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ARGOMENTI DI MEDICINA CLINICA
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Ultimo aggiornamento: 23.12.2013
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A
metà dell'800, Semmelweiss dimostrò efficacemente che l'ospedale poteva
rappresentare un rischio per i pazienti (le donne che partorivano per strada
avevano un rischio di sepsi puerperale e una mortalità molto più bassa
rispetto a quelle che partorivano in ospedale), che tale rischio era di origine
infettiva (i patogeni venivano trasmessi dagli studenti di medicina che, prima
di assistere le donne partorienti, effettuavano i riscontri autoptici), che tale
evento era prevenibile (con il lavaggio delle mani). Dopo di lui, numerosi altri
Autori, hanno documentato come il ricovero in ospedale potesse comportare un
rischio elevato per il paziente di contrarre una patologia infettiva.
Successivamente,
i progressi conseguiti nell'ambito della batteriologia ed immunologia e la
scoperta ed introduzione sul mercato degli antibiotici negli anni '40, hanno
contribuito a diffondere l'illusione che le infezioni ospedaliere potessero
essere definitivamente eradicate. Tale illusione si è subito rivelata falsa: le
infezioni ospedaliere hanno continuato a rappresentare la più frequente
"complicanza" ospedaliera e il loro trend, in assenza di programmi di
controllo, è in continuo aumento.
Ciò
è attribuibile alla progressiva introduzione di nuove tecnologie sanitarie
nell'assistenza ospedaliera: queste, da una parte, consentono la sopravvivenza
di pazienti immunocompromessi altamente suscettibili a tutte le infezioni, anche
quelle sostenute da patogeni comunemente opportunisti; dall'altra, creano le
condizioni per nuove occasioni di accesso dei microrganismi in ambienti del
corpo umano normalmente sterili e per complesse interazioni tra microrganismi
patogeni e biomateriali utilizzati. Inoltre, il largo uso di antibiotici a scopo
profilattico o terapeutico condiziona l'emergenza di ceppi
antibiotico-resistenti.
L'insorgenza
di una complicanza infettiva in un paziente ricoverato in ospedale comporta
costi sia in termini di salute che economici per il paziente e per l'ospedale:
per
il paziente, comporta il dover sopportare una patologia infettiva aggiunta alla
sua patologia di base, le eventuali conseguenze di questa in termini di
disabilità temporanea o permanente o addirittura il decesso, le eventuali spese
di una cura domiciliare o la perdita di giornate di lavoro; per l'ospedale,
comporta i costi dell'eventuale prolungamento della degenza, degli esami
diagnostici e degli interventi terapeutici aggiuntivi.
Le
infezioni ospedaliere sono, almeno in parte, prevenibili. L'adozione di pratiche
assistenziali "sicure", che sono state dimostrate essere in grado di
prevenire o controllare la trasmissione di infezioni, comporta la riduzione del
35% almeno della frequenza di queste complicanze. Per questo motivo, la
infezioni ospedaliere rappresentano un indicatore della qualità dell'assistenza
prestata in ospedale.
Si
definiscono infezioni ospedaliere "le infezioni che insorgono durante il
ricovero in ospedale, o in alcuni casi dopo che il paziente è stato dimesso, e
che non erano manifeste clinicamente né in incubazione al momento
dell'ammissione". Tutte le infezioni già presenti al momento del ricovero
(con un quadro clinico manifesto o in incubazione) vengono, invece, considerate
acquisite in comunità (infezioni comunitarie), ad eccezione di quelle
correlabili ad un precedente ricovero ospedaliero. I pazienti rappresentano la
popolazione a maggior rischio di infezione ospedaliera; altre figure possono,
però, contrarre, anche se meno frequentemente, una infezione in ospedale:
personale ospedaliero, personale volontario di assistenza, studenti,
tirocinanti.
Per
le infezioni nei neonati sono stati adottati criteri particolari: vengono,
infatti, definite comunitarie le infezioni acquisite per via transplacentare
(es. Herpes simplex, rosolia, toxoplasmosi, CMV e sifilide) ed insorte entro 48
ore dal parto. Vengono, invece, considerate ospedaliere le infezioni acquisite
durante il passaggio attraverso il canale del parto e le infezioni che insorgono
dopo 48 ore dalla nascita.
L'insorgenza
di una infezione è conseguenza della interazione tra un agente infettivo ed un
ospite suscettibile. Tale interazione può verificarsi anche senza
necessariamente dar luogo a malattia: l'infezione insorge solo se si rompe
l'equilibrio esistente per particolari caratteristiche del microrganismo (patogenicità,
virulenza, invasività, dose infettante, variante antigenica, resistenza al
trattamento), per una condizione di maggiore suscettibilità dell'ospite (tab.02x) oppure per particolari modalità di trasmissione
che fanno sì che i microrganismi abbiano accesso diretto ad aree del corpo
normalmente sterili.
Le
tabelle 3 e 4 descrivono, rispettivamente, i principali serbatoi di infezione ed
i meccanismi di trasmissione delle infezioni in ospedale. Si intende per
serbatoio di infezione il luogo ove un determinato microrganismo riesce a
sopravvivere e in alcuni casi anche a moltiplicarsi.
Un
ruolo centrale nella trasmissione delle infezioni è svolto dalle mani del
personale ospedaliero: moltissimi microrganismi sia gram-positivi (S. aureus, S.
epidermidis) che gram-negativi (E. coli, Serratia, Enterobacter, Acinetobacter
spp., Pseudomonas spp) sono in grado di colonizzare temporaneamente o
stabilmente le mani. Anche tutti i liquidi (farmaci, apparecchiature contenenti
liquidi ecc.) rappresentano un buon serbatoio per i microrganismi ed, in
particolare, per le Enterobacteriaceae, che per questo motivo sono molto
frequentemente causa di infezioni ospedaliere. Nel caso di gram-positivi, al
contrario dei gram-negativi, il serbatoio e la fonte di infezione sono in genere
rappresentati dall'uomo (soggetti colonizzati o infetti).
L'ambiente
ospedaliero (inteso come sistemi idrici, sistemi di ventilazione, superfici
ambientali in prossimità dei pazienti) gioca, al contrario di quanto si
credesse alcuni anni fa, un ruolo nella trasmissione solo di alcune ben
determinate infezioni: alcune infezioni di origine comunitaria (tubercolosi,
varicella, morbillo che si trasmettono per via aerea), lo stafilococco aureo e
lo streptococco di gruppo A in sala operatoria, gli Aspergillus spp. (trasmessi
per via aerea), la Legionella (trasmessa attraverso i sistemi idrici e gli
impianti di condizionamento dell'aria), il Clostridium difficile, il virus
dell'epatite B e il virus respiratorio sinciziale (per i quali è stata
dimostrata una contaminazione ambientale in caso di epidemia).
La
frequenza di infezioni ospedaliere è stata stimata a partire da sistemi di
sorveglianza su un campione di ospedali "sentinella" (che però
sottostimano il fenomeno) o da studi ad hoc. L'unico studio esistente in
letteratura, che abbia stimato su un campione random a livello nazionale
l'incidenza di infezioni ospedaliere, è rappresentato dallo Study on the
Efficacy of Nosocomial Infection Control (SENIC): negli ospedali statunitensi
inclusi in questo studio nel 1975-76, l'incidenza di pazienti infetti è
risultata pari a 5,2% e quella di infezioni a 6,6%. La maggior parte dei Paesi
europei, inclusa l'Italia, ha invece effettuato studi di prevalenza: la
prevalenza di pazienti infetti varia da 6,8 a 9,3% nei diversi studi, quella di
infezioni da 7,6 a 10,3%. In media, quindi, il 5% dei pazienti ospedalizzati
contrae una infezione durante il ricovero e dal 7% al 9% dei pazienti ricoverati
ad un dato momento è infetto.
In
Italia, la prevalenza di infezioni ospedaliere è stata stimata in 131 ospedali
a livello nazionale nel 1983 ed è risultata essere pari a 6,8% pazienti infetti
e a 7,6% infezioni. Due successivi studi nella regione Toscana (1986) e nella
città di Roma (1994) hanno stimato una frequenza di infezioni ospedaliere pari
a 6,4 e 6,3% rispettivamente. Tali stime sono inferiori a quanto riportato in
altri Paesi europei, ma ciò deve essere probabilmente attribuito a differenze
nella popolazione ricoverata e a carenze diagnostiche, piuttosto che a un minor
rischio di contrarre una infezione ospedaliera. Nello studio romano del 1994, il
35% dei pazienti è risultato essere ricoverato in attesa di trattamento: non
essendo stati ancora sottoposti ad alcuna procedura invasiva, questi pazienti
erano a bassissimo rischio di infezione. Inoltre, la frequenza di pazienti con
infezione sottoposti ad accertamenti diagnostici di laboratorio era
significativamente inferiore a quanto riportato in altri Paesi (ad esempio, la
Gran Bretagna).
Le
stime complessive di incidenza e prevalenza di infezioni ospedaliere sopra
riportate variano in modo considerevole da ospedale a ospedale in ragione delle
caratteristiche di ciascuno di essi. La frequenza di infezioni ospedaliere
dipende, infatti, da tre principali fattori: a) il tipo di pazienti ricoverati
(gravità delle condizioni cliniche); b) il profilo assistenziale praticato
(complessità degli interventi assistenziali); c) le misure adottate per ridurre
la frequenza di infezioni ospedaliere. Ci si deve dunque attendere che la
frequenza di infezioni sia più elevata negli ospedali di terzo livello che
ricoverano pazienti in condizioni cliniche gravi e che praticano profili
assistenziali complessi. A parità dicase-mix dei pazienti ricoverati e di
profilo assistenziale, la frequenza di infezioni sarà, invece, più elevata
laddove le misure di controllo adottate siano insufficienti.
Le
infezioni ospedaliere si distribuiscono in quattro principali localizzazioni,
che rappresentano l'80% circa di tutte le infezioni osservate: il tratto
urinario, le ferite chirurgiche, l'apparato respiratorio, le infezioni
sistemiche (sepsi, batteriemie). Tra queste le più frequenti sono le infezioni
urinarie, che da sole rappresentano il 35-40% di tutte le infezioni ospedaliere.
L'importanza relativa di ciascuna localizzazione di infezione varia nel tempo,
in diversi reparti e in diversi sottogruppi di pazienti. Per descrivere la
frequenza di infezioni nel tempo e per specifici gruppi di pazienti, si farà
riferimento al sistema di sorveglianza statunitense, perché solo in questo
Paese esiste un sistema di sorveglianza delle infezioni in funzione dagli anni
'70. Il NNIS (il sistema di sorveglianza statunitense) ha rilevato negli ultimi
quindici anni un cambiamento nella frequenza relativa delle localizzazioni di
infezioni e della loro incidenza: all'inizio degli anni '80, le infezioni
urinarie rappresentavano il 40% delle infezioni ospedaliere rilevate, le
infezioni della ferita chirurgica il 20%, le polmoniti il 16% e le batteriemie
il 6%. Nel 1990, la distribuzione di queste infezioni era, invece, la seguente:
infezioni urinarie 35%, infezioni della ferita chirurgica 18%, polmoniti 16%,
batteriemie 11%. Le infezioni sistemiche stanno diventando via via più
frequenti, come conseguenza di un graduale aumento dei fattori di rischio
responsabili di queste infezioni, quali le condizioni di rischio intrinseco del
paziente, l'uso di antibiotici e di cateterismi intravascolari.
I
reparti nei quali si osserva una frequenza più elevata di infezioni ospedaliere
sono quelli che ricoverano pazienti gravi e nei quali si effettuano interventi
assistenziali invasivi: in particolare, i reparti di terapia intensiva e i
reparti chirurgici. La figura 1 riporta l'incidenza di infezioni ospedaliere nel
1986-88 in diversi reparti secondo il sistema di sorveglianza statunitense. Le
infezioni segnalate a tale sistema di sorveglianza rappresentano secondo alcune
stime i due terzi di quelle realmente insorte: tali dati, sono però utili per
avere una idea di quali siano i reparti a maggior rischio di infezione
L'esposizione
a procedure invasive rappresenta uno dei fattori di rischio più forti per
l'insorgenza di complicanze infettive. Ciò è dovuto a: 1) accesso diretto dei
microrganismi ad aree del corpo normalmente sterili; 2) moltiplicazione dei
microrganismi per le condizioni favorevoli che si determinano (presenza di
materiali plastici, di liquidi, creazione di nicchie ove i microrganismi possono
crescere); 3) contaminazione dei presidi stessi durante la produzione o al
momento dell'uso (mani del personale).
La
tabella 5 riporta l'incidenza di infezioni associata alle principali procedure
invasive.
La
tabella 6 sintetizza i risultati di alcuni studi multicentrici effettuati in
Italia in reparti intensivi o chirurgici, ad alto rischio di infezione.
Fino
all'inizio degli anni '80, i microrganismi più frequentemente responsabili di
infezione ospedaliera erano i gram-negativi. La pressione antibiotica e il
maggiore utilizzo di presidi sanitari di materiale plastico, favorevoli alla
crescita di alcuni microrganismi, hanno modificato nel tempo l'ecologia
batterica in ospedale: negli ultimi anni sono costantemente aumentate le
infezioni sostenute da gram-positivi (soprattutto Enterococchi e Staphylococcus
epidermidis) e quelle da miceti (soprattutto Candida spp.), mentre sono
diminuite quelle sostenute da gram-negativi quali E. coli e Klebsiella
pneumoniae. La tabella 7 riporta i microrganimsi isolati da pazienti con
infezione ospedaliera, notificati al NNIS nel 1995-96.
Uno
dei fenomeni più preoccupanti dell'epidemiologia delle infezioni ospedaliere a
livello mondiale è rappresentato dall'emergenza e rapida disseminazione di
microrganismi con resistenze antibiotiche. I microrganismi più problematici da
questo punto di vista sono gli enterococchi, gli stafilococchi
meticillino-resistenti, i gram-negativi, la Candida e i micobatteri tubercolari
multiresistenti.
Enterococchi.
Gli enterococchi sono noti per la rapida emergenza di resistenze a molti
antibiotici, quali gli aminoglicosidi, le penicilline e, più recentemente, i
glicopeptidi. Negli Stati Uniti la percentuale di infezioni sostenute da
enterococchi vancomicina-resistenti (EVR) è passata, tra il 1989 e il 1993, da
0,3 a 7,9% e da 0,4 a 13,6% nelle terapie intensive. Gli EVR vengono trasmessi
sia per via diretta che indiretta attraverso le mani del personale, superfici o
attrezzature contaminate. Un elemento molto preoccupante è rappresentato dal
fatto che negli EVR la resistenza è plasmidica e può quindi essere trasferita
ad altri microrganismi, quali S. aureus o S. epidermidis.
Stafilococchi
meticillino-resistenti (MRSA). Gli MRSA sono emersi alla fine degli anni '70,
diventando endemici in molti ospedali. Recentemente, sono divenuti un problema
anche in strutture per lungodegenti, ospizi per anziani e ambulatori. Gli MRSA
sono frequentemente introdotti in una struttura sanitaria da un paziente o un
operatore colonizzati (soprattutto a livello delle narici) o infetti. La
resistenza alla meticillina è comune sia per gli stafilococchi
coagulasi-negativi che per lo Staphylococcus aureus. La maggior parte dei ceppi
MRSA sono resistenti anche a eritromicina, cefalosporine, imipenem,
tetracicline, clindamicina e altri agenti, quali gli aminoglicosidi e i
fluorochinoloni. Studi effettuati da Varaldo in Italia hanno dimostrato un
costante aumento della frequenza di ceppi di S. aureus meticillino-resistenti
(dal 4-6% negli anni '70 al 30% negli anni '90), ma soprattutto di ceppi di
stafilococchi coagulasi-negativi resistenti (dal 20% degli anni '80 a più del
40% negli anni '90).
Recentemente
sono stati segnalati in Giappone e negli Stati Uniti ceppi di S. aureus
resistenti alla vancomicina.
Bacilli
gram-negativi. Alcuni microrganismi gram-negativi (in particolare e. Coli,
klebsiella spp., Acinetobacter spp., Enterobacter cloachae, serratia spp.,
Pseudomonas spp. E citrobacter spp.) Hanno sviluppato resistenza per i nuovi
antibiotici betalattamici. È
emersa anche resistenza alle cefalosporine di terza generazione, all'imipenem e
ai fluorochinoloni.
Candida.
Come sopra sottolineato, negli ultimi dieci anni è considerevolmente aumentata
l'incidenza di infezioni ospedaliere, soprattutto infezioni sistemiche,
sostenute da Candida spp. La segnalazione di ceppi resistenti al chetoconazolo e
al fluconazolo rappresenta, quindi, un fenomeno preoccupante.
Micobatterio
tubercolare multiresistente. A partire dal 1988 sono state segnalate numerose
epidemie di tubercolosi multiresistente a trasmissione ospedaliera in pazienti
con infezione da HIV. Le prime segnalazioni provenivano dagli Stati Uniti, ma
negli ultimi anni sono state riportate epidemie ospedaliere di tubercolosi
multiresistente anche in Europa (Italia, Gran Bretagna, Francia, Spagna). Tutti
questi eventi sono stati accomunati da una letalità elevatissima (72-90%), da
un intervallo breve tra esposizione e sviluppo della malattia e tra diagnosi e
decesso. La tubercolosi multiresistente rappresenta un rischio consistente per
gli operatori sanitari.
In
una significativa proporzione di casi, le infezioni ospedaliere evolvono verso
la disabilità temporanea o permanente o la morte del paziente. La mortalità
esclusivamente attribuibile alla insorgenza di una infezione è stata stimata
negli ultimi anni per la sepsi o la polmonite, sulla base di studi controllati.
Per eliminare l'influenza della patologia di base del paziente sul rischio di
morte, un gruppo di pazienti con specifiche infezioni ospedaliere è stato
confrontato con un gruppo di pazienti non infetti, ma comparabili ai primi per
gravità e complessità delle condizioni cliniche di base. Da questi studi
emerge come la mortalità attribuibile alle sepsi vari dal 14 al 38% nei diversi
studi, in relazione al tipo di agente causale: la mortalità è elevata
soprattutto nelle fungemie (38%) e nelle sepsi da enterococchi (31%), mentre le
batteriemie da stafilococchi coagulasi-negativi si associano ad una mortalità
attribuibile più bassa (14%). La mortalità attribuibile alle polmoniti è
inferiore a quella segnalata per le sepsi ed è stata riportata essere pari al
7% in uno studio a livello ospedaliero ed al 15% in terapia intensiva.
Le
evidenze esistenti sulla mortalità attribuibile alle infezioni urinarie e della
ferita chirurgica sono allo stato attuale troppo frammentarie per poter stimare
in modo accurato il rischio di morte, ma tali infezioni sono sicuramente meno
gravi rispetto alle due precedenti: meno dell'1% degli infetti con una di queste
due localizzazioni, infatti, muore.
Le
infezioni ospedaliere sono sicuramente causa, oltre che di decesso, anche di
invalidità temporanea o permanente, ma i dati in proposito sono molto scarsi:
uno studio del 1991 sulla frequenza di complicanze iatrogene in un campione
molto ampio di pazienti ospedalizzati nello Stato di New York, ha evidenziato
come le infezioni della ferita chirurgica rappresentassero la complicanza più
frequente in seguito ad intervento chirurgico e come nel 22% avessero comportato
una grave disabilità (di durata maggiore di un mese) o il decesso del paziente.
Le
infezioni delle vie urinarie (IVU) sono le infezioni più frequenti in ospedale
e in strutture per lungodegenti: il 35-40% delle infezioni ospedaliere si
localizza, infatti, al tratto urinario. La maggior parte delle IVU ospedaliere
si associa a procedure invasive sull'apparato urinario: il 75-80% circa delle
IVU è, infatti, associato all'uso di catetere vescicale e un altro 5-10% ad
altre manipolazioni del tratto urinario (ad es. cistoscopia).
L'elevata
frequenza di IVU è attribuibile, da una parte, all'enorme diffusione del
catetere vescicale in pazienti ospedalizzati (in media tra il 15 e il 25% dei
pazienti ricoverati viene cateterizzato durante il ricovero) e, dall'altra, alla
vulnerabilità del presidio "catetere vescicale" alla contaminazione.
Il catetere è, infatti, inserito in un'area, quale quella perineale,
normalmente colonizzata; l'urina rappresenta un ottimo terreno di coltura; sono
necessarie manipolazioni frequenti della sacca di drenaggio per consentirne lo
svuotamento.
La
frequenza di IVU (batteriurie asintomatiche e IVU sintomatiche) nei pazienti
ospedalizzati è pari a 1-2%. In seguito a cateterismo singolo il rischio è
contenuto (1-3%): in pazienti anziani, donne in gravidanza, pazienti debilitati,
tuttavia, la frequenza di IVU può essere elevata anche in seguito a tale
procedura. Nei pazienti sottoposti a cateterismo a permanenza (con drenaggio
chiuso) il rischio varia nei diversi studi da 8 a 27% pazienti cateterizzati.
Nei pazienti trattati con drenaggi aperti (sacca che deve essere cambiata per
svuotarla, poiché non è presente alcun rubinetto di drenaggio), il rischio di
batteriuria arriva all'85-100%.
Mediamente
il 30% dei pazienti batteriurici presenta sintomi clinici di infezione e il 3%
sviluppa una batteriemia: in altri termini, l'incidenza di IVU sintomatiche e di
batteriemie nei pazienti cateterizzati è pari a 3 e 0,5%, rispettivamente.
Anche se il rischio di batteriemia in seguito a cateterismo vescicale è basso,
poiché questa procedura è così frequente a livello ospedaliero, la
batteriemie associate a cateterismo urinario rappresentano il 15% di tutte le
batteriemie ospedaliere e il 30-40% di quelle da gram-negativi.
Tra
i pazienti cateterizzati per periodi brevi (meno di trenta giorni), E. coli
rappresenta il germe più frequente, assieme a Pseudomonas aeruginosa,
Klebsiella pneumoniae, Proteus mirabilis, Staphylococcus epidermidis e gli
enterococchi. Quando vi è un diffuso ricorso agli antibiotici, si isolano
frequentemente anche funghi. La maggior parte delle IVU nei cateterismi
"brevi" sono sostenute da un singolo germe.
Nei
pazienti cateterizzati per lunghi periodi (più di 30 giorni), fino al 95% delle
IVU sono polimicrobiche e, tra i microrganismi frequentemente in causa, vi sono
E. coli, P. aeruginosa, P. mirabilis, P. stuartii e Morganella morganii.
I
microrganismi causa di IVU possono far parte della flora endogena (a livello
dell'area periuretrale) oppure provenire da fonti esogene, per contaminazione
delle attrezzature usate per il cateterismo, attraverso le mani del personale o
prodotti o contenitori contaminati.
Una
volta che i microrganismi si trovino sul paziente o sulla superficie del
catetere, possono avere accesso alla vescica:
1)Al
momento dell'inserzione del catetere. L'uretra è, infatti, nornalmente
colonizzata, soprattutto nella parte distale. L'inserzione del catetere può
provocare la risalita di germi in vescica.
2)Attraverso
il lume del catetere. Il catetere a permanenza può essere manipolato e aperto
in modo scorretto, con conseguente possibile ingresso di microrganismi. Ciò si
verifica se: il catetere viene disconnesso dalla sacca, il prelievo di urine dal
catetere viene fatto non in asepsi, il rubinetto di svuotamento della sacca di
drenaggio viene effettuato non in asepsi.
3)Sulla
superficie esterna del catetere. Microrganismi presenti a livello del meato
uretrale possono risalire lungo lo spazio esistente tra catetere e mucosa
uretrale.
4)Dopo
la rimozione del catetere. Microrganismi che hanno colonizzato l'uretra durante
la cateterizzazione, possono risalire in vescica successivamente alla rimozione
del catetere.
Tra
i principali fattori che favoriscono lo sviluppo di IVU associate a cateterismo
vi è la suscettibilità intrinseca del catetere alla contaminazione.
È stato, infatti, dimostrato che i batteri che hanno accesso alla sacca
del drenaggio urinario possono essere rinvenuti dopo 24-48 ore in vescica e che,
anche quando arrivano in carica bassa, in meno di 24 ore tendono ad arrivare a
cariche superiori a 100.000 batteri/ml. Negli ultimi anni, inoltre, è stato
messo in evidenza come alcuni patogeni urinari, quali Pseudomonas e Proteus,
abbiano la capacità di produrre una matrice extracellulare di glicocalice
batterico che consente loro di aderire alla superficie plastica del catetere e
di nascondersi dai meccanismi di difesa dell'ospite.
Nel
determinismo delle infezioni delle vie urinarie giocano un ruolo fattori che
aumentano la suscettibilità dell'ospite (in quanto tali poco modificabili) e
fattori assistenziali. Tra i primi (tab.08
In
presenza di una infezione urinaria preesistente, la cistoscopia dà luogo a
batteriemia nel 15-20% dei pazienti. La resezione endoscopica della prostata si
associa a IVU nel 15-70% dei casi ed a batteriemia nel 15-30%.
Le
manipolazioni errate del sistema di drenaggio urinario si associano ad un
elevato rischio di contaminazione della sacca o del catetere: nei pazienti in
cui la sacca di drenaggio sia stata contaminata, il rischio di IVU è 4 volte
superiore ai pazienti senza contaminazione della sacca. La pratica di eseguire
irrigazioni vescicali è da considerarsi una pratica a rischio, a meno che non
si utilizzino cateteri a tre vie che consentono di mantenere il ciclo chiuso: la
disconnessione del sistema chiuso per eseguire irrigazioni vescicali è
assolutamente da evitare poiché si associa ad un consistente rischio di IVU.
La
prevenzione delle IVU può essere realizzata in tre diverse fasi: 1) prevenzione
della cateterizzazione; 2) una volta che il catetere sia stato posizionato,
prevenzione della batteriuria; 3) una volta che si verifichi la batteriuria,
prevenzione delle complicanze.
La
riduzione del numero di pazienti esposti rappresenta la misura più diretta per
ridurre il rischio; ciò può essere realizzato eliminando drasticamente tutti i
cateterismi effettuati per indicazioni non appropriate (ad esempio per ottenere
prelievi di urina o di routine nel caso di interventi chirurgici che non
interessino la vescica, l'apparato genitale femminile o quello
gastrointestinale), cercando strumenti alternativi alla cateterizzazione ove
possibile (ad esempio interventi farmacologici e rieducativi in caso di
incontinenza urinaria) o utilizzando metodiche diverse dal catetere uretrale per
drenare le urine (ad esempio i sistemi esterni di raccolta delle urine, tipo
"condom", nei pazienti maschi; la cateterizzazione sovrapubica in
pazienti chirurgici; il cateterismo a intermittenza nei pazienti con lesioni
spinali o con vescica neurogena).
Una
volta che il cateterismo uretrale sia stato considerato necessario, vi sono solo
due misure di efficacia dimostrata: a) utilizzare una sacca di drenaggio che
consenta di mantenere il ciclo chiuso (sacca con rubinetto) e non interrompere
mai, per alcun motivo, il ciclo chiuso; b) rimuovere il catetere il più presto
possibile. Per non contaminare il sistema di drenaggio, è importante evitare
qualsiasi disconnessione della sacca dal catetere: la sacca deve essere vuotata
solo attraverso il rubinetto distale ed avendo cura di non contaminare il
rubinetto con le mani o con la superficie del contenitore utilizzato per
svuotarla. È, anche, importante effettuare in asepsi tutte le manovre di
manipolazione del catetere. Le mani si possono contaminare con urine infette e
possono rappresentare un importante veicolo di trasmissione: è, quindi,
fondamentale lavare ed asciugare le mani prima di manipolare i sistemi di
drenaggio urinario e dopo essere stati a contatto con urine o con attrezzature
contaminate con urine.
Negli
ultimi anni sono state proposte molte misure mirate a prevenire le infezioni a
partenza endogena (prevenzione della colonizzazione dell'area periuretrale,
prevenzione dell'adesione dei batteri alla superficie del catetere): né gli
studi sull'efficacia della disinfezione giornaliera del meato uretrale, né dei
nuovi cateteri di silicone o di quelli impregnati di ioni di argento hanno,
tuttavia, prodotto evidenze sicuramente positive, anche se i risultati relativi
ai cateteri impregnati con ioni di argento sono più incoraggianti rispetti agli
altri.
Spesso
i pazienti cateterizzati ricevono antibiotici a causa della loro patologia di
base: alcuni Autori hanno osservato che i pazienti cateterizzati ai quali
venivano somministrati antibiotici avevano una frequenza di IVU inferiore a
quelli non trattati; l'effetto degli antibiotici è, tuttavia, solo quello di
posporre di alcuni giorni l'insorgenza di batteriuria e di indurre
successivamente la comparsa di germi resistenti. Allo stato attuale, non viene
quindi raccomandata la somministrazione di antibiotici ai pazienti
cateterizzati.
L'esecuzione
di urinocolture giornaliere allo scopo di identificare precocemente i soggetti
batteriurici è stata dimostrata essere una pratica da non adottare: è stato
stimato, infatti, che per prevenire una sola infezione urinaria sintomatica,
sarebbero necessarie 250 urinocolture. Il trattamento antibiotico dei pazienti
cateterizzati batteriurici non viene raccomandato, poiché la batteriuria
scompare generalmente alla rimozione del catetere. In pazienti ancora
batteriurici alla rimozione del catetere, alcuni Autori suggeriscono di
effettuare trattamento antibiotico. Nei pazienti con cateterismo cronico, è
sconsigliato il trattamento antibiotico.
La
tabella 9 sintetizza le misure preventive raccomandate dai Centers for Disease
Control di Atlanta (USA), suddivise in ragione della priorità di adozione.
Le
infezioni della ferita chirurgica continuano a rappresentare una complicanza
frequente e temibile per i pazienti che si sottopongono ad un intervento
chirurgico: in ospedale, rappresentano la seconda localizzazione in ordine di
frequenza tra tutte le infezioni ospedaliere. Le infezioni della ferita
chirurgica comprendono: a) infezioni superficiali, che interessano solo la cute
e il sottocutaneo; b) infezioni profonde, che interessano gli strati muscolari e
fasciali; c) infezioni che interessano organi e cavità profonde, quali ad
esempio peritonite, empiema, meningite ecc.
La
frequenza di infezioni della ferita chirurgica è determinata da numerosi
fattori: tra questi, uno dei più importanti è rappresentato dalla carica
batterica presente sul sito operatorio al momento dell'intervento, che a sua
volta dipende dal distretto del corpo interessato dall'incisione: gli interventi
sull'intestino, ad esempio, sono associati ad una contaminazione microbica
dell'area operatoria (a partenza dalla flora intestinale) molto più elevata di
quanto si verifichi nel caso di una mastectomia. Per questo motivo, a partire
dagli anni '70, i chirurghi hanno sempre calcolato i tassi di incidenza non sul
totale degli interventi, ma stratificando per interventi puliti,
puliti-contaminati, contaminati e sporchi sulla base della quantità attesa di
batteri sul sito operatorio (interessamento degli apparati respiratorio,
intestinale e genitourinario; interruzione delle procedure asettiche; presenza
di trauma o di processo flogistico).
Recentemente
è stato proposto di riportare l'incidenza di infezioni della ferita chirurgica
tenendo conto, oltre che della classe di intervento, anche delle condizioni di
gravità clinica dell'ospite e della durata dell'intervento. A tale scopo è
stato messo a punto un sistema di classificazione degli interventi (Infection
Risk Index - IRI) basato sulla valutazione preoperatoria del paziente sulla base
del sistema ASA, sulla classe di intervento e sulla durata dell'intervento
stesso. La tabella 10 riporta il range, per classe IRI, dei tassi di incidenza
della ferita chirurgica secondo il NNIS nel periodo 1986-1995. Gli interventi
per i quali si registra una incidenza più elevata di infezioni sono gli
interventi di trapianto di organo, gli interventi sul colon, sullo stomaco, di
chirurgia vascolare, sull'apparato biliare, sul piccolo intestino e su testa e
collo.
I
microrganismi patogeni cambiano in relazione al tipo di intervento. Negli
interventi puliti, la maggior parte delle infezioni sono sostenute da
gram-positivi ed, in particolare, da stafilococchi (S. aureus, S. epidermidis e
altri stafilococchi coagulasi-negativi). Negli interventi contaminati, invece, i
patogeni implicati sono spesso quelli che fanno parte della normale flora
dell'organo interessato dall'intervento; negli interventi sul colon, ad esempio,
sono frequenti E. coli e Bacteroides fragilis. Sono anche comuni le infezioni
polimicrobiche.
L'insorgenza
di una infezione dopo l'intervento chirurgico dipende da una complessa
interazione tra: 1) fattori del paziente, quali stato immunitario, stato
nutrizionale e la presenza o assenza di diabete; 2) fattori della ferita
operatoria, quali l'entità del trauma tissutale, devitalizzazione, spazi morti,
ematoma ecc. che accompagnano l'intervento; 3) fattori microbici, inclusi gli
enzimi che mediano l'invasione tissutale o che consentono al batterio di
sopravvivere alle difese dell'ospite o le difese aggiuntive farmacologiche (ad
esempio la profilassi perioperatoria).
La
maggior parte delle infezioni della ferita chirurgica viene acquisita durante
l'intervento: se una ferita è pulita e asciutta, infatti, nell'arco di poche
ore dall'intervento non è più suscettibile all'aggressione da parte dei
microrganismi. In fase postoperatoria, le infezioni possono essere acquisite
attraverso i drenaggi chirurgici o, nel caso di infezioni non ancora
rimarginate, al momento della medicazione. La tabella 11 elenca le principali
fonti di infezione della ferita chirurgica. Le più comuni sono rappresentate
dal contatto diretto con la flora cutanea del paziente e i tessuti dell'ospite
infetti o contaminati nel corso di interventi contaminati. Seguono le mani dello
staff chirurgico, la trasmissione per via aerea di microrganismi presenti su
cute, mucose o vestiti del paziente e dello staff chirurgico, i drenaggi
chirurgici. Tutte le altre fonti elencate in tabella danno luogo raramente ad
una infezione.
Numerosi
fattori dell'ospite sono stati storicamente associati ad un aumento del rischio
di infezione (tab.12
Molte
pratiche assistenziali sono state associate ad un aumento del rischio di
infezione postoperatoria: la sede dell'intervento è stata già ricordata come
uno dei principali determinanti del rischio. La qualità della tecnica
chirurgica e la durata dell'intervento sono altri due fattori cruciali nel
determinare l'entità del rischio. La resistenza della ferita all'aggressione
microbica è profondamente influenzata dal grado di emostasi e
vascolarizzazione, dalla rimozione di tutti i tessuti devitalizzati, dalla
obliterazione degli spazi morti, dalla scelta delle suture e dalle modalità di
chiusura della ferita: per questo motivo il "chirurgo che effettua
l'intervento" rappresenta un fattore di rischio così importante, che
nell'ambito dei sistemi di sorveglianza di queste infezioni vengono calcolati e
fatti conoscere ai chirurghi i tassi di infezione chirurgo-specifici, aggiustati
per tipo di pazienti operati. Il rischio di infezione aumenta anche
all'aumentare della durata dell'intervento; ciò è attribuibile a diversi
fattori: aumento della probabilità di contaminazione della ferita operatoria,
maggiore traumatizzazione della ferita, soppressione delle difese sistemiche,
minore concentrazione dell'équipe chirurgica a causa della fatica fisica.
L'impianto
di corpi estranei aumenta la suscettibilità della ferita all'infezione: negli
interventi con inserimento di protesi, l'incidenza di infezione è sempre più
elevata rispetto ad interventi analoghi che non prevedono l'impianto di protesi.
La tricotomia effettuata con rasoio causa microtraumi della cute, che si
colonizzano facilmente: tanto più questa procedura viene fatta a distanza
dall'intervento, tanto maggiore sarà la probabilità di colonizzazione del sito
operatorio. Il rischio di infezioni trasmesse per via aerea in sala operatoria
dipende dalla quantità di persone presenti e da quanto queste si muovono e
parlano: qualsiasi di queste azioni aumenta, infatti, la quantità di
microrganismi dispersi nell'aria. L'utilizzo di drenaggi chirurgici aperti nella
fase postoperatoria è stato associato ad un aumento del rischio di infezione di
quattro volte.
Le
misure preventive proposte possono essere suddivise in: 1) misure atte a ridurre
l'inoculo batterico nel sito operatorio; 2) misure mirate ad incrementare le
capacità dell'ospite nel contrastare efficacemente l'azione dei batteri che
colonizzano la ferita (tab.13
Le
infezioni ospedaliere delle basse vie respiratorie rappresentano, in ordine di
frequenza, la terza causa di infezione, ma sono le infezioni ospedaliere più
frequentemente fatali: il 15% circa di tutti i decessi per infezione ospedaliera
è, infatti, direttamente riconducibile ad una polmonite ospedaliera.
Tra
le polmoniti ospedaliere vengono incluse entità con caratteristiche
epidemiologiche molto diverse: 1) le polmoniti sostenute da microrganismi e
virus di provenienza comunitaria (tubercolosi, infezioni da virus respiratori
ecc.), che si trasmettono in ospedale con meccanismi simili a quelli che ne
sostengono la trasmissione in qualsiasi comunità; 2) le polmoniti
postoperatorie in pazienti chirurgici; 3) le polmoniti in pazienti sottoposti a
ventilazione assistita; 4) le polmoniti fungine in pazienti profondamente
immunodepressi.
Nel
1986-88, l'incidenza globale di polmonite riportata al NNIS era pari a 0,6 casi%
pazienti dimessi, variando da 0,4% negli ospedali non universitari a 0,7% negli
ospedali universitari con più di 500 posti letto. Le Terapie Intensive per
adulti rappresentano in assoluto i reparti più a rischio di polmonite:
l'incidenza varia da 0,5 a 15% nei diversi studi. Seguono i reparti per
ustionati (3,6%), la patologia neonatale (2,5%), la cardiochirurgia (1,9%), la
neurochirurgia (1,3%) e la chirurgia generale (1,2%).
Nei
pazienti ventilati, l'incidenza di polmonite arriva fino a 6-20‰ giornate di
ventilazione assistita, a seconda del tipo di pazienti considerati.
La
distribuzione degli agenti patogeni responsabili varia nei diversi ospedali in
ragione del tipo di pazienti trattati e delle tecniche diagnostiche utilizzate
(capacità di isolare i virus e gli anaerobi): in generale, tuttavia, i batteri
rappresentano i patogeni più frequenti. Le polmoniti batteriche nosocomiali
sono frequentemente polimicrobiche e sostenute da gram-negativi (Pseudomonas
aeruginosa, Enterobacter spp., Klebsiella spp,, E. coli, Serratia spp., Proteus
spp, Citrobacter spp., Acinetobacter spp., H. influenzae, Legionella spp.).
Recentemente, sono tuttavia emersi come patogeni significativi anche lo S.
aureus (soprattutto meticillina-resistente) e lo Streptococcus pneumoniae.
I
batteri possono invadere il tratto respiratorio inferiore attraverso tre
meccanismi: 1) aspirazione di batteri colonizzanti il tratto orofaringeo o
gastrico; 2) inalazione di aerosol contenenti batteri; 3) diffusione ematogena
di batteri da una localizzazione remota (meno frequente rispetto agli altri).
Recentemente, è stato ipotizzato che la traslocazione batterica dal tratto
gastrointestinale possa rappresentare una quarta via di trasmissione.
Tra
tutte queste vie, l'aspirazione viene considerata la più importante sia per
quanto concerne le polmoniti nosocomiali che quelle comunitarie. I soggetti con
meccanismi di deglutizione alterati, sottoposti a strumentazione del tratto
respiratorio o gastrointestinale o che hanno effettuato un intervento chirurgico
hanno un rischio elevato di aspirazione. I pazienti ricoverati in ospedale,
inoltre, soprattutto se in gravi condizioni cliniche, sono molto frequentemente
colonizzati da gram-negativi a livello dell'orofaringe. Alcune condizioni
cliniche, quali la malnutrizione, una grave patologia di base o lo stato
postoperatorio possono aumentare l'adesività da parte dei batteri gram-negativi
alla mucosa orofaringea.
Anche
lo stomaco viene considerato un serbatoio importante di microrganismi causa di
polmonite ospedaliera: la colonizzazione gastrica aumenta nei pazienti di età
avanzata, con acloridria, patologie dell'ileo o del tratto gastrointestinale
superiore, in pazienti in alimentazione enterale o trattati con antiacidi o
antagonisti dell'istamina.
L'inalazione
di aerosol contaminati si verifica per contaminazione dell'attrezzatura
respiratoria o per anestesia a causa del contatto con mani del personale
colonizzate, inadeguata disinfezione o sterilizzazione dei presidi, utilizzo di
acqua e liquidi contaminati.
La
tabella 14 sintetizza i principali fattori di rischio per le polmoniti
ospdaliere.
In
tutti i tipi di polmoniti giocano un ruolo centrale le condizioni di base del
paziente. Nelle polmoniti batteriche, oltre a ciò, sono rilevanti soprattutto
le procedure invasive ed assistenziali al quale il paziente viene sottoposto: la
ventilazione meccanica assistita continua aumenta il rischio di polmonite da 6 a
21 volte; la colonizzazione temporanea o permanente delle mani del personale
rappresenta un fenomeno molto frequente soprattutto nei reparti di terapia
intensiva e, nel corso di procedure assistenziali, i microrganismi colonizzanti
possono essere trasmessi al paziente; l'uso intensivo di antibiotici aumenta il
rischio di colonizzazione orofaringea e gastrica dei pazienti. Nell'aspergillosi
e nella legionellosi, invece, assumono importanza i fattori ambientali
ospedalieri ed, in particolare, la presenza di Legionella nei sistemi idrici o
di condizionamento o di Aspergilli nei sistemi di condizionamento e ventilazione
o nelle polveri mobilizzate durante lavori edili. Le polmoniti virali, infine,
fanno in genere seguito a epidemie in comunità che si verificano in un
particolare periodo dell'anno, colpiscono sia soggetti sani che ammalati e
vengono trasmesse per via crociata da personale o altri pazienti infetti.
Recentemente,
i Centers for Disease Control hanno rivisto le raccomandazioni per la
prevenzione della polmonite ospedaliera, precedentemente pubblicate all'inizio
degli anni '80. Le misure considerate efficaci a prevenire le polmoniti
batteriche vengono sintetizzate in tabella 15; per la discussione analitica
delle modalità di esecuzione di tali misure e di quelle relative alla polmonite
da Legionella, da Aspergilli e virale si rimanda al documento originale (vedi:
Principali letture consigliate).
L'uso
di dispositivi intravascolari è diventato sempre più frequente in ospedale,
per somministrare liquidi per via endovenosa, farmaci, derivati del sangue e
soluzioni per la nutrizione parenterale, e per monitorare lo stato emodinamico
dei pazienti. L'uso di tali dispositivi si associa, tuttavia, ad un rischio
elevato di complicanze infettive: tromboflebiti settiche, endocarditi,
batteriemie e infezioni metastatiche come risultato della diffusione ematogena
di germi in altre sedi del corpo.
Tra
il 1980 e il 1990 è stato segnalato negli Stati Uniti un forte aumento della
incidenza di batteriemia primitiva, che è stata attribuita in primo luogo al
sempre più frequente ricorso a cateteri intravascolari.
L'incidenza
di complicanze infettive varia notevolmente in rapporto al tipo di catetere
preso in considerazione: il catetere che si associa al rischio più elevato di
infezioni è il catetere venoso centrale, soprattutto quando utilizzato per
emodialisi. Tra il 1986 e il 1990, il NNIS ha riportato nelle terapie intensive
una incidenza di batteriemie associate ai cateteri centrali che variava da 2,1
nelle terapie intensive respiratorie a 30,2 nelle terapie intensive per
ustionati per 1000 giorni di catetere centrale. I tassi associati ai cateterismi
periferici sono più bassi: da 0 in unità intensive coronariche, mediche e
medico-chirurgiche a 2 in unità intensive traumatologiche per 1000 giorni di
catetere non-centrale.
Per
i cateterismi di lunga durata (tunnellizzati, sottocutanei), l'incidenza
riportata in letteratura è pari a 0,10-0,53‰ giornate di cateterismo nei
cateteri tunnellizzati ed è inferiore in quelli sottocutanei (0-0,10).
I
patogeni isolati più frequentemente nelle infezioni associate a catetere sono
rappresentati dagli stafilococchi coagulasi-negativi, in particolare
Staphylococcus epidermidis (28% di tutte le batteriemie riportate dal NNIS tra
il 1986 e il 1989). I fattori che hanno determinato l'emergere di questo
microrganismo come causa principale di infezioni sono diversi: aumento dell'uso
di dispositivi protesici a permanenza; migliore sopravvivenza dei neonati con
basso peso alla nascita e aumento dell'uso di lipidi in questi pazienti;
riconoscimento del loro ruolo patogeno (precedentemente venivano considerati
semplici commensali).
Tra
gli altri microrganismi frequentemente in causa vi sono: lo S. aureus (16% di
tutte le batteriemie); gli enterococchi (8%), che pongono particolari problemi
soprattutto per l'emergere di ceppi vancomicina-resistenti; i miceti
(soprattutto Candida spp.), che sono raddoppiati come frequenza tra il 1980 e il
1990.
I
gram-negativi sono meno frequentemente causa di batteriemia, ma sono
responsabili della maggioranza delle infezioni associate a monitoraggio della
pressione e alla contaminazione intrinseca dei liquidi di infusione endovenosi.
Le
infezioni associate a cateterismo intravascolare possono verificarsi per effetto
della: a) colonizzazione del catetere; b) contaminazione del liquido di
infusione. La tabella 16 sintetizza le principali fonti di infezione e
meccanismi di trasmissione.
L'importanza
relativa della colonizzazione del sito di inserzione e dell'"hub" nel
determinare le infezioni associate a catetere è stata, ed è ancora oggi, fonte
di continui dibattiti: è probabile che la colonizzazione dell'"hub"
sia prevalente nei cateterismi a lungo termine (> 30 giorni), mentre la
colonizzazione del sito cutaneo sia prevalente nei cateterismi di breve durata
(<10 giorni). Rispetto a questi due meccanismi, la disseminazione ematogena e
la somministrazione di infusioni contaminate sono molto meno frequentemente
causa di infezione.
Il
materiale di cui è composto il dispositivo e le proprietà intrinseche dei
microrganismi infettanti rappresentano altri due importanti fattori patogenetici:
i cateteri in cloruro di polivinile o in polietilene sono meno resistenti
all'adesione da parte dei microrganismi; analogamente i cateteri con superfici
irregolari facilitano l'adesività. Per quanto concerne i microrganismi, gli
stafilococchi coagulasi-negativi hanno una grande capacità di aderire alla
superficie dei polimeri; inoltre, alcuni ceppi producono un polisaccaride
denominato slime che consente loro di resistere ai meccanismi di difesa
dell'ospite e di essere meno suscettibili all'azione degli antibiotici.
Alcune
specie di Candida in presenza di glucosio possono produrre uno slime simile a
quello dei batteri.
La
tabella 17 riporta i principali fattori di rischio per le infezioni associate a
catetere.
Il
rischio di infezione aumenta con l'aumentare della durata di esposizione a
catetere: il rischio giornaliero di infezione è pari a 1% per i cateteri venosi
periferici, a 2% per i cateteri arteriosi e a 3% per quelli venosi centrali. I
cateteri inseriti nelle vene degli arti inferiori si associano ad un rischio
più elevato di infezione rispetto a quelli inseriti negli arti superiori; i
cateteri inseriti nella mano presentano un rischio inferiore di flebite,
rispetto a quelli inseriti nelle vene del braccio o del polso; i cateteri venosi
centrali inseriti per via giugulare presentano una frequenza più elevata di
infezioni rispetto a quelli inseriti attraverso la succlavia. L'entità del
trauma locale al momento dell'inserzione condiziona il rischio di infezione: i
cateteri inseriti con preparazione chirurgica del vaso hanno un rischio più
elevato, come anche i cateteri inseriti per via percutanea quando siano stati
necessari numerosi tentativi. I cateteri utilizzati per il monitoraggio della
pressione arteriosa si associano ad un rischio più elevato perché vengono
effettuate manipolazioni frequenti per effettuare le letture seriate e perché
vengono ottenuti frequenti campioni di sangue attraverso il catetere.
Analogamente i cateteri utilizzati per nutrizione parenterale presentano un
elevato rischio di contaminazione, data l'estrema suscettibilità dei lipidi
alla contaminazione microbica.
La
tabella 18 sintetizza le principali raccomandazioni dei Centers for Disease
Control per la prevenzione delle infezioni associate a dispositivi vascolari:
per una discussione più dettagliata si rimanda al testo originale (vedi:
Principali letture consigliate).
I
progressi conseguiti in ambito medico consentono oggi la sopravvivenza di
pazienti profondamente immunodepressi, aumentando, quindi, il rischio di
infezioni gravi. Tra i cambiamenti che hanno maggiormente determinato l'aumento
in ospedale del numero di soggetti immunodepressi vi sono: il miglioramento
nella prognosi di pazienti gravi (ad esempio i pazienti oncologici), la sempre
maggiore diffusione di nuove tecnologie sanitarie quali il trapianto di midollo
o di organi solidi, l'ampio ricorso alla chemioterapia, i progressi conseguiti
nell'assistenza ai neonati patologici, il sempre più largo ricorso alla
chirurgia protesica ed a procedure invasive.
I
principali fattori che predispongono questi pazienti alle infezioni sono:
1)neutropenia;
2)alterazione
della immunità cellulare;
3)alterazione
dell'immunità umorale;
4)danno
delle misure di barriera (danno cutaneo e mucoso);
5)fenomeni
ostruttivi;
6)alterazioni
del sistema nervoso centrale;
7)esposizione
a procedure invasive, quali i cateteri vascolari impiantati a permanenza.
Le
infezioni si sviluppano nella maggior parte dei casi al momento della
neutropenia (soprattutto quando la conta dei neutrofili scende sotto a 500/µl)
e sono sostenute da microrganismi che colonizzano il paziente in quel momento.
La flora colonizzante viene il più delle volte acquisita dopo il ricovero del
paziente in ospedale, attraverso i contatti con il personale, con altri
pazienti, con fonti ambientali, incluse acqua e cibo. I microrganismi hanno
gradi diversi di virulenza: alcuni (quale, ad esempio, P. aeruginosa) hanno una
grande propensione a produrre infezione, spesso sistemica, in presenza di
neutropenia; altri (altre specie di Pseudomonas, Citrobacter spp., Proteus spp.)
danno origine molto meno frequentemente ad infezione. I microrganismi
responsabili di infezione sono sia gram-negativi (E. coli, Klebsiella spp,
Enterobacter spp., Serratia spp, Proteus spp, Pseudomonas aeruginosa), che
gram-positivi (stafilococchi, streptococchi). Negli ultimi anni sono fortemente
aumentate in questi pazienti le infezioni sostenute da gram-positivi e quelle
sostenute da funghi (soprattutto Candida albicans). Mycobacterium tuberculosis,
Pneumocystis carinii e il virus della rosolia sono stati nuovamente rilevati
come causa di infezione. Sempre più frequentemente le infezioni sono sostenute
da microrganismi multiresistenti (enterococchi, coliformi e Pseudomonas). La
tabella 19 sintetizza le principali misure preventive delle infezioni in
pazienti oncologici.
Le
infezioni rappresentano il problema principale in seguito a trapianto e le
manifestazioni di queste complicanze infettive cambiano in relazione alle
condizioni dell'ospite, al tipo di trapianto, al microrganismo in causa. La
maggior parte delle infezioni gravi si manifesta nei primi 3-4 mesi dopo il
trapianto. È in questo
periodo, infatti, che i diversi fattori di rischio di infezione sono
maggiormente attivi: a) il paziente può ancora soffrire gli effetti diretti o
indiretti della sua patologia di base e le conseguenze di colonizzazioni o
infezioni preesistenti; b) l'intervento chirurgico, il ricovero in terapia
intensiva possono aver condizionato l'acquisizione di infezioni ospedaliere; c)
i farmaci immunosoppressori somministrati ad alte dosi condizionano una maggiore
suscettibilità alle infezioni; d) possono svilupparsi infezioni da Herpesvirus,
Epstein-Barr virus, Pneumocystis e Toxoplasma trasmesse attraverso gli organi
donati o attraverso il sangue; e) possono verificarsi reazioni graft-versus-host.
I
microrganismi causa di infezione nei pazienti trapiantati sono moltissimi:
batteri gram-negativi (batteri enterici, Pseudomonas, Acinetobacter, Serratia,
anaerobi, Legionella); batteri gram-positivi (stafilococchi, streptococchi,
enterococchi, pneumococchi, H. influenzae, Listeria monocytogenes); funghi
(Candida spp., Aspergillus, Cryptococcus); virus (gruppo degli Herpesvirus, HIV,
virus delle epatiti, RSV, Rotavirus); micoplasmi, protozoi e parassiti (Pneumocystis
carinii, Toxoplasma gondii, Strongyloides stercoralis). Questi microrganismi
vengono acquisiti da: 1) fonti endogene, quali la flora colonizzante la mucosa
intestinale e la cute (Candida, microrganismi enterici) o infezioni latenti che
si riattivano al momento della immunodepressione (Herpesvirus, Pneumocytis,
Toxoplasma, bacilli tubercolari); 2) infezioni esogene, a partenza dall'ambiente
(Legionella, Aspergilli), da soggetti colonizzati o infetti, trasmessi dagli
organi donati (CMV, Toxoplasma, Herpes simplex, HIV, HBV) o attraverso il sangue
e i prodotti del sangue (CMV, EBV, HIV, HBV, HAV, HDV, HCV, HTLV-1).
La
prevenzione di queste infezioni si basa, oltre che sulle misure già elencate in
tabella 19, sullo screening infettivologico pre-trapianto del ricevente e del
donatore, sulla sorveglianza virale di routine (CMV, HSV) nei primi 3 mesi dopo
il trapianto, la chemioprofilassi antibiotica perioperatoria, la adozione di
protocolli standard per la diagnosi e il trattamento precoce delle infezioni.
La
crescente diffusione dell'impianto di materiali protesici (protesi valvolari e
cardiache, ortopediche, derivazioni del sistema nervoso centrale, protesi
oculari, cateteri per emodialisi e dialisi peritoneale, dispositivi intrauterini
ecc.) si associa ad un proporzionale aumento delle infezioni associate.
L'incidenza di infezioni varia in rapporto al tipo di protesi (vedi tabella 5).
Le infezioni associate a materiali protesici presentano alcuni aspetti comuni
rilevanti:
-negli
ultimi anni si è osservata una progressiva riduzione del rischio di infezione
in seguito al posizionamento di tali dispositivi, ma un aumento del numero
assoluto di infezioni attribuibili (dato l'aumento del numero di pazienti
esposti);
-i
microrganismi più frequentemente causa di infezione sono gli stafilococchi
soprattutto coagulasi-negativi, data la loro capacità di adesione alle protesi,
e la carica batterica sufficiente a produrre infezione è molto ridotta;
-le
infezioni possono insorgere anche molto tempo dopo l'intervento (infezioni
tardive), il che rende difficile la stima accurata della frequenza con cui si
verificano;
-le
due principali fonti di infezione sono rappresentate dalla contaminazione al
momento dell'intervento e dalla disseminazione per via ematogena di batteri a
partenza da un altro sito di infezione;
-sono
infezioni difficilmente trattabili senza ricorrere alla rimozione dell'impianto
infetto;
-l'incidenza
di infezioni è molto variabile da un centro all'altro, in ragione del tipo di
pazienti trattati ma soprattutto delle misure preventive adottate.
Il
rischio per gli operatori sanitari di acquisire una infezione durante la loro
attività lavorativa è stato enfatizzato dal momento in cui è comparso il
virus dell'immunodeficienza acquisita; tuttavia, gli operatori sono a rischio di
contrarre molte altre patologie infettive e quella da HIV, pur essendo associata
ad una elevata letalità, si associa ad un rischio molto basso di trasmissione.
La tabella 20 riporta le principali infezioni occupazionali unitamente al
rischio di trasmissione, al tipo di personale ospedaliero maggiormente
interessato e alle misure preventive.
L'obiettivo
principale di un programma di controllo è ridurre il rischio di infezioni
ospedaliere, proteggendo così i pazienti, i lavoratori e i visitatori.
Le
principali funzioni di un programma di controllo sono elencate in tabella 21.
Tutti
i Paesi che hanno avviato programmi di controllo delle infezioni ospedaliere
hanno scelto soluzioni organizzative assolutamente sovrapponibili: un Comitato
multidisciplinare a livello ospedaliero, con funzioni di pianificazione e
controllo, e un gruppo operativo, con funzioni di attuazione operativa degli
interventi decisi. Ciò che varia da Paese a Paese è la composizione del
Comitato di controllo e la qualifica professionale delle figure operative. In
Italia, il Ministero della Sanità ha raccomandato la creazione di un Comitato
di controllo nella Circolare 52 del 1985, nella quale vengono indicati i criteri
su cui basarsi per avviare programmi di lotta alle infezioni ospedaliere.
"Il Comitato, coadiuvato dal Direttore Sanitario, deve comprendere almeno
un rappresentante delle altre aree funzionali, ma esperti in igiene, in malattie
infettive ed in microbiologia devono costituire le figure essenziali, così come
è fondamentale la presenza del dirigente del personale infermieristico. Il
Comitato designerà un ristretto gruppo operativo cui affidare specifiche
mansioni del programma...". Tale necessità è stata ribadita dal Decreto
sugli Standard Ospedalieri (DPR 109/1988).
Nella
Circolare 52 del 1985 viene anche raccomandato l'impiego in ciascun ospedale di
una o più infermiere addette al controllo delle infezioni ospedaliere, con
funzioni di sorveglianza, educazione del personale, collegamento tra il Comitato
e le diverse aeree ospedaliere e modifica dei comportamenti scorretti del
personale di assistenza.
Negli
Stati Uniti, lo Study on the Efficacy of Nosocomial Infection Control (SENIC) ha
dimostrato che adottando programmi efficaci di controllo (un programma dotato
di: un sistema di sorveglianza; una infermiera addetta al controllo delle
infezioni ogni 250 posti letto; un medico epidemiologo addetto; la preparazione
di rapporti periodici per i chirurghi sul loro tasso di infezioni) sono in grado
di prevenire fino al 35% delle infezioni ospedaliere globalmente considerate. Le
infezioni maggiormente prevenibili sono le infezioni delle vie urinarie in
pazienti cateterizzati (41%), le infezioni della ferita chirurgica (41%), le
batteriemie (35%).
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