individuare uno o più cofattori responsabili della troppo
affrettatamente definita "resistenza".
La
prima condizione da escludere, in questi casi, è la presenza di edema non
dovuto a ritenzione idrosalina da parte dei reni, ma piuttosto a ostruzione
venosa o linfatica. Successivamente, è necessario valutare attentamente
l'introito idrosodico del paziente. Se il peso corporeo è costante, e il
bilancio idrosodico quotidiano è di conseguenza uguale a zero, la quantità di
sodio escreto nelle urine di 24 ore è una buona misura dell'introito, e
consente di svelare eventuali eccessi non rilevabili anamnesticamente. La
mancata compliance farmacologica dei pazienti può essere evidenziata solo
mediante i dosaggi urinari dei farmaci escreti.
La
conoscenza dell'emivita di un diuretico consente di ottimizzare i risultati
clinici: la stessa dose di un diuretico a breve durata d'azione, come la
furosemide, produce un maggior effetto diuretico se frazionata e somministrata a
più riprese nel corso della giornata. Presumibilmente ciò deriva dal fatto che
viene in tal modo contrastato il fenomeno dell'antidiuresi cui si è accennato
nel paragrafo precedente
La
malattia di base può rendere insufficiente l'assorbimento intestinale del
diuretico o può limitare la quantità di farmaco che perviene ai reni.
Nell'insufficienza renale l'attività dei più potenti diuretici è limitata dal
ridotto numero dei nefroni funzionanti. La perdita di proteine attraverso i
glomeruli fa sì che all'interno dei tubuli una grande quantità di diuretico
venga legata dalle proteine stesse, e quindi non sia disponibile per il legame
con i siti attivi sulla parete cellulare. In tutti questi casi incrementando il
dosaggio del farmaco (e/o utilizzando la via endovenosa se si sospetta un
problema di assorbimento intestinale) si assiste di regola ad una risposta
clinica più soddisfacente.
La
concomitante somministrazione di farmaci antiflogistici non steroidei, forse con
la sola eccezione del sulindac, determina una riduzione della risposta dinica ai
diuretici a causa del blocco della sintesi di prostaglandine renali, la cui
escrezione con le urine è sempre aumentata in corso di terapia diuretica.
Infine,
la risposta clinica ai diuretici è criticamente condizionata dalla situazione
fisiopatologica del paziente a cui essi vengono somministrati: in presenza di
sindromi edemigene gravi, caratterizzate da ipovolemia o severa riduzione del
volume arterioso efficace, gli stimoli neuroormonali che promuovono l'esaltato
riassorbimento sodico sono di entità tale che per tentare di contrastarli è
necessario utilizzare dosi massimali di diuretici potenti. A nostro avviso, solo
queste sono definibili come situazioni di vera "resistenza" ai
diuretici. Talvolta, in questi casi, alla terapia farmacologica devono essere
associati provvedimenti non farmacologici.
Il
più importante provvedimento non farmacologico da prescrivere in presenza di
insufficiente risposta ai diuretici, come si è detto prima, è una seria
riduzione dell'introito sodico. A questa, per la conseguente mancata
stimolazione del centro della sete, fa seguito la riduzione dell'introito
idrico. In presenza di severa insufficienza cardiaca o di cirrosi epatica, la
postura influenza criticamente la natriuresi, poiché in posizione eretta gli
stimoli sodioritentivi vengono massimamente esaltati. In questi casi il decubito
in posizione orizzontale è sufficiente ad incrementare l'escrezione sodica e a
potenziare concretamente l'attività di un diuretico. In pazienti cirrotici o
nefrosici, ma non in cardiopatici, l'immersione in acqua tiepida fino al collo,
che centralizza il volume plasmatico e aumenta il ritorno venoso e la perfusione
renale, permette un analogo potenziamento dell'azione di un diuretico, e
consente di superare la cosiddetta "refrattarietà".
In
pazienti con insufficienza cardiaca congestizia, già sottoposti a terapia
diuretica a dosi massimali, l'utilizzazione della emofiltrazione arteriovenosa
continua o della ultrafiltrazione mediante un circuito extracorporeo e membrane
semipermeabili, con tecnica analoga a quella adoperata nell’insufficienza
renale, consente di ottenere una riduzione degli edemi "refrattari" e
in alcuni casi anche un ripristino della risposta renale ai diuretici.
Nell'insufficienza renale di severa entità a diuresi conservata è pratica
comune tra i nefrologi l'associazione di alte dosi di furosemide al trattamento
emodialitico periodico, allo scopo di controllare con modalità più
fisiologiche gli edemi conseguenti alla severa ritenzione idrosalina.
La
somministrazione contemporanea di due o più diuretici attivi su tratti diversi
del nefrone consente di contrastare efficacemente alcuni dei meccanismi
delineati nel paragrafo "Modificazioni dell'omeostasi idrosodica
conseguenti all'azione dei diuretici", riducendo gli effetti collaterali
e/o potenziando la risposta dinica a tali farmaci.
L'associazione
tra diuretici dell'ansa (o tiazidici) e risparmiatori di potassio è utilizzata
nella pratica clinica già da diversi anni. Essa non solo determina una
natriuresi maggiore rispetto a quella ottenibile con ciascun farmaco da solo, ma
consente soprattutto di antagonizzare la più temibile conseguenza della terapia
diuretica protratta, che è la deplezione del contenuto corporeo di potassio. Il
sinergismo delle attività farmacologiche, come per ogni altra associazione di
farmaci, consente anche di ottenere il risultato terapeutico desiderato con dosi
ridotte di ciascuno dei due farmaci. Non è possibile stabilire a priori il
rapporto ottimale tra le dosi dei due tipi di farmaco: il medico deve ricercare
per ogni singolo paziente, sulla base della risposta clinica, la posologia
ottimale. In commercio esistono numerose associazioni (furosemide/spironolatone,
idroclorotiazide/amiloride) il cui unico svantaggio è quello di contenere un
rapporto fisso tra i due principi attivi, che talvolta rende difficile la
personalizzazione della terapia.
Più
di recente, è stata segnalata l'utilità di una associazione tra diuretici
dell'ansa e tiazidici, che consentirebbe una natriuresi massiva e rapida anche
in presenza di situazioni di vera "refrattarietà" ai diuretici
(vedere paragrafo "La "resistenza" ai diuretici"). Nel corso
di sindromi edemigene severe tale associazione determinerebbe il blocco completo
del riassorbimento sodico nella porzione distale del nefrone. Per i possibili
effetti collaterali (deplezione volemica, ipocaliemia) ne viene consigliata
l'utilizzazione soltanto in pazienti ospedalizzati.
Le
associazioni tra diuretici e altri tipi di farmaci verranno esaminate nei
paragrafi dedicati all'uso dei diuretici nelle varie sindromi cliniche.
Nella
descrizione delle varie classi di diuretici che è stata fatta nel paragrafo
"farmaci diuretici" è già stato fatto cenno ai possibili effetti
indesiderati di ciascuna di esse.In questa sede verranno descritte più
estesamente le complicanze che derivano dall'uso prolungato dei diuretici
appartenenti alle tre classi più utilizzate in dinica, che sono i diuretici
dell'ansa, i tiazidici e i risparmiatori di potassio. Va sottolineato che le
complicanze più comuni derivanti dall'uso dei diuretici sono una diretta
conseguenza della loro attività farmacologica e delle conseguenti modificazioni
omeostatiche indotte.Solo una grande attenzione e uno stretto monitoraggio
clinico-laboratoristico garantiscono il buon esito di una terapia diuretica,
soprattutto in caso di somministrazioni protratte e/o con dosaggi elevati di
farmaci.
Sono
spesso le conseguenze di un eccesso di zelo nella somministrazione di diuretici.
Il compartimento idrico intravascolare è quello che per primo risente della
deplezione idrosodica indotta da tali farmaci. Se la risposta diuretica è
troppo rapida, tanto da non permettere il passaggio di acqua e sodio dagli spazi
interstiziali al plasma (come si verifica nelle sindromi edemigene più gravi, e
soprattutto in corso di cirrosi epatica con ascite) è possibile che il paziente
manifesti i segni e i sintomi dell'ipovolemia: debolezza, malessere generale,
crampi muscolari e ipotensione posturale. Lo stesso accade nelle terapie
protratte, se nella fase di mantenimento che segue alla scomparsa degli edemi la
posologia del diuretico non viene adeguatamente ridotta. La riduzione della
perfusione renale è evidenziata, in questi casi, da un incremento della
concentrazione dell'urea ematica, non accompagnato da un parallelo incremento
della creatinina. È questo un
parametro utilissimo di ipoperfusione renale, derivante dalle diverse modalità
di escrezione renale delle due sostanze, che deve essere periodicamente
controllato nel corso di terapie diuretiche protratte in situazioni cliniche di
severa entità.Nei casi più gravi di ipovolemia, anche la creatininemia può
elevarsi, anche se sempre in misura proporzionalmente inferiore all'incremento
dell'azotemia. Si configura in tal modo una insufficienza renale cosiddetta
"prerenale", funzionale, che necessita tuttavia di una rapida
correzione mediante la sospensione del diuretico e/o l'espansione del volume
circolante con soluzione fisiologica.
La
concentrazione plasmatica di potassio di pazienti ipertesi che non assumono
supplementi di potassio si riduce mediamente di 0,6 mmol/litro dopo una
settimana di terapia con tiazidici e di 0,3 mmol/litro dopo terapia con
furosemide. Nel proseguimento della terapia non si assiste di solito ad
ulteriori riduzioni della caliemia. Il pericolo di aritmie ventricolari mortali
conseguenti all'ipocaliemia derivante dall'uso protratto dei diuretici è stato
probabilmente sopravvalutato negli anni scorsi. L'ipocaliemia severa (inferiore
a 3 mmol/l) richiede certamente un trattamento, mentre gradi minori di
ipocaliemia (tra 3 e 3,5 mmol/l) sono da trattare solo in pazienti già a
rischio di aritmie per altri motivi (trattamento con digitale, ipertrofia
ventricolare sinistra, cardiopatia ischemica, insufficienza cardiaca, ipossia).I
meccanismi con cui i diuretici dell'ansa e i tiazidici determinano deplezione
potassica sono gli stessi: aumento del flusso nei tratti distali del nefrone e
stimolo della sintesi di aldosterone. L'associazione con risparmiatori di
potassio, come si è detto, è una soluzione logica al problema.Un'alternativa
è la supplementazione orale (o, in caso di emergenza, endovenosa) di cloruro di
potassio.
È una complicanza strettamente connessa con la precedente.
È di particolare gravità nei pazienti con epatopatia cronica e ascite,
in cui l'alcalosi può precipitare il coma epatico favorendo la conversione di
ioni ammonio in ammoniaca, che supera la barriera ematoencefalica e penetra
nelle cellule cerebrali. Altrettanto pericolosa è l'alcalosi metabolica nei
pazienti con insufficienza respiratoria, poiché essa può diminuire la
ventilazione polmonare. L'alcalosi deriva primitivamente da una
"contrazione" del volume extracellulare per perdita esclusiva di ioni
sodio e cloro, e relativo conseguente aumento della concentrazione di
bicarbonato. L'ipocaliemia e l'iperaldosteronismo contribuiscono al mantenimento
dell'alcalosi, che determina a sua volta una progressiva riduzione
dell'efficacia dei diuretici dell'ansa.
La
terapia con supplementi di cloruro di potassio o con antagonisti
dell'aldosterone è utile per controllare anche questa complicazione.
I
diuretici risparmiatori di potassio possono causare iperealiemia, generalmente
accompagnata da acidosi metabolica, se somministrati a pazienti con
insufficienza renale, oppure nel corso di supplementazioni con sali di potassio,
o in associazione con inibitori dell'enzima di conversione.
I
diuretici dell'ansa inibiscono il riassorbimento tubulare del magnesio
aumentandone l'escrezione urinaria. Anche i tiazidici, nelle somministrazioni
croniche, determinano deplezione dei depositi corporei di magnesio. I
risparmiatori di potassio hanno un effetto opposto.
La
riduzione del magnesio, soprattutto se associata a quella del potassio,
predispone alle aritmie cardiache. Altri sintomi dell'ipomagnesemia sono:
debolezza muscolare, fascicolazioni e tremori. Sono stati segnalati episodi di
tetania e psicosi acute correlabili con la deplezione di magnesio.
Nelle
terapie diuretiche protratte con un diuretico dell'ansa o un tiazidico, per le
ragioni suesposte, sembra più conveniente associare un risparmiatore di
potassio, piuttosto che supplementi di potassio cloruro.
È un problema frequentemente riscontrato in pazienti edematosi per
insufficienza cardiaca o cirrosi epatica, nei quali viene esacerbato dalla
terapia diuretica protratta. Nei pazienti ipertesi invece è la somministrazione
di diuretico che lo determina "de novo". L'iponatriemia è correlata
all'incremento della secrezione di ADH, stimolata dall'ipovolemia indotta dalla
malattia ed eventualmente aggravata dal diuretico, ma anche ad un incremento
dell'introito idrico. L'acqua ingerita viene trattenuta poiché l'ADH ne
impedisce l'escrezione, e diluisce il sodio plasmatico (ma anche tutti gli altri
soluti presenti in tutti i compartimenti idrici dell'organismo).
Sono
solo i diuretici tiazidici che determinano o aggravano l'iponatriemia, a causa
del loro meccanismo d'azione, consistente nel blocco del trasporto sodico nei
segmenti diluenti del nefrone.I diuretici dell'ansa, che bloccano sia la
diluizione delle urine, ma anche la concentrazione, non solo non determinano
iponatriemia, ma sono utilizzati nella correzione rapida delle iponatriemie
severe (quando il sodio plasmatico scende al di sotto di 125 mmol/l), insieme
all'infusione di soluzione fisiologica. L'iponatriemia determina danni cerebrali
gravi, talora irreversibili, che vanno dalla sonnolenza, alle convulsioni, al
coma e alla morte. Occorre ricordare che esistono fondati sospetti che la
correzione troppo rapida della iponatriemia sia responsabile di una sindrome di
recente identificazione anatomopatologica, le mielinolisi pontina centrale.
Viene consigliato di non correggere l'iponatriemia severa con una velocità
superiore a l2 mmol/l al giorno.
I
tiazidici incrementano la concentrazione plasmatica di calcio ionizzato con un
duplice meccanismo: la contrazione del volume circolante e un blocco diretto dei
meccanismi di secrezione distale dello ione. L'incremento è generalmente di
modesta entità e non determina, di regola, un aumento stabile del calcio totale
al di sopra dei limiti massimi della norma. Se ciò avviene, è necessario
ricercare una causa extrarenale di ipercalcemia, che frequentemente è
identificabile in un adenoma paratiroideo misconosciuto. Nel trattamento
dell'ipercalciuria i tiazidici possono pertanto rendere più precocemente
evidenti, a livello laboratoristico, uno stato di iperparatiroidismo.
Una
terapia tiazidica prolungata per l'ipertensione incrementa la concentrazione
sierica dell'acido urico di circa il 35%. La clearance dell'acido urico è
ridotta in seguito alla riduzione del volume extracellulare, che stimola il
riassorbimento prossimale di sodio e, parallelamente, di acido urico.
L'iperuricemia generalmente non richiede una terapia, a meno che il paziente non
abbia una predisposizione alla gotta.
La
terapia diuretica prolungata peggiora la tolleranza ai carboidrati e può
occasionalmente indurre il diabete mellito in soggetti ad altro rischio
costituzionale o familiare. Non è noto quale sia l'esatto meccanismo con cui i
tiazidici, e in minor misura i diuretici dell'ansa, determino l'innalzamento
della glicemia. In alcuni studi sarebbe stata evidenziata un'inibizione della
secrezione pancreatica di insulina, mentre altri dimostrerebbero un'interferenza
con l'utilizzazione periferica del glucosio. L'ipocaliemia indotta da questi
farmaci potrebbe essere responsabile di entrambi i meccanismi ipotizzati. La
glicemia deve essere periodicamente monitorata in tutti i pazienti sottoposti a
terapia diuretica.
Subito
dopo l'inizio della terapia con tiazidici si può assistere ad un modesto
incremento delle concentrazioni plasmatiche di colesterolo, trigliceridi, LDL e
VLDL. Non è noto il meccanismo con cui tale incremento si verifica, né il suo
significato in senso aterogeno. Nella maggior parte dei casi la colesterolemia
si
normalizza entro qualche mese dall'inizio della terapia.
Nelle
sindromi cliniche caratterizzate dall'espansione del liquido extracellulare e
dal suo accumulo negli spazi interstiziali (edema), la terapia diuretica ha
l'obiettivo di creare un bilancio idrosodico negativo, contrastando l'eccessivo
riassorbimento renale di acqua e sodio.
In
questo paragrafo sarà schematizzata la fisiopatologia delle principali sindromi
edemigene, e per ciascuna di esse verranno analizzate criticamente le
indicazioni e i limiti della terapia diuretica. Va ricordato ancora una volta
che i diuretici sono farmaci tipicamente sintomatici, e come tali consentono
nella maggior parte dei casi di alleviare la sintomatologia dinica dei pazienti,
ma in nessun caso di risolvere definitivamente il processo patologico. Prima di
ricorrere alla terapia con diuretici (o contemporaneamente ad essa) è sempre
necessario ricercare la causa che ha determinato la comparsa degli edemi e, se
possibile, intraprendere una terapia mirata alla risoluzione di essa.
Con
la sola eccezione dell'edema polmonare acuto, che necessita di terapia
immediata, in nessun altro caso la presenza di edema richiede un trattamento
rapido: lo smaltimento del surplus idrosalino deve avvenire con gradualità,
allo scopo di evitare conseguenze emodinamiche spiacevoli e di ridurre al minimo
gli effetti collaterali.Nel corso della terapia diuretica il più importante dei
parametri da controllare periodicamente, insieme alla valutazione fisica
dell'entità dell'edema, è il peso corporeo.
Occorre
ricordare altresì che per ottenere un bilancio idrosodico negativo è
indispensabile prescrivere contemporaneamente ai diuretici una restrizione
dell'introito di sodio, di entità corrispondente alla severità del quadro
clinico che si intende trattare. Un eccessivo introito di sodio è in grado di
ridurre (e in certi casi annullare) il risultato clinico ottenibile con un
diuretico.
Prima
di iniziare la trattazione delle varie sindromi edemigene, infine, va
sottolineato che in ogni caso il dosaggio del diuretico può e deve essere
periodicamente riconsiderato nel corso della terapia: per esempio, dopo aver
ottenuto la riduzione degli edemi (con una dose di "attacco"), è
opportuno proseguire con una dose minore, che ha lo scopo di prevenire il
riformarsi degli edemi stessi (dose di "mantenimento"). Analogamente,
la dose di diuretico deve essere ridotta in concomitanza con un episodio
diarroico, o con qualunque altra perdita di liquidi dovuta a cause
intercorrenti. Ovvero, deve essere incrementata in occasione di un maggior
introito idrosalino non correlato con la malattia di base.
Patogenesi
dell'edema nell'insufficienza cardiaca cronica (scompenso cardiaco cronico): la
riduzione della portata cardiaca, che fa seguito a qualsivoglia cardiopatia,
determina da un lato l'aumento della pressione venosa, dall'altro una riduzione
critica e generalizzata della perfusione tissutale (i termini "volume
ematico effettivo" e/o "volume circolatorio efficace" fanno
riferimento alla quantità di sangue che effettivamente perfonde i tessuti, che
a tutt'oggi non è possibile misurare direttamente, ma che identifica una ben
precisa modificazione dell'assetto emodinamico sistemico). All'aumento della
pressione venosa fa seguito un'alterazione dell'equilibrio dinamico degli scambi
idrosodici a livello capillare, con conseguente espansione del volume
interstiziale, a spese di quello plasmatico. Contemporaneamente, la riduzione
del "volume ematico effettivo" stimola l'attivazione del sistema
renina-angiotensina-aldosterone e del sistema nervoso simpatico, come pure la
sintesi di ADH. Aldosterone, catecolamine e ADH determinano un incremento del
riassorbimento renale di sodio e acqua, cui consegue un'espansione di tutto il
volume extracellulare.
Nelle
fasi iniziali dell'insufficienza cardiaca cronica (ICC) l'aumentata attività
simpatica e l'espansione del volume extracellulare possono determinare un
incremento della portata cardiaca, possono essere cioè in grado di
"compensare" in parte il deficit cinetico.A livello della circolazione
periferica, l'angiotersina, le catecolamine e altri mediatori chimici
determinano vasocostrizione e aumento delle resistenze periferiche totali,
contribuendo inizialmente a mantenere normale la pressione arteriosa. Il
suddetto "compenso" è però imprescindibile dalla persistenza
dell'ipertensione venosa e dell'edema.
Nelle
situazioni di compromissione miocardica più avanzata la vasocostrizione
periferica assume però progressivamente il significato di un elemento sempre
più sfavorevole per l'assetto emodinamico. Essa infatti rappresenta una sempre
maggiore impedenza al lavoro meccanico di cuore e pertanto contribuisce a
comprometterne ulteriormente la capacità cinetica. Inoltre, recenti
segnalazioni sull'attività biologica dell'angiotensina II a livello
subcellulare inducono a ritenere che questo ormone possa avere un ruolo nei
meccanismi di aggravamento dell'ICC, anche indipendentemente dagli effetti
emodinamici diretti. Questi dati forniscono una possibile interpretazione alla
correlazione inversa esistente tra le concentrazioni plasmatiche dei mediatori
neuroormonali e la prognosi quoad vitam del paziente con ICC.
Dalla
sia pur schematica descrizione della fisiopatologia delle varie fasi dell'ICC si
deduce con immediatezza il ruolo "ambivalente" rappresentato dalla
terapia diuretica. Se infatti i diuretici, antagonizzando l'attività
sodioritentiva dell'aldosterone e delle catecolamine e riducendo l'espansione
del volume extracellulare, determinano un sicuro sollievo dei sintomi correlati
all'ipertensione venosa, essi certamente riducono ulteriormente la già
compromessa perfusione tessutale e attivano ulteriormente la sintesi di
mediatori neuroormonali vasocostrittori. Ciò avviene in tutte le fasi dell'ICC,
da quelle subcliniche a quelle più severe.Pertanto, ogni volta che si prescrive
un diuretico ad un paziente con ICC è necessario aver presenti le possibili
conseguenze in termini fisiopatologici e clinici: si devono cioè valutare sia i
possibili benefici in termini di riduzione della dispnea e degli edemi
periferici, sia i possibili effetti indesiderati rappresentati da ipotensione
e/o aumento dell'azotemia (espressione, rispettivamente, di ipovolemia e
ipoperfusione renale). È
necessario altresì tener presenti i potenziali effetti negativi, clinici e
subclinici, dell'ulteriore incremento della sintesi di angiotensina II.
I
diuretici e la digitale hanno rappresentato a lungo le uniche opzioni
terapeutiche disponibili per l'ICC. Recentemente, e in accordo con le
considerazioni fisiopatologiche suesposte, si è sempre più diffuso l'uso dei
farmaci vasodilatatori (arteriosi, come l'idralazina, o venosi, come i nitrati),
ma soprattutto di quelli in grado di inibire l'attivazione del sistema RAA,
cioè gli ACE inibitori. Questi ultimi hanno rappresentato un reale progresso in
termini di qualità della vita dei pazienti e anche di sopravvivenza a lungo
termine. Sono anche disponibili nuovi farmaci ad azione inotropa, come la
dopamina, la dobutamina, l'ibopamina e il milrinone. L'utilizzazione di piccole
dosi di beta bloccanti allo scopo di ridurre il dispendio energetico miocardico
può in alcuni casi essere presa in considerazione, anche se sull'argomento non
esiste unanimità di vedute.
I
protocolli terapeutici correntemente utilizzati nella varie fasi dell'ICC, in
accordo con quanto è stato finora esposto, comprendono quasi sempre
associazioni di diuretici, vasodilatatori e/o inotropi. Ciò consente,
analogamente ad altre associazioni farmacologiche, di ottimizzare i risultati
e/o minimizzare gli effetti indesiderati di ciascun farmaco. La furosemide, per
via orale o endovenosa, è il diuretico più utilizzato nell'ICC. Nelle fasi
iniziali può essere prescritto due o tre volte la settimana (25 mg p.o. al
mattino), sempre in associazione con un introito controllato di sodio e con il
consiglio di trascorrere un buon periodo della giornata (ma non tutta la
giornata!) a riposo a letto. La dose può e deve essere gradualmente
incrementata parallelamente al progredire della severità della cardiopatia.
Come si è detto nei paragrafi precedenti, l'edema della parete intestinale può
comprometterne l'assorbimento (che di norma è pari a circa il 50% della dose
ingerita). In questi casi è consigliabile incrementare il dosaggio o utilizzare
la somministrazione parenterale. Nei casi più severi, fino a 250-500 mg per via
e.v. e a l-2 g per via orale sono utilizzati con successo. Il monitoraggio della
terapia diuretica richiede una attenta osservazione della situazione clinica e
periodici controlli ematochimici (potassiemia, azotemia ecc.) allo scopo di
individuare precocemente eventuali effetti indesiderati. Alla furosemide è
utile talvolta associare risparmiatori di potassio, anch'essi per via orale o
e.v. Rispetto alle supplementazioni orali di cloruro di potassio i diuretici
antialdosteronici o l'amiloride hanno il vantaggio di potenziare l'azione
diuretica della furosemide.
Anche
i tiazidiei, da soli o in associazione con risparmiatori di potassio, vengono
talvolta utilizzati nelle fasi iniziali di ICC. Una associazione razionale, ad
esempio, è quella in cui a 50 mg di idroclorotiazide sono aggiunti 5 mg di
amiloride. La posologia iniziale di tale associazione è di una somministrazione
due-tre volte la settimana, incrementabile fino a una al dì. In caso di
risposta clinica insufficiente, a queste ultime dosi è opportuno preferire un
diuretico dell'ansa. Una complicanza che si osserva con una certa frequenza in
corso di ICC trattata per lungo tempo con tiazidici è l'iponatriemia, nella cui
patogenesi hanno un ruolo sia i suddetti diuretici che l'eccessiva increzione di
ADH di cui si è detto prima. In presenza di iponatriemia di modesta entità è
necessario sostituire il tiazidico con furosemide e prescrivere una restrizione
dell'introito idrico fino a normalizzazione del quadro elettrolitico e osmolare.
Se la concentrazione di sodio è inferiore a l20 mmol/l è consigliabile
infondere soluzioni contenenti NaCl, allo scopo di prevenire i possibili danni
cerebrali da ipoosmolarità (edema cerebrale).
In
caso di ICC di entità severa, e solo in pazienti ospedalizzati, è possibile
associare alla furosemide un diuretico tiazidico, adottando le precauzioni
indicate nei paragrafi precedenti, e obbligando il paziente al riposo assoluto.
Le
tecniche di rimozione meccanica dell'edema, mediante ultrafiltrazione o
emodialisi, sono ancora oggetto di analisi e non è ancora possibile formulare
un sicuro giudizio sulla loro reale efficacia.
L'edema
che accompagna questo tipo di cardiopatia ha una patogenesi del tutto differente
rispetto a quello delle altre cardiopatie croniche. Infatti esso compare anche
in assenza di significative riduzioni della portata cardiaca, e inoltre non
risulta che i meccanismi patogenetici svolgano un ruolo rilevante in senso antinatriuretico.
Solo
i pazienti con ipercapnia severa e protratta sviluppano edemi in questa
condizione, suggerendo che la responsabilità della ritenzione sodica possa
essere dell'elevata pressione parziale di CO2, piuttosto che della disfunzione
cardiaca.In effetti l'ipercapnia cronica è accompagnata da un appropriato
incremento del riassorbimento renale di bicarbonato, che consente di minimizzare
la variazione del pH, e come è noto lo ione bicarbonato è riassorbito, sia nel
tubulo prossimale che nel distale, insieme allo ione sodio.
La
terapia degli edemi nel cuore polmonare cronico consiste pertanto, oltre che
nell'uso di diuretici potenti, anche nel migliorare, se possibile, la
broncopneumopatia di base. La correzione dell'ipossiemia può essere
particolarmente utile, poiché anche la bassa pressione parziale di ossigeno
stimola il riassorbimento sodico renale. La presenza della pneumopatia, in
questi pazienti, rende particolarmente dannosa l'eventuale alcalosi metabolica
determinata da un uso eccessivo di diuretici dell'ansa, poiché un innalzamento
del pH potrebbe deprimere in maniera critica la ventilazione alveolare. In
questi casi è raccomandabile la prescrizione di cicli di acetazolamide, che
determina una perdita di bicarbonato con le urine e consente di correggere le
alterazioni non desiderate del pH.
Sulla
scorta di queste considerazioni si comprende come la terapia degli edemi nel
cuore polmonare cronico richieda una attenta sorveglianza clinica e il frequente
monitoraggio dell'equilibrio acido-base dei pazienti in trattamento.
È un'emergenza medica che richiede terapia immediata per restaurare
l'ossigenazione e la perfusione tessutale. La furosemide per via endovenosa
rappresenta uno dei primi e più efficaci presidi terapeutici di questa
condizione, insieme alla morfina, alla ossigenoterapia, ai nitrati ed
eventualmente agli antiipertensivi. La digitale viene ormai utilizzata
soprattutto in caso di concomitanti aritmie atriali ipercinetiche, mentre i
moderni inotropi come la dobutamina sono utilizzati sempre più frequentemente.
La
dose iniziale di furosemide è di 20-40 mg e.v., ripetibile entro una-due ore
(eventualmente incrementata) sulla base della risposta clinica. Va tenuto
presente che l'insufficienza renale riduce l'efficacia del farmaco, che deve
pertanto in questo caso essere somministrato in dosi più elevate. Nell'edema
polmonare il modesto effetto di dilatazione venosa che la furosemide possiede
contribuisce utilmente alla risoluzione dell'emergenza clinica.
Nei
pazienti con epatopatie croniche, la formazione dell'ascite consegue alle
alterazioni anatomiche intraepatiche che determinano un ostacolo al flusso del
sangue all'interno dei sinusoidi. Tale ostacolo determina l'aumento della
pressione idrostatica intrasinusoidale e la conseguente trasudazione di fluido
negli spazi interstiziali intraepatici. A ciò consegue un incremento, anche
notevole, della formazione di linfa e del drenaggio linfatico, che riesce
inizialmente a svolgere un ruolo compensatorio. Con il progredire dell'entità
dell'ostacolo e della pressione intrasinusoidale, il compenso linfatico non è
più sufficiente, e il liquido interstiziale diffonde, attraverso la capsula
epatica, all'interno del cavo peritoneale.
Alla
sequestrazione distrettuale di liquido interstiziale si associano anche
modificazioni emodinamiche e funzionali a livello renale, con conseguente
ritenzione idrosalina progressivamente ingravescente, espansione del volume
extracellulare e formazione di edemi declivi, prevalentemente agli arti
inferiori a causa della compressione che l'ascite esercita a livello cavale
inferiore. Non vi è univocità di vedute a proposito dei meccanismi
patogenetici che sono alla base dell'aumentato riassorbimento tubulare di sodio:
alla teoria tradizionale, che lo correlava alla ipoproteinemia (conseguente al
deficit di sintesi epatica di albumine) e alla ipovolemia (conseguente alla
formazione dell'ascite e alla distrettualizzazione ematica a livello portale),
negli ultimi anni si è aggiunta la "teoria dell'iperafflusso", che
invece postula l'esistenza di meccanismi di riassorbimento sodico
"primitivi" e indipendenti dalle modificazioni volemiche.
È probabile che entrambi i meccanismi patogenetici coesistano, o che
essi siano operanti con diversa intensità nelle diverse fasi della storia
naturale di una epatopatia cronica cirrogena.
Al
fine della impostazione della terapia diuretica, comunque, piuttosto che la
patogenesi della ritenzione idrosodica, vanno tenute in conto le caratteristiche
di permeabilità dei capillari peritoneali, attraverso i quali il liquido
ascitico viene rimosso in corso di trattamento depletivo. A differenza degli
altri distretti capillari, infatti, a livello peritoneale gli scambi avvengono
con notevole lentezza, per cui una terapia diuretica vigorosa, in un paziente
che non presenta edemi declivi di rilevante entità ma solo ascite, può con
facilità determinare severe ipovolemie. Per questo la terapia con diuretici nei
pazienti cirrotici deve essere condotta con grande prudenza e gradualità, con
l'obiettivo di non determinare mai una perdita di peso superiore a 500 g al dì,
nei pazienti che presentano solo ascite, e a l kg al dì, in quelli che
presentano anche edemi periferici.
Quando
l'ascite è di entità modesta è sufficiente il riposo a letto e la riduzione
drastica del contenuto di sodio degli alimenti per ottenere lo smaltimento del
fluido accumulato. Un recente studio clinico controllato ha confermato la
validità di questi "presidi non farmacologici" per le fasi iniziali
delle epatopatie croniche con ascite.
Per
i casi più severi è consigliabile la somministrazione di spironolattone o
canrenone a dosi crescenti, a partire da l00 e fino a 500-600 mg/die,
incrementando i dosaggi di settimana in settimana, e controllando attentamente
la risposta clinica. La scelta degli antialdosteronici, piuttosto che la
furosemide, come farmaci di primo approccio deriva da numerose considerazioni:
l)soprattutto
nelle fasi avanzate della cirrosi, il sistema renina-angiotensina-aldosterone è
marcatamente stimolato, e la degradazione epatica dell'aldosterone è ridotta;
2)i
sali biliari competono con la furosemide per la secrezione tubulare prossimale,
e ciò riduce l'attività della furosemide, che esplica la sua azione attraverso
il versante luminale della membrana delle cellule del tratto ascendente spesso
dell'ansa di Henle;
3)l'ipoalbuminemia
non consente che una sufficiente quantità di furosemide venga veicolata al
rene, e una quota maggiore di farmaco diffonde nell'interstizio;
4)lo
spironolattone esplica la sua azione attraverso la membrana basolaterale delle
cellule tubulari distali, non necessitando quindi di essere secreto nel fluido
tubulare.
Gli
antialdosteronici sono anche più sicuri e maneggevoli dei diuretici dell'ansa,
poiché il loro uso non comporta il rischio dell'ipocaliemia e dell'alcalosi
metabolica, che in pazienti cirrotici possono precipitare il coma epatico a
causa dell'incrementata produzione di ammoniaca da parte delle cellule tubulari
renali.
Se
la risposta clinica non è soddisfacente, è comunque possibile aggiungere allo
spironolattone un diuretico dell'ansa, come la furosemide alla dose iniziale di
l2,5-25 mg/die per via orale, incrementabile fino a l50-200 mg/die. Come si è
detto, la somministazione di dosi elevate di diuretici potenti necessita di
un'attenta sorveglianza dinico-laboratoristica: effetti collaterali possibili
sono l'ipovolemia e l'ipotensione, l'ipocaliemia, l'ipercaliemia, l'iponatriemia
e i crampi muscolari. In presenza di tali eventi la terapia andrà
opportunamente ridotta e la proporzione fra diuretici dell'ansa e
antialdosteronici riaggiustata. Va ricordato che nei cirrotici la
somministrazione di FANS e la conseguente riduzione della sintesi di
prostaglandine può causare severe ritenzioni idrosaline.
In
caso di mancata risposta diuretica a dosaggi massimali di farmaci, ovvero di
comparsa di effetti collaterali severi, non resta che ricorrere alle metodiche
di rimozione meccanica dell'edema: la paracentesi con o senza reinfusione del
fluido sottratto, o l'inserimento di uno shunt peritoneo-giugulare. Un recente
trial controllato ha dimostrato che la paracentesi può essere una valida
alternativa alla terapia con soli diuretici, poiché consentirebbe più brevi
periodi di ospedalizzazione e avrebbe una minore incidenza di effetti
collaterali come iperazotemia e alterazioni elettrolitiche.
È buona norma fare seguire alla paracentesi (che non deve mai mirare
alla rimozione completa del liquido ascitico) l'infusione e.v. di 25-50 g di
albumina priva di sodio, allo scopo di prevenire l'ipovolemia e la riformazione
rapida dell'ascite. Numerose tecniche per la concentrazione e la reinfusione del
liquido ascitico sono state proposte e vengono realizzate nei centri
specializzati: manca ancora, purtroppo, la conferma di una reale utilità di
tali tecniche (costose e non esenti da effetti collaterali) in termini di
miglioramento della sopravvivenza, oltre che della qualità della vita, dei
pazienti cirrotici.
Ancora
più incerte sono le indicazioni all'inserzione di shunt peritoneo-giugulare
tipo Le Vecn o tipo Denver, che consentono il drenaggio spontaneo dell'ascite
dal cavo peritoneale al sistema venoso cavale superiore. L'elevata incidenza di
complicazioni potenzialmente fatali (coagulazione intravascolare disseminata,
sepsi, sanguinamento di varici esofagee) rende perplessi sulla reale utilità di
tali protesi.
La
progressiva riduzione del numero dei nefroni funzionali che caratterizza
l'insufficienza renale cronica (IRC) di qualsivoglia etiologia, è accompagnata
da una serie di modificazioni delle funzioni tubulari, che consentono di
mantenere stabili la maggior parte degli equilibri omeostatici di pertinenza
dell'emuntorio renale, anche nelle fasi più avanzate delle nefropatie croniche.
Per ciò che riguarda l'escrezione di sodio, ad esempio, mentre un soggetto
sano, con un valore di l00 ml/min di clearance della creatinina elimina circa lo
0,5 % del carico di sodio filtrato (poiché normalmente i tubuli riassorbono il
restante 99,5%), un paziente con IRC di severa entità, con clearance della
creatinina di 5 ml/min, elimina circa il l0% del carico filtrato, poiché il
riassorbimento tubulare si riduce al 90%. Le suddette modificazioni della
funzione tubulare in funzione della riduzione del patrimonio nefronico sono il
risultato dell'esaltazione dei normali meccanismi di regolazione del bilancio
sodico.
Tale
compenso.funzionale, comunque, non è senza limiti, poiché presto o tardi, nel
corso della storia naturale di tutte le nefropatie croniche, e parallelamente
alla cessazione delle funzioni degli ultimi nefroni residui ipertrofici, si
assiste all'instaurarsi di un bilancio sodico positivo. A questo consegue una
espansione del volume extracellulare e, sul piano clinico, compaiono edemi
dedivi e ipertensione (ovvero si aggrava la preesistente situazione ipertensiva
che conseguiva alla nefropatia di base).
L'uso
dei diuretici, in questa situazione, consente di correggere l'alterazione del
bilancio sodico semplicemente esaltando l'attività di un meccanismo
compensatorio già operante. Rispetto ad altre sindromi edemigene con volume
plasmatico ridotto o "inefficace", nell'IRC è presente una situazione
di vera ipervolemia, che consente di somministrare i diuretici con relativa
maggiore sicurezza. Nel corso della terapia è in ogni caso sempre necessario
sorvegliare lo stato di espansione del volume extracellulare valutando l'entità
degli edemi e misurando la pressione arteriosa. L'eccessiva riduzione del
patrimonio idrosalino può determinare una ipoperfusione renale, che potrebbe
compromettere ulteriormente il filtrato glomerulare.
Come
si è detto nel paragrafo "farmaci diuretici", solo i diuretici
dell'ansa sono in grado di indurre una deplezione sodica nell'insufficienza
renale di severa entità, e spesso sono necessarie dosi molto elevate. Si può
cominciare con una prescrizione di 25 mg di furosemide per os, incrementando il
dosaggio progressivamente, sulla base della risposta clinica, fino a l g per os
oppure l60-200 mg per via e.v. Come in altre sindromi edemigene, alla
somministrazione di diuretico è necessario far precedere la prescrizione di una
dieta rigidamente iposodica.
Nei
pazienti con IRC di severa entità sono stati descritti sporadicamente danni
otologici in seguito a somministrazioni rapide di elevate dosi di furosemide
e.v. Le stesse dosi somministrate nel corso di qualche ora e/o per via orale
sembrano non gravate di ototossicità. Dei diuretici tiazidici, il metolazone è
l'unico attivo anche in presenza di IRC di severa entità (clearance della
creatinina < 25 ml/min). La sua utilizzazione non sembra però più
vantaggiosa di dosi equipotenti di diuretici dell'ansa.Anche nell'IRC a seguito
dell'uso di diuretici potenti è possibile indurre deplezione potassica e
ipocaliemia: in questi casi è più prudente la cauta somministrazione di
supplementi di potassio cloruro, piuttosto che l'utilizzo di farmaci
risparmiatori di potassio, che possono determinare ipercaliemie severe e
protratte, potenzialmente mortali.
Nelle
fasi più severe dell'IRC terminale, quando gli edemi e l'ipertensione diventano
refrattari al trattamento diuretico, si configura inequivocabilmente
l'indicazione al trattamento sostitutivo mediante emodialisi o allotrapianto di
rene.
Il
quadro clinico di tutte le malattie renali caratterizzate da processi
infiammatori acuti prevalentemente localizzati a livello glomerulare
(glomerulonefriti primitive, vasculiti microscopiche, malattie sistemiche ecc.)
comprende edema e ipertensione volume-dipendente. Il riassorbimento sodico, in
questi pazienti, è massimamente esaltato a causa della ridotta quantità di
filtrato glomerulare che perviene a tubuli anatomicamente pressoché indenni. La
differente distribuzione del processo patologico, in altri termini, fa sì che i
nefroni si comportino funzionalmente come se fossero severamente ipoperfusi.
Alla risoluzione della flogosi glomerulare (spontanea o conseguente alla terapia
corticosteroidea e/o immunosoppressiva) si accompagna il progressivo ripristino
dell'equilibrio glomerulo-tubulare e la normalizzazione dell'escrezione sodica.
La
furosemide e gli altri diuretici dell'ansa consentono di controllare la
sintomatologia nefritica nelle fasi più gravi delle glomerulopatie, e
soprattutto di prevenirne le manifestazioni più severe, che sono l'edema
polmonare e l'encefalopatia ipertensiva.
Nelle
prime fasi della storia naturale delle glomerulopatie croniche che si
manifestano con sindrome nefrosica (SN) l'edema ha una patogenesi simile a
quella delle sindromi nefritiche acute. Esso deriva cioè dall'esaltazione del
riassorbimento tubulare di sodio direttamente conseguente alla riduzione del
volume del filtrato glomerulare. Nelle fasi più avanzate e severe, invece,
quando a seguito della perdita di proteine con le urine (e dell'esaurimento
della capacità di compenso da parte del fegato) la concentrazione di albumina
plasmatica si riduce al di sotto di 2,5-2 g/dl, l'edema viene aggravato dalla
riduzione del gradiente osmotico transcapillare. I meccanismi patogenetici che
fino a qualche anno fa erano considerati attivi in ogni fase della storia
naturale della SN, vengono al giorno d'oggi ritenuti responsabili solo delle
manifestazioni cliniche delle fasi più tardive. Come per la cirrosi epatica,
anche per la SN si ritiene che ad una fase di "overflow", con
ritenzione primitiva di sodio ed espansione del volume plasmatico, faccia
seguito una fase successiva di "underfilling", caratterizzata da
riduzione del volume circolante efficace e attivazione dei meccanismi
neuroumorali sodioritentivi (aldosterone, catecolamine ecc.).
Queste
considerazioni patogenetiche hanno immediati risvolti terapeutici: mentre nelle
fasi iniziali e nei casi meno severi di SN la terapia diuretica è relativamente
priva di significativi effetti collaterali, in presenza di severa ipoalbuminemia
i diuretici possono determinare gravi riduzioni della perfusione renale, e
compromettere ulteriormente la filtrazione glomerulare. Come per altre
situazioni analoghe, il frequente controllo della concentrazione plasmatica di
azoto ureico consente di evidenziare precocemente il deficit di perfusione
renale.
La
sindrome nefrosica spesso consegue a lesioni glomerulari suscettibili di terapia
farmacologica, come i corticosteroidi nel caso di "lesioni glomerulari
minime". In attesa della risposta alla terapia steroidea e/o
immunosoppressiva, oppure nei non pochi casi in cui questa è inefficace, la
terapia sintomatica è l'unica opzione praticabile. La restrizione dell'apporto
sodico e la furosemide consentono in fase iniziale e nei casi meno gravi un
sufficiente controllo degli edemi. La dose iniziale di furosemide è di 25 mg
p.o. una volta al dì, incrementabile fino ad un massimo di 250-500 mg/die in
caso di risposta insufficiente. L'aggiunta di un antialdosteronico
(spironolattone l00-400 mg/die) è utile per potenziare l'azione della
furosemide e per evitare la deplezione potassica: a causa della non costante
attivazione del sistema renina-angiostenina-aldosterone cui si è fatto cenno
prima, generalmente nella SN i risparmiatori di potassio non vengono quasi mai
utilizzati da soli o come diuretici di prima scelta.Nei pazienti con anasarea,
in cui è verosimile che l'assorbimento dei farmaci per via intestinale sia
inibito dall'edema della parete, è buona norma praticare i diuretici per via
e.v. (l60-200 mg/die di furosemide e 200-600 mg/die di canrenoato di potassio).
Nei
paragrafi precedenti si è accennato al fenomeno della "
refrattarietà" alla terapia diuretica che si può evidenziare nella SN con
proteinuria massiva e ipoproteinemia grave, nonché ai presidi non farmacologici
che potenziano l'attività natriuretica della furosemide. Nel paragrafo "Le
associazioni tra diuretici" si è accennato alla possibilità di
utilizzare, nei casi più severi, associazioni di furosemide e tiazidici. La
somministrazione di diuretici potenti per via e.v. subito dopo l'infusione di
albumina priva di sodio è un'ulteriore, costosa, possibilità per incrementare
la natriuresi.
Si
definisce edema idiopatico (EI) Una condizione in cui gli edemi compaiono in
assenza di patologia cardiaca, renale o epatica, in giovani donne in età
fertile. La ritenzione idrosodica può inizialmente verificarsi solo nei giorni
che precedono la comparsa dei flussi mestruali, ma in seguito e nei casi più
gravi diviene persistente. Problemi emozionali (depressione e/o sintomi
neurotici) e obesità sono comunemente associati a questa sindrome.
La
più accredita ipotesi patogenetica dell'EI fa riferimento ad una possibile
risposta abnorme all'assunzione della stazione eretta. Le donne affette da
questa sindrome, nelle ore del giorno in cui stanno in piedi, avrebbero un
eccessivo "pooling" di liquido extracellulare nelle regioni dedivi,
nonché un'eccessiva risposta antinatriuretica. Ciò determinerebbe la rilevante
differenza ponderale tra il mattino e la sera, che nei soggetti normali è pari
a 0,5-l kg, mentre nelle donne affette da EI può arrivare a superare i 5 kg. Il
fondamento di questa ipotesi patogenetica è quindi una alterazione degli scambi
idrosalini transcapillari, che potrebbe essere correlabile in termini causali
con le alterazioni della secrezione ipotalamica e della sintesi di dopamina che
sono state dimostrate in qualche caso di EI.
Alla
genesi dell'edema in queste pazienti può contribuire il meccanismo del
cosiddetto "edema da rialimentazione", che sarebbe operante quando
queste donne alternano periodi di alimentazione incongrua ad altri in cui
l'introito alimentare è normale o eccessivo.
Un'altra
teoria postula che l'EI possa essere quasi paradossalmente indotto dalla cronica
somministrazione di diuretici. Secondo questa ipotesi in queste pazienti, a
seguito di una terapia diuretica praticata per la presenza di edemi di modesta
entità, si determinerebbe una relativa ipovolemia che sarebbe responsabile
della successiva attivazione cronica dei meccanismi sodioritentivi, come per
esempio il sistema renina-angiotensina-aldosterone. A seguito della brusca
sospensione dei diuretici, i meccanismi sodioritentivi non sarebbero altrettanto
bruscamente azzerabili, con il risultato della rapida comparsa di edema di
entità più severa di quello iniziale. Ciò determinerebbe nelle pazienti la
falsa convinzione di essere irreversibilmente diuretico-dipendenti. La riduzione
razionale e graduale della terapia diuretica, in conseguenza di questa ultima
ipotesi, dovrebbe consentire il progressivo riassetto dei meccanismi omeostatici
e la scomparsa dell'edema
La
diagnosi di edema idiopatico è fatta per esclusione, dopo aver dimostrato
l'assenza di patologia epatica, renale e cardiaca. Non sono ben chiari i limiti
tra l'EI e la fisiologica ritenzione idrica premestruale, conseguente
all'elevato tasso di estrogeni e prolattina dei giorni che precedono i flussi.
Non
sono rari i casi di EI severo, associato ad anoressia psicogena e amenorrea
ipotalamica, in cui le pazienti sono vere e proprie diuretico-dipendenti, con
consumi che arrivano fino a 200 mg di furosemide o 500 mg di spironolattone al
dì. Si comprende come in questi casi la comparsa di effetti collaterali severi
sia frequente, e comprometta seriamente un quadro clinico già estremamente
complicato.
Nei
casi in cui il terapeuta riesca a guadagnare la fiducia della paziente,
l'iniziale approccio consiste nella sospensione completa dei diuretici per
almeno 3-4 settimane, accompagnata da una solo modesta riduzione dell'introito
sodico. Una volta esclusa l'eventuale interferenza di somministrazioni incongrue
di farmaci, se gli edemi persistono e continuano a compromettere la qualità
della vita della donna, è necessario prescrivere una dose minima di un
diuretico ad azione rapida (furosemide l2,5-25 mg), che deve essere assunta nel
tardo pomeriggio, allo scopo di antagonizzare la tendenza alla ritenzione
idrosodica nelle ore in cui essa è massimamente operante. Anche piccole dosi
quotidiane di spironolattone (25-50 mg) possono essere utilizzate.
In
alternativa ai diuretici è stata tentata la somministrazione di ACE inibitori,
bromocriptina, anfetamine, con risultati non sempre concordanti. Non esistono
trial controllati relativi alla terapia farmacologica dell'EI.
Appare
evidente che un corretto approccio dell'EI debba comprendere ogni sforzo per
risolvere i problemi emozionali che sottendono alla sindrome organica.
L'effetto
antiipertensivo dei diuretici deriva non solo dalla capacità di questi farmaci
di indurre un bilancio idrosodico negativo, ma anche da un effetto emodinamico
diretto, consistente nella riduzione delle resistenze vascolari periferiche.
Viene ipotizzato che i diuretici riducano la concentrazione di sodio all'interno
delle cellule delle pareti dei vasi, determinando in tal modo una
vasodilatazione diretta o mediata da una ridotta sensibilità alle catecolamine.
Viene anche ipotizzato che la ben nota capacità che hanno i diuretici di
stimolare la sintesi renale di prostaglandine vasodilatanti possa contribuire
alla riduzione dei valori pressori.
Negli
scorsi decenni i diuretici sono stati largamente utilizzati per il trattamento a
lungo termine dell'ipertensione arteriosa essenziale (IAE). Negli schemi di
terapia "a gradini" adottati negli Stati Uniti e poi
dall'Organizzazione Mondiale della Sanità negli anni '70, i diuretici erano
considerati farmaci di prima scelta. L'efficacia dei diuretici nel ridurre la
mortalità dei pazienti ipertesi, e alcune delle complicanze cardiovascolari
direttamente correlate con l'ipertensione, è stata ampiamente dimostrata da
numerosi e autorevoli studi clinici controllati.
Negli
anni '90, la disponibilità di un gran numero di nuove molecole attive in senso
antiipertensivo, la più approfondita conoscenza della storia naturale della
malattia ipertensiva e delle sue complicanze a lungo termine, e una maggiore
attenzione alla qualità della vita dei pazienti (anche in relazione all'entità
degli effetti collaterali dei farmaci prescritti), hanno modificato non poco il
ruolo dei diuretici nell'ambito dell'approccio terapeutico farmacologico
dell'IAE.
In
uno dei più recenti aggiornamenti dello schema di terapia "a gradini"
(l988 Joint National Committee), ai diuretici sono stati affiancati beta
bloccanti, ACE inibitori e calcio antagonisti.
Nel
caso in cui l'approccio non farmacologico non abbia dato risultati
soddisfacenti, la scelta di un farmaco può esser fatta, secondo i membri della
Joint Committee. Nell'operare la scelta, il medico può (e deve) tener conto dei
seguenti elementi:
l)caratteristiche
somatiche del paziente;
2)razza,
età e sesso;
3)presenza
di patologia associata;
4)costo
della terapia.
È stato sostenuto da alcuni Autori, per esempio, che l'approccio
migliore per pazienti giovani e di razza bianca comprenderebbe beta bloccanti o
ACE inibitori, mentre pazienti più anziani, obesi e/o di razza negra
risponderebbero meglio a diuretici o calcio antagonisti. I diuretici non
dovrebbero essere utilizzati in presenza di ridotta tolleranza ai carboidrati,
gotta, iperlipomia. Dopo l'inizio della terapia, la valutazione della risposta
clinica e l'eventuale comparsa di effetti collaterali rendono necessaria la
progressione verso i successivi "gradini" indicati nella tab.05 .Quando
si fa ricorso ad associazioni di due o più farmaci, l'inclusione di un
diuretico è spesso obbligatoria, poiché molti antiipertensivi non diuretici,
nel ridurre i valori pressori, determinano una ritenzione idrosalina,
clinicamente evidente o soltanto subclinica. Tale ritenzione può parzialmente
ridurre l'effetto farmacologico desiderato. Con l'uso dei calcio-antagonisti è
frequente la comparsa di edemi declivi anche imponenti: in tali casi i diuretici
rappresentano una associazione obbligata.
Per
le loro caratteristiche farmacologiche, sono i tiazidici che vengono impiegati
più di frequente nel trattamento dell'IAE. L'esperienza accumulata negli ultimi
decenni ha fatto sì che la dose utilizzata nelle prescrizioni a lungo termine e
soprattutto nelle associazioni di più farmaci venisse progressivamente ridotta.
Ciò consentirebbe una sensibile riduzione della probabilità di comparsa degli
effetti indesiderati. Dei vari tiazidici in commercio vengono correntemente
utilizzate dosi equivalenti a l5-25 mg/ die di clortalidone. Anche
l'associazione a rapporto fisso idroclorotiazide/amiloride, che assicura
l'integrità del pool potassico corporeo, viene utilizzata frequentemente e con
buoni risultati clinici, alle dosi medie rispettivamente di 25 e 2,5 mg/die.
L'ipertensione
arteriosa complica molto frequentemente il decorso clinico della maggior parte
delle malattie renali, acute o croniche, unilaterali o bilaterali. Le nefropatie
rappresentano la più frequente causa di ipertensione "secondaria".
Gli obiettivi del trattamento antiipertensivo nei pazienti affetti da malattie
renali sono analoghi a quelli individuati per gli ipertesi
"essenziali" e inoltre una particolare attenzione viene rivolta ai
possibili effetti negativi dell'ipertensione arteriosa sulla progressione del
danno renale. È stato
infatti dimostrato, da diversi studi clinici controllati, che la progressione
delle malattie renali verso la fase di insufficienza renale termina è
criticamente condizionata dai valori pressori. Soprattutto nella nefropatia
diabetica, ma anche in alcune altre nefropatie, primitive o secondarie, la
riduzione dei valori pressori rallenta in maniera significativa l'evoluzione del
danno nefronale e allontana nel tempo il momento in cui si rende necessario Il
ricorso alla dialisi o al trapianto di rene.
Nella
patogenesi dell'ipertensione che accompagna le nefropatie parenchimali un ruolo
centrale è svolto dalle alterazioni dell'escrezione del sodio e dell'acqua.
Ciò giustifica una modificazione dell'approccio terapeutico rispetto a quello
suggerito nel paragrafo precedente. Nel pazienti con malattie renali, infatti,
qualora l'approccio non farmacologico (e in particolare la riduzione
dell'apporto sodico a non più di 80 mmol/die) non fosse sufficiente a
normalizzare i valori pressori, la prescrizione successiva dovrebbe comprendere
sempre un diuretico. Questa scelta è giustificata dalle seguenti due
considerazioni:
l)nei
casi in cui per effetto della nefropatia vi sia un'espansione del volume
extracellulare, evidente sul piano clinico o anche solo a livello subclinico, un
diuretico contribuisce alla scomparsa degli edemi e contemporaneamente alla
normalizzazione dei valori pressori;
2)la
somministrazione di altri antiipertensivi a pazienti con malattie renali,
soprattutto in presenza di riduzione del volume del filtrato glomerulare,
determina regolarmente una ritenzione idrosodica, che in qualche caso riduce o
annulla l'efficacia dell'antiipertensivo: la somministrazione di un diuretico in
questi casi è indispensabile per evitare tale circolo vizioso.
La
scelta del diuretico da utilizzare in presenza di una nefropatia è criticamente
condizionata dal valore del volume del filtrato glomerulare: i tiazidici sono
efficaci fino a quando la clearance della creatinina è superiore a 25-30
ml/min, con eccezione del metolazone, che è attivo anche al di sotto di tali
valori. La dose utilizzata è di 25-100 mg/die di idroclorotiazide o 2,5-20
mg/die di metolazone. Nelle nefropatie non è prudente, e spesso non è
necessario, aggiungere risparmiatori di potassio: un eventuale deficit potassico
può essere facilmente controllato con supplementazioni orali o consigli
dietetici. Il diuretico più utilizzato nell'insufficienza renale terminale è
la furosemide, il cui dosaggio viene abitualmente incrementato in misura
proporzionale alla riduzione del filtrato glomerulare, fino a 500 mg/die p.o.
nei casi più severi.
Numerosi
studi clinici hanno dimostrato di recente che per un efficace controllo dei
valori pressori, ma anche per prevenire la progressione del danno parenchimale
renale, i farmaci non diuretici più promettenti sono gli ACE inibitori e i
calcio antagonisti. Entrambe le classi di antiipertensivi hanno meccanismi
d'azione complementari e sinergici con quello dei diuretici.
Solo
nella sindrome da iperaldosteronismo primario conseguente a iperplasia
surrenalica bilaterale è giustificato l'uso di spironolattone o canrenone a
dosaggi tra 50 e 400 mg/die.
I
tiazidici sono i farmaci più frequentemente utilizzati nella profilassi a lungo
termine delle recidive della nefrolitiasi calcica (NC). Il loro meccanismo
d'azione in senso ipocalciurico è stato descritto nel paragrafo "Farmaci
diuretici". Oltre alla riduzione dell'eliminazione di calcio essi
determinano l'incremento dell'escrezione di alcuni inibitori della
cristallizzazione come il pirofosfato, il magnesio e lo zinco. L'effetto sulla
calciuria è più evidente nei pazienti ipercalciurici, più modesto nei
normocalciurici, si instaura entro una settimana dall'inizio della terapia e
persiste indefinitamente.
L'indicazione
all'uso continuato e per un periodo indefinito di un farmaco non esente da
effetti collaterali come è il diuretico tiazidico, va fatta dopo aver
inquadrato con precisione la situazione metabolica del paziente e l'attività
litogena delle sue urine: in particolare occorre escludere la presenza di
ipercalciuria assorbitiva o da iperparatiroidismo, nonché l'esistenza di NC
"secondaria". Vanno inoltre contemporaneamente messi in atto gli altri
provvedimenti utili per la prevenzione delle recidive della NC, che consistono
in un elevato apporto di acqua oligominerale e in adeguati provvedimenti
dietetici mirati, dei quali il più importante è una drastica riduzione
dell'apporto di sodio.
Nel
nostro Paese il tiazidico più utilizzato nella prevenzione della NC è
l'idroclorotiazide associata con l'amiloride, al dosaggio di 25-50 mg/die e
2,5-5 mg/die, rispettivamente. Oltre a prevenire la deplezione potassica,
l'amiloride possiede di per sé un'attività in senso ipocalciurico, che viene
utilmente ad associarsi a quella del tiazidico. Tra gli effetti collaterali
possibili di una tale terapia il più interessante è l'ipercalcemia, poiché la
sua comparsa in corso di trattamento consente spesso di individuare la presenza
di iperparatiroidismo primitivo, misconosciuto perché rimasto fino ad allora
normocalcemico.
È utile l'associazione dei tiazidici con citrato di potassio, allo scopo
di aumentare l'escrezione renale di citrato, che è un importante inibitore
della cristallizzazione del calcio ossalato e del calcio fosfato.
Può
essere presente nel corso di svariate situazioni morbose, che determinino:
1)aumentata
mobilizzazione ossea di calcio;
2)aumentato
assorbimento intestinale, oppure
3)ridotta
eliminazione renale.
Spesso,
nello stesso paziente, più meccanismi patogenetici sono operanti.
L'ipercalcemia complica il decorso clinico di numerose neoplasie, consegue
all'intossicazione da vitamina D e da vitamina A, alla sarcoidosi, alla
tubercolosi e all'ipertiroidismo, ed è un reperto caratteristico
dell'iperparatiroidismo primitivo. Può conseguire all'uso di diuretici
tiazidici, all'immobilizzazione prolungata ed è spesso una complicanza
iatrogena dell'insufficienza renale.
L'ipercalcemia
severa e prolungata induce sintomi a carico di tutti gli organi e apparati, e
può essere causa di morte. Se la calcemia supera il valore di 12-13 mg/dl si
rende necessario un intervento terapeutico rapido, mirato ad incrementare
l'eliminazione di calcio con le urine, ma anche a ridurre l'ulteriore
assorbimento intestinale e a bloccare la mobilizzazione ossea. L'incremento
della calciuria si ottiene in prima istanza con la correzione di un'eventuale
disidratazione, quindi con la somministrazione di diuretici dell'ansa a dosi
elevate e per via e.v. (ad esempio: furosemide 40-100 mg ogni 1-2 ore). Il
reintegro attento dell'acqua e degli elettroliti che vengono persi nel corso
della conseguente diuresi massiva è parte integrante del trattamento: in caso
di bilancio idrosalino negativo si determinerebbe disidratazione e ipovolemia,
con conseguente tendenza alla ritenzione renale di calcio, mentre un'infusione
eccessiva potrebbe avere conseguenze negative sull'apparato cardiocircolatorio.
Pertanto, il trattamento di una ipercalcemia severa mediante l'induzione di una
diuresi massiva non può essere effettuata senza un attento monitoraggio
clinico-laboratoristico.
La
restrizione dell'introito di sodio e di proteine e l'assunzione di una dose
quotidiana di un diuretico tiazidico consentono, nel diabete insipido centrale o
ipofisario, di ridurre la posologia del costoso analogo sintetico dell'ADH
(DDAVP), e nel diabete insipido renale congenito di correggere quasi
completamente la poliuria e le conseguenti turbe elettrolitiche.
La
restrizione di sodio e proteine determina una riduzione del carico di soluti da
eliminare, riducendo una parte della componente osmotica della poliuria, mentre
il tiazidico induce una modesta contrazione del volume extracellulare, che a sua
volta incrementa il riassorbimento prossimale di sodio e acqua e limita la
quantità di preurina che perviene ai tratti distali del nefrone. A ciò
consegue una significativa riduzione del volume urinario, nonché la parziale
correzione delle altre turbe elettrolitiche.
È
di solito sufficiente una dose di 25-50 mg di clortalidone al dì, o dosi
equivalenti di altri tiazidici, associati o meno ad una piccola quantità di
amiloride per prevenire l'ipocaliemia.
Il
trattamento preventivo dell'insufficienza renale acuta (IRA) tossico-ischemica
(necrosi tubulare acuta, NTA) nelle situazioni a rischio è tuttora oggetto di
numerose controversie. Oltre alla ovvia raccomandazione di evitare e/o rimuovere
rapidamente ogni sostanza potenzialmente nefrotossica, la sola procedura sulla
quale esiste un sostanziale accordo è il rapido ripristino dell'eventuale
deficit di volume plasmatico e/o extracellulare. Per l'uso dei diuretici, in
particolare, esistono in letteratura segnalazioni contrastanti.
Fin
dagli anni '60 è stato descritto un effetto preventivo dell'infusione di
mannitolo (mediamente 250-500 ml di una soluzione al 15-20%) nel corso delle
seguenti situazioni ad alto rischio:
1)chirurgia
cardiaca;
2)interventi
sugli aneurismi dell'aorta addominale;
3)chirurgia
delle vie biliari nei pazienti itterici;
4)incidenti
trasfusionali;
5)mioglobinuria;
6)somministrazione
di cisplatino.
L'effetto
protettivo del mannitolo nei confronti del danno renale è stato attribuito
all'espansione del volume extracellulare che questo farmaco provoca, come pure
all'incremento del flusso intratubulare, alla correzione dell'edema delle
cellule tubulari, alla rimozione di detriti cellulari intratubulari, alla
riduzione della formazione di radicali liberi, nonché ad un ben dimostrato
effetto vasodilatante del circolo intrarenale. Un certo numero di studi
prospettici più recenti, per contro, non ha dimostrato la superiorità del
mannitolo rispetto ad altre procedure terapeutiche di espansione del volume
plasmatico o del volume extracellulare.
Analoghe
controversie esistono sull'utilizzazione dei diuretici nelle prime fasi dell'IRA
da NTA, cioè dopo che il dànno tossico-ischemico si è verificato. Alcuni
modelli sperimentali di NTA sono efficacemente trattati con furosemide ad alte
dosi. Il trattamento determina una minore estensione del danno anatomico
conseguente all'ischemia, il mantenimento della diuresi e un più rapido
ripristino delle condizioni di normale funzionalità renale. Viene ipotizzato
che la furosemide ad alte dosi possa ridurre criticamente il consumo di ossigeno
delle cellule del segmento ascendente spesso dell'ansa di Henle, le quali
sarebbero in tal modo protette dal dànno ischemico in una situazione di ridotta
ossigenazione.
Alcuni
studi controllati sull'uomo hanno dimostrato che il trattamento con furosemide
ad alte dosi (fino a 3 g/die e.v.) incrementa la diuresi dei pazienti con NTA e
riduce il fabbisogno dialitico, ma non ha alcun effetto sulla prognosi della
sindrome e soprattutto sulla mortalità. I sostenitori dell'uso di tali dosi
massicce di farmaco fanno talvolta riferimento alla migliore prognosi globale
della NTA a diuresi conservata rispetto alla forma oligoanurica, e
conseguentemente considerano l'incremento della diuresi come un indiscutibile
successo terapeutico. Va osservato che la migliore prognosi della NTA
"spontaneamente" non oligurica molto semplicemente può essere la
conseguenza di un dànno renale meno severo di quella "spontaneamente"
oligurica, e che lo stesso può non essere vero per le forme non oliguriche dopo
stimolazione diuretica. La somministrazione di furosemide nelle NTA oliguriche,
in altre parole, non riproduce necessariamente la sindrome (relativamente meno
severa) delle NTA non oliguriche. È
doveroso ricordare, comunque, che il trattamento medico, ma anche quello
dialitico, dei pazienti con NTA è notevolmente agevolato dalla presenza di una
sia pur modesta diuresi.
Autori
italiani hanno riportato che accoppiando al trattamento con furosemide ad alte
dosi (1-3 mg/kg/h per 12-24 h) con l'infusione di dopamina a basse dosi (1-3
mcg/kg/min), l'effetto diuretico si verificherebbe anche in pazienti che in
precedenza non avevano risposto alla sola furosemide. La dopamina in questi casi
avrebbe un effetto vasodilatante, e consentirebbe l'arrivo di una dose maggiore
di furosemide fino al suo sito di azione.
Le
moderne acquisizioni sulla patogenesi del dànno cellulare nelle situazioni di
ischemia hanno spostato l'interesse dei ricercatori verso nuove molecole, senza
effetto diuretico, la cui efficacia protettiva nei confronti dell'IRA nelle
situazioni a rischio è tuttora oggetto di sperimentazioni controllate.
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D.
Colimberti
Aiuto
Corresponsabile
Divisione
di Nefrologia e Dialisi,
Ospedale
Civico, Palermo
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La Grande Crociata
Il sacrificio di milioni di esseri umani per riscattare la barbarie nazista
Immagini che hanno fatto la storia di questo secolo che sta finendo.
Collana monografica: Annali dell’Africa Orientale Italiana